Fin d’ora ringrazio
per le sue bellissime
fotografie
Le faggete
vetuste del Parco Nazionale e la Riserva Integrale di Sasso Fratino entrano a
far parte della lista del patrimonio mondiale dell’UNESCO. La decisione è stata
presa lo scorso venerdì 7 luglio a Cracovia durante i lavori della 41 sessione
della Commissione per il Patrimonio Mondiale dell’UNESCO, che ha deciso di
estendere il riconoscimento già attribuito alle faggete dei Carpazi a quelle di
altri 10 Paesi Europei. Diventano così 12 i Paesi con la presenza di siti
naturali di faggete vetuste iscritti al Patrimonio mondiale: Italia, Austria,
Belgio, Slovenia, Spagna, Albania, Bulgaria, Croazia, Germania, Romania,
Slovacchia e Ucraina.
L’Italia entra nella rete transnazionale con 10 siti dei 63 proposti, ognuno dei quali è stato selezionato per la sua unicità biologica ed ecologica, come elemento caratterizzante di un aspetto della rete continentale, la cui diversità ecologica complessiva costituisce il patrimonio vero e proprio da salvaguardare. Le faggete del Parco Nazionale entrano nella lista del patrimonio mondiale insieme ad alcune faggete del Parco Nazionale d’Abruzzo, del Parco Nazionale del Gargano, del Parco Nazionale del Pollino e alla faggeta di Monte Raschio nel Parco Regionale di Bracciano e di Monte Cimino nel Comune di Soriano del Cimino.
Sebbene l’Italia detenga il maggior numero di siti UNESCO nel mondo, solo 4 di essi hanno ottenuto il riconoscimento per gli aspetti naturali: per il nostro Paese, si tratta quindi della prima iscrizione di un patrimonio naturale espressamente per il suo valore ecologico di rilievo globale.
Il riconoscimento da parte dell’UNESCO porta a compimento un lungo lavoro, che negli ultimi 3 anni è stato coordinato dal Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise per tutti gli Enti italiani coinvolti e che è partito dal basso e fortemente voluto dagli Enti gestori dei Parchi nazionali e dalle comunità locali. Il Ministero dell’Ambiente ha preso atto di questa volontà e sostenuto la candidatura nei momenti salienti del percorso. I 10 Paesi Europei, coordinati dall’Austria, hanno presentato l’iscrizione nella Tentative List dell’Unesco nel gennaio 2015 e presentato un corposo fascicolo di candidatura nel gennaio 2016, corredato dalle risultanze di anni di studio. Dal punto di vista scientifico il percorso è stato seguito dall’Università Della Tuscia con i Professori Gianluca Piovesan e Alfredo Di Filippo.
L’iscrizione nella lista del patrimonio mondiale è il riconoscimento di un lungo lavoro di conservazione e di studio che i Parchi italiani fanno dimostrando che con un lavoro di squadra e di rete si possono raggiungere risultati importanti. Da oggi i Parchi coinvolti si trovano sicuramente con una responsabilità in più: mantenere questi siti nelle migliori condizioni di conservazione possibili, visto che ormai sono patrimonio di tutta l’umanità.
L’area
designata per il Parco Nazionale comprende la Riserva Integrale di Sasso
Fratino per un totale di circa 782 ha e una vasta area circostante pari a circa
6.942 ha, per un totale di circa 7.724,28 ha, comprendente le Riserve
Biogenetiche Casentinesi e altre aree all’interno del Parco Nazionale. Il sito
rappresenta quindi l'area di maggiori dimensioni tra quelle designate in Italia
e uno dei più estesi complessi forestali vetusti d’Europa.
Il Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise si estende su una superficie di circa 50.000 ettari, in un’area dell’Appennino Centrale laddove le tre Regioni che ne caratterizzano il nome si incontrano. Imponenti dorsali della catena appenninica (Monte Cornacchia, Monte Serrone, Serra del Re, Serra delle Gravare e Montagna Grande, Monte Marsicano) s’innalzano a nord, dall’antico bacino del Fucino, e sembrano fondersi, in corrispondenza della Camosciara, in un’unica catena montuosa che, raggiunto il culmine altimetrico del Monte Petroso (2.249 m), prosegue verso sud-est fino a terminare con le Mainarde, creando, con contrafforti e incisioni vallive o piccole conche pianeggianti di origine glaciale o modellate dal fiume Sangro e dai suoi affluenti, un sistema montuoso vario, articolato e complesso.
Le rocce che formano i rilievi del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise sono costituite prevalentemente dai sedimenti depositatisi in una porzione del mare della Tetide che, nell’era Mesozoica, separava il continente euroasiatico dal continente africano. In questo vasto mare si accumulavano i sedimenti che provenivano dallo smantellamento dei continenti e i depositi carbonatici prodotti dall’attività biologica.
Processi di trasformazione in rocce dei sedimenti, movimenti tettonici, erosione, fenomeni di glacialismo e carsismo, dovuti alla natura carbonatica delle rocce, hanno poi modellato queste montagne che, a versanti tondeggianti e in lieve declivio, alternano imponenti pareti sub-verticali.
Spicca per
maestosità l’anfiteatro della Camosciara dove affiorano, insieme alle rocce
carbonatiche, le dolomie che conferiscono a questo angolo dell’Appennino un
aspetto decisamente “alpino”.
Costituito già dal 1921 con iniziativa privata, su appena 100 ettari delle vette più alte della Camosciara, è stato riconosciuto ufficialmente con legge dello Stato nel 1923, dapprima con il nome di Parco Nazionale d’Abruzzo e quindi, nel 2001, con la denominazione attuale, anche per effetto dei suoi ampliamenti che hanno interessato la catena montuosa che fa da spartiacque tra Lazio e Molise. Ai suoi circa 50.000 ettari attuali di area protetta vera e propria, si aggiunge una fascia esterna, estesa oltre 70.000 ettari, che le fa da contorno e per la quale valgono per lo più norme restrittive per l’attività venatoria.
È un Parco abitato: borghi e piccoli paesi di impianto medioevale, o talora recentissimi per insediamenti post-sisma o per sviluppo turistico, sono sparsi, adagiati su conche o arroccati su promontori montuosi, sia all’interno dell’area protetta sia, più spesso, al suo margine, nella fascia di protezione esterna o Area Contigua.
L’attività
economica trainante dell’area centrale del Parco (Alto Sangro) è senza dubbio
quella turistica, con un’attenzione sempre maggiore a coniugare conservazione e
sviluppo, mentre è facile riscontrare resti di attività agricole e zootecniche
nei versanti laziali e molisani, grazie anche a condizioni ambientali più
favorevoli.
Vita
di un faggio, tra storia e memoria
Maggio 1861. Dopo anni di insurrezioni, l’Italia è da
poco diventata il Regno d’Italia, uno Stato unitario governato da una monarchia
costituzionale.
In queste
terre, a circa 1300 metri d’altezza, il tepore delle giornate primaverili e
l’allungarsi delle ore di luce consentono ad un seme sotterraneo di farsi largo
ed emergere dal terreno. Un piccolo germoglio di faggio inizia a crescere. Il processo di germinazione porterà alla
comparsa di una radice e di due foglioline embrionali, i cotiledoni. Per tutta
l’estate il piccolo germoglio di faggio crescerà molto, molto, lentamente. Il
faggio comune o occidentale, il cui epiteto latino è Fagus sylvatica è una
pianta dicotiledone, cioè ha due foglioline embrionali. Il suo areale di
distribuzione va dalla Svezia meridionale all’Italia meridionale e dalla Spagna
orientale alla Turchia occidentale, ad altezze che variano tra i 900 e i 2000
m. Fa parte, insieme a querce e castagni, della famiglia delle Fagaceae.
Settembre 1870. Le truppe italiane entrano a Roma per annette al Regno d’Italia la città, finora appartenente allo Stato Pontificio. Sono passati 9 anni dalla germinazione del seme di faggio e dalla proclamazione dell’Unità d’Italia. Il faggio ha ancora dimensioni molto ridotte e si prepara a trascorrere un altro inverno in uno stato di dormienza. Prima di raggiungere la maturità sessuale e iniziare la fioritura dovranno passare circa 50 anni. Maggio 1915. L’Italia entra nel Primo Conflitto Mondiale dichiarando guerra all’Austria-Ungheria.
Proprio in quei giorni, il faggio inizia la fioritura. Il fusto slanciato, dalla corteccia liscia e lucente, è diventato piuttosto ramificato. Dai rami spuntano, in modo alterno, le foglie picciolate di forma ovale e dal margine ondulato. Tra di esse, compaiono i fiori. Sulla stessa pianta, in posizioni diverse, il faggio ha sia fiori maschili che fiori femminili. I fiori maschili sono riuniti in strutture pendule; quelli femminili fanno parte di un involucro tondeggiante. È il vento a rendere possibile l’impollinazione, ovvero l’unione del polline maschile con l’ovario femminile nel pistillo.
Quando il polline feconda l’ovulo, si forma il seme. L’ovario del pistillo si modifica diventando il frutto, a protezione del seme. I frutti del faggio, le faggiole, sono grossi acheni, cioè frutti dall’involucro coriaceo, contenuti in ricci, simili ma più piccoli di quelli delle castagne. Le faggiole contengono olio, usato a scopo alimentare, e sono commestibili per molti animali. Topi, arvicole e diverse specie di uccelli si cibano delle faggiole e contribuiscono alla dispersione dei semi (Watt, 1923).
Novembre 1918. Alla fine del Primo Conflitto Mondiale, dopo 57 anni dalla sua germinazione, nonostante il fusto sottile, il faggio sarà facilmente riconoscibile per la sua chioma con i rami della porzione apicale eretti in verticale. In questa stagione le foglie diventano giallo-dorate, qualcuna cade al suolo, altre restano attaccate ai rami anche d’inverno. Poi, alla fine dell’inverno, da migliaia di gemme rossastre, localizzate all’estremità dei rami, emergeranno le nuove foglioline e il faggio riprenderà a crescere. Agosto 2021. Sono passati 160 anni dall’inizio della crescita del faggio. Ormai è alto quasi 15 metri. Intorno a lui centinaia di altri faggi compongono una foresta di soli faggi, la faggeta.
Il fitto fogliame delle chiome dei faggi maturi, alti fino a 40 metri, trattiene gran parte della luce del sole. In estate, le faggete appaiono come luoghi ombrosi e dal suolo ”pulito” perché in assenza di luce altre specie erbacee o arbustive non riescono a crescere. Nonostante gli alberi di faggio siano minacciati da gelate tardive, da fughi e da alcuni insetti parassiti, come l’orcheste del faggio (Rhynchaenus fagi) e il moscerino Miokiola fagi, la vita del faggio può essere ancora molto lunga. Questi alberi possono vivere anche oltre cinquecento anni. Quando un faggio muore, il legno morto di tronchi ancora in piedi, dei tronchi caduti al suolo e dei ceppi innescano processi che favoriscono l’insediamento di nuova vita. Questi alberi in decomposizione forniscono cibo e rifugio a centinaia di specie, rilasciano lentamente i nutrienti favorendo la fertilità del terreno e, con la loro presenza, prevengono l’erosione del suolo.
La storia del faggio è secolare, dall’Unità d’Italia, alla Prima Guerra Mondiale, agli anni della pandemia del virus Sars-CoV-2. La sua memoria va ben oltre gli anni in cui ci è possibile vederlo ed è racchiusa in tutte le relazioni che costruisce. Ci sono alberi nel cuore dell’Europa che ci consentono di guardare al passato e al tempo stesso di progettare il futuro. Il faggio è uno di questi.
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