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La gravità
della crisi Matteotti scompone assetti e alleanze della stampa, accrescendo il
peso del giornalismo d’opposizione. In area centrista il Corriere della Sera, Il Messaggero e La Stampa assumono posizioni
antigovernative, ma sono ugualmente critici verso le sinistre.
L’Italia, il Resto del Carlino, Il Mattino e Il
Giornale d’Italia
confermano la fiducia a Mussolini, pur giudicandone severamente i seguaci. I fogli fascisti sono presi in
contropiede e soffrono notevoli cali nella diffusione: nell’estate 1924 vengono
sovrastati dalla stampa d’opposizione. A dare la linea – ispirandosi alle
posizioni di Mussolini – sono Il Popolo d’Italia,
Corriere Italiano, Epoca, Cremona Nuova
e L’Impero.
Rimangono collocati in area filofascista, pur con qualche distinguo, Il Messaggero, il Corriere d’Italia, La Sera, La Tribuna e Il Secolo. Durante le ricerche del cadavere la stampa fascista – a partire da Il Popolo d’Italia – cerca in vario modo di fuorviare le indagini, avvalorando le ipotesi più fantasiose e strampalate. Il 14 giugno, per esempio, riporta la testimonianza di una bagnante che aveva notato la sera del rapimento alcuni uomini che estraevano da un’auto un prigioniero, l’avevano immerso nelle acque del lago di Bracciano e poi ricaricato nella vettura.
È uno dei tanti episodi di mitomania, cui la stampa governativa fornisce ampio spazio per motivi intuibili.
Il Corriere Italiano apre sul romanzesco
rapimento, definendo l’assenza di Matteotti avvolta nel mistero. In prima
pagina spicca un suo ritratto e una scheda biografica diffamatoria, con
l’insinuazione che il deputato parecchie volte milionario sia coinvolto
perlomeno da un punto di vista morale e propagandistico nell’attentato
anarchico del 20 febbraio 1924 al
corrispondente parigino de Il Popolo
d’Italia, Nicola Bonservizi: è al tempo stesso un depistaggio e la
nobilitazione dell’assassinio quale atto giustiziero contro il traditore della
Patria.
Il Corriere Italiano è in prima fila
nell’inquinamento delle indagini e nel condizionamento dell’opinione pubblica,
ma per il giornale i nodi stanno venendo al pettine. Il caporedattore Nello
Quilici accusa il direttore di averlo coinvolto nell’occultamento dell’auto
usata da Dumini, mette in guardia i colleghi dall’infido Filippelli e lascia la
redazione sbattendo la porta.
Insieme ai depistaggi precedentemente indicati (espatrio, avventura extraconiugale, autosequestro) la stampa fascista presenta la pista affaristica quale possibile movente del sequestro. Il 13 giugno il quotidiano romano Il Nuovo Paese, diretto da Carlo Bazzi, da sempre accanitamente ostile a Matteotti, titola un corsivo di prima pagina La convenzione Sinclair deve essere discussa alla Camera. La parte iniziale: ‘Si vuole che l’on. Matteotti dovesse pronunziare alla Camera – in sede di discussione sull’esercizio provvisorio – un discorso di critica alla convenzione Sinclair. Se questo l’onorevole Matteotti avesse fatto, sarebbe stata la prima azione patriottica da lui compiuta’.
Si auspica
inoltre che ‘anche se la voce di Matteotti dovesse mancare, sorgeranno alla
Camera, dagli stessi banchi fascisti, degli oratori a sostenere, in merito a
tale questione, il punto di vista degli interessi d’Italia’. Un corsivo
significativo, sia perché il direttore Bazzi – intimo di Cesare Rossi – è un
protetto di Mussolini, sia perché rivela la contrarietà di settori fascisti a
concedere alla società statunitense Sinclair Oil lo sfruttamento delle risorse
petrolifere di Emilia-Romagna e Sicilia.
Pure Il Popolo d’Italia accennerà alla questione, nell’articolo del 10 agosto La grande piovra. Sono depistaggi strumentali, escogitati da fonti fasciste e filogovernative per svalorizzare la quintessenza politica dell’omicidio depotenziandone l’impatto, onde consentire a Mussolini di superare il difficile momento. I più stretti collaboratori del defunto segretario del PSU (Cosattini, Gonzales, Modigliani, Turati…) escluderanno quale movente del delitto ipotetici retroterra affaristici che Matteotti avrebbe voluto denunciare alla Camera.
Nel complesso,
osserverà lo storico Giorgio Spini, ‘la stampa antifascista respinse le dicerie
sull’affare Sinclair considerandole come un espediente per deviare l’attenzione
dell’opinione pubblica dalle responsabilità di Mussolini e dalla reale natura
politica del delitto’.
A seguito delle divergenze emerse in ambito parlamentare, quell’autunno il progetto Sinclair cadrà (mentre la pista petrolifera riemergerà saltuariamente, trovando in epoca recente strenui sostenitori, nel deprecabile filone dei cosiddetti ‘misteri d’Italia’, [seppur definito deprecabile, aggiungo, - ben motivato – quale possibile movente compreso ovviamente l’oscurato taciuto mandante] complicando il delitto Matteotti in un ‘affare Matteotti’, con uso di rivelazioni accolte e divulgate acriticamente da stampa e televisione).
Secondo il
quotidiano romano Il Messaggero,
d’indirizzo moderato e filogovernativo,
‘si ha l’impressione oggi che dietro l’episodio
ci sia un sistema, e dietro il sistema tutto un complesso di forze di varia
specie le quali, a traverso le più disparate manifestazioni, tradiscono la
fortuna nazionale ed economica d’Italia’.
Si ritiene insomma che il delitto sia maturato in un sottobosco politico-affaristico con propaggini
‘cresciute e sviluppate sui margini del movimento
nazionale [fascismo] e penetrate, con il favore del tempo e di personali
complicità da ricercarsi, talvolta, anche nell’organismo di governo e più nel
movimento nazionale che lo sostiene’.
L’esistenza
di un sistema criminale sarebbe comprovata – secondo il giornale romano – dalla
presenza di un occulto reticolo criminale che dalla capitale si dirama sino a
Milano e in altre città del Regno:
Questo caso triste ha un aspetto
immediato e un aspetto più lontano ma anche più vasto e grave. Le condizioni
del delitto e tutto il complicato fantastico complesso di circostanze che ne
costituiscono il seguito rappresentano appunto questo aspetto più vasto e
allarmante. Se pochi sono stati gli esecutori materiali del sequestro, ogni
giorno si scopre l’esistenza di una rete sempre più vasta di uomini e di
interessi intenti a occultarli, che compaiono improvvisamente qua e là con le
più inattese rivelazioni per molte città d’Italia e che, partendo da
particolari piccoli gruppi costituitisi ai margini del governo e del fascismo,
si proiettano largamente fuori di ogni posizione ufficiale in altre zone di vita
e di interessi.
I quotidiani d’opposizione (Avanti!, il Mondo, La Giustizia, Il Popolo, l’Unità, La Voce Repubblicana) cavalcano l’indignazione e vanno a ruba: in una sola giornata tirano sino a sei diverse edizioni per dar conto in tempo reale della turbinosa successione degli eventi. L’organo social-unitario La Giustizia, che invano il segretario del partito si era sforzato di potenziare, diffonde ora 150.000 copie (a fronte delle 33.000 di marzo).
Il
quotidiano amendoliano Il Mondo
vende 95.000 copie e tocca le 115.000 quando pubblica a puntate un memoriale
antimussoliniano di Cesare Rossi. Ancor più imponenti le vendite dell’Avanti!, salite in pochi mesi a
71.500 nella sola Milano e a circa 150.000 nel resto del Regno.
Il foglio
comunista l’Unità passa da 20.000 a
34.000 copie. Nonostante il Partito popolare sia ormai in liquidazione, Il Popolo – schierato dal direttore
Giuseppe Donati in un’arrischiata battaglia contro Emilio De Bono – supera le 25.000 copie. Tra i risultati
della crisi Matteotti vi è il ritrovato protagonismo (e pluralismo) della
stampa d’informazione, che (lo si scoprirà di lì a qualche mese) vive l’ultima
stagione d’orgoglio, sostenuta, oltre che da settori dell’opinione pubblica
tradizionalmente attenti alla politica, dai tanti cittadini radicalizzatisi per
l’indignazione provocata dal sequestro Matteotti.
Ogni mattina Mussolini, nel suo ufficio di Palazzo Chigi, scorre nervosamente una quantità di giornali: ai suoi ordini si deve lo straordinario numero di sequestri, durante la crisi Matteotti: ben 36 per l’Avanti! e una ventina per l’Unità. A illustrare il boom dei periodici antifascisti è il caso del settimanale satirico il becco giallo, fondato a Roma a inizio 1924, passato a giugno da 50.000 a oltre 400.000 copie, con numeri monografici dedicati al compianto deputato socialista e un’impressionante campagna contro il mandante del delitto.
Sul numero
del 22 giugno l’editoriale listato a lutto si rivolge a Matteotti:
‘Tutto doveva servire a liberare l’Italia, anche il
Tuo corpo martoriato e sanguinante, povero amico nostro’ – e prosegue: Anche
questo. Egli non ha mai dubitato. Sentiva, sapeva di essere votato al
sacrificio. Quando, tenendo testa a quattrocento avversari inveleniti, svelò
l’origine di questa Camera, quando turbinavano nell’aria infuocata urla di
minacce, Egli disse con noncuranza ai suoi amici, a noi: “E ora preparatemi il
discorso funebre”. E passò col suo solito passo svelto e giovanile attraverso i
corridoi di Montecitorio dove due occhi malvagi e freddi lo puntarono. Era la
sentenza di morte.
Sul medesimo numero campeggia la vignetta dell’aula del Parlamento con Mussolini isolato al banco del governo e una donna raffigurante l’Italia che punta l’indice, pronunciando una sola frase: ‘Domando la parola!’. A fianco, vi è l’articolo Un cadavere nell’aula. Le tavole di Gabriele Galantara, l’artista più rappresentativo de ‘il becco giallo’, pesano più di tanti articoli di fondo nel confermare la pubblica opinione sulle corresponsabilità del duce.
La vignetta più celebre mostra un tronfio Mussolini seduto sulla bara che porta una croce e un nome: MATTEOTTI. Non sorprende pertanto l’offensiva squadrista contro il direttore Alberto Giannini e i suoi redattori, minacciati e aggrediti in più occasioni. Si propagano in un passaparola – talvolta rilanciato dai giornali – le più stravaganti notizie su dinamiche e retroscena del crimine, con l’aspettativa delle dimissioni di Mussolini. Settori della borghesia che avevano appoggiato il fascismo per esigenze d’ordine ora se ne distaccano bruscamente, sentendo tradita la propria fiducia.
P.S.
Il 14 giugno Velia Matteotti
– accompagnata dalla sorella Fosca – giunge a Palazzo Chigi per chiedere al
presidente del Consiglio di riavere il corpo del marito.
Mussolini
fa l’ignaro:
‘Eccellenza,
sono venuta a chiederle la salma di mio marito, per vestirlo e seppellirlo’.
‘Signora, vorrei restituirle suo marito vivo. Sono in corso le indagini per far luce sul misfatto. Alcuni arresti sono stati operati; il Governo farà tutto il suo dovere’.
‘Mi
dica almeno se mio marito è morto’.
‘Non
sappiamo niente. Forse un filo di speranza c’è ancora. Non posso promettere nulla,
ma nella giornata di domani le indagini saranno espletate’.
Al termine
del freddo incontro, durante il quale tutti rimangono in piedi, si offre alle
due signore una vettura governativa con scorta, ma il rifiuto è raggelante:
‘Sono
sicura che la vedova Matteotti non sarà assassinata, anche se andrà sola’.
E sale su un taxi.
Velia così
descriverà il colloquio:
‘Mussolini
non era commosso, né altro. Era spettro di terrore; io non implorai; domandai con
poche parole fredde e sicure, alle quali egli oppose risposte che fedelmente
non ricordo, ma fredde anch’esse. Le sicure che rammento furono queste: “Un
filo di speranza c’è. Io farò il mio dovere di cittadino”. Io non ringraziai,
né aggiunsi altro. Assisteva al colloquio un collegio di gente, tra la quale
Acerbo, Finzi, Sardi e altri gregari’.
La vedova, da sempre religiosissima, trova consolazione nella fede. Si reca in Vaticano con la suocera Isabella per implorare l’intervento di Pio XI, ma il pontefice si fa rappresentare dal segretario di Stato cardinal Gasparri, che pronuncia frasi di circostanza e promette un futuro colloquio col papa (che non avverrà mai); al commiato il presule offre due rosari di perle legate in una catenella d’oro, ma l’anziana madre di Matteotti li rifiuta, poiché ‘a Fratta si prega con i rosari di legno’.
La
settantatreenne signora Isabella dichiara ai giornalisti di voler riottenere il
figlio a qualsiasi prezzo:
‘L’angosciata
vecchia, ansiosa di rivedere l’unico figlio nel quale trova energia e conforto
nella vita, dopo aver perduto in giovanissima età il marito e due [sei] figli,
si dichiara pronta a versare qualunque somma, a spendere magari l’intero
patrimonio pur di riavere il suo diletto Giacomo, da lei creduto semplicemente
vittima di un ricatto’.
Sabato 14 giugno, il presidente del Consiglio trascorre la mattina nel suo ufficio di Palazzo Chigi a raccogliere quante più informazioni per individuare la condotta meno rischiosa. Ordina ai prefetti del Regno di riferirgli immediatamente ‘sulla impressione suscitata dalla scomparsa Matteotti nella opinione pubblica in genere e negli ambienti fascisti in particolare’.
Con un
secondo telegramma li schiera contro le opposizioni: ‘Corre voce che partirebbe
da Roma sciopero generale di 24 ore da effettuarsi prossimamente. Tale gesto
che rivelerebbe tentativo politico speculazione dev’essere prevenuto e se
necessario represso senza indulgenze’.
(M. Franzinelli)
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