CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
30 MAGGIO 1924

giovedì 29 febbraio 2024

PERCHE' E' STATO UCCISO MATTEOTTI?

 










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Con Upton Sinclair  


Prosegue con il... 


dovere di cronaca






Perché è stato ucciso Matteotti (e continuano ad ucciderlo ancora)?



‘La faccenda mi sembra davvero grave. Ma che si sono messi in testa di pubblicare? Dobbiamo stare attenti, perché questa storia potrebbe danneggiarci!’




È il 17 novembre 1941 quando il premier britannico Winston Churchill, allarmato, ordina ai membri del suo governo e agli agenti dei servizi segreti di Sua Maestà di stendere una coltre di silenzio sul caso Matteotti, il delitto politico avvenuto diciassette anni prima a Roma. Italia e Regno Unito sono in guerra da quasi un anno e mezzo. Si combatte in Libia. E le carte compromettenti che Churchill teme che vengano allo scoperto sono quelle rinvenute pochi mesi prima, nel marzo del 1941, nell’abitazione di uno dei sicari del deputato socialista  assassinato.

Si tratta di Amerigo Dumini, il quale dal 1934 lavora in Cirenaica per i servizi italiani, e probabilmente non solo per loro.

Con quei documenti si potrebbe assestare un colpo decisivo a Benito Mussolini e al suo regime, ma Churchill interviene inopinatamente per mettere tutto a tacere.

Perché?

Un favore personale al duce, suo grande amico, con il quale ha intrattenuto una fitta corrispondenza fino allo scoppio della guerra?

O paura che emergano anche responsabilità inglesi?




Torniamo indietro di diciassette anni e riprendiamo dall’inizio il filo di questa storia.

Il 10 giugno 1924 il deputato socialista Giacomo Matteotti viene sequestrato da un commando di squadristi, caricato su un’automobile, pestato a sangue, accoltellato e infine abbandonato, ormai privo di vita, in un bosco a venticinque chilometri da Roma, nella macchia della Quartarella, dove viene ritrovato più di due mesi dopo, il 16 agosto.

La notizia suscita una tale ondata di emozione e sdegno, in Italia e all’estero, da scuotere le stesse fondamenta su cui si sta formando il regime fascista. Il delitto è maturato in un crescendo di tensione politica e violenza. Il 6 aprile di quell’anno si sono svolte le nuove elezioni politiche, indette con l’obiettivo di rafforzare il governo presieduto da Mussolini. Lo schieramento liberal-fascista, appoggiato da monarchia, Confindustria, gerarchie militari e Vaticano, ha trionfato con quasi il 70 per cento dei voti contro il 30 per cento ottenuto dalle opposizioni di sinistra, che si sono presentate divise.

Grazie alla legge elettorale maggioritaria, la destra ha conquistato in parlamento 374 seggi su 535.




La vigilia è stata caratterizzata da numerose aggressioni nei confronti di esponenti della sinistra. Durante lo scrutinio, molti sono stati anche gli episodi di brogli.

Il 30 maggio Matteotti ha tenuto alla Camera un durissimo discorso contro Mussolini, chiedendo l’annullamento delle elezioni. E ha annunciato un secondo intervento, ancora più duro, per l’11 giugno. Ma lo hanno assassinato proprio il giorno prima, il 10.

Qualcuno sapeva che avrebbe detto cose molto imbarazzanti per il governo e ha ordinato che gli venisse tappata la bocca.

Per sempre.

Quando è stato rapito, sul Lungotevere Arnaldo da Brescia, aveva con sé una borsa colma di documenti. Sparita insieme a lui. La chiave per decifrare il caso Matteotti è proprio in quel discorso mai pronunciato. Che cosa avrebbe potuto dire di tanto sconvolgente, il deputato socialista, da indurre qualcuno a ordinarne l’assassinio? Intorno al delitto e al suo movente, per molti decenni si sono accavallate diverse ricostruzioni e chiavi di lettura. Non si è mai giunti a una completa verità giudiziaria. Le inchieste della magistratura – ben tre nell’arco di un quarto di secolo (l’ultima risale al 1947) – individuano gli esecutori materiali: Amerigo Dumini e i suoi complici Albino Volpi, Giuseppe Viola, Augusto Malacria e Amleto Poveromo. Tutti e cinque sono legati al Partito fascista e dipendono da Emilio De Bono (uno dei quadrumviri della marcia su Roma del 28 ottobre 1922), all’epoca del delitto capo della Pubblica sicurezza e della Milizia volontaria. Fanno parte di una sorta di squadrone della morte che chiamano ‘Ceka’, come la famigerata polizia politica sovietica (Čeka) specializzata in operazioni ‘sporche’.




Ma da chi viene impartito l’ordine di eliminare Matteotti?

Da Mussolini o da altri esponenti del regime?

E l’input è solo interno o qualche segnale viene lanciato anche da ambienti stranieri?

Insomma, quali oscure trame si celano dietro l’assassinio del più prestigioso e temuto esponente dell’opposizione?

L’opinione pubblica individua immediatamente in Mussolini il mandante del delitto. Anche perché diversi giornali sostengono la tesi di una sua responsabilità diretta. Una testata con più determinazione delle altre, il ‘Corriere della Sera’, e un suo cronista con più convinzione di tutti: si chiama Carlo Silvestri e all’epoca del delitto è vicino ai socialisti di Filippo Turati, ma in seguito, durante la Repubblica sociale, diventerà uno dei più ferventi sostenitori del duce e addirittura suo amico personale. Dopo la guerra, ammetterà di aver ingigantito le sue accuse contro Mussolini per fini di ‘convenienza politica’. Il comportamento di Mussolini non è proprio lineare. In un primo momento, con il cadavere di Matteotti ancora caldo, respinge sdegnosamente ogni accusa. Qualche mese dopo, il 3 gennaio 1925, in un famoso discorso pronunciato alla Camera, si assume l’intera responsabilità ‘politica, morale, storica’ di tutto quanto è accaduto prima e dopo le elezioni, del clima di intimidazione che le ha precedute e degli episodi di violenza che ne sono seguiti. Un discorso che preannuncia le ‘leggi fascistissime’ che di lì a poco porteranno al consolidamento del regime.




Successivamente, però, in diverse occasioni torna a proclamare la propria innocenza. Intervenendo di nuovo alla Camera a un anno esatto dall’assassinio, il 13 giugno 1925, dichiara: ‘Solo un nemico che da lunghe notti avesse pensato a qualcosa di diabolico contro di me poteva effettuare questo delitto che ci percuote di orrore e ci strappa grida di indignazione’. E poi, confidandosi con la sorella Edvige: ‘È una bufera che mi hanno scaraventato contro proprio quelli che avrebbero dovuto evitarla’. Insomma, un ‘cadavere gettato davanti ai miei piedi per farmi inciampare’, secondo le parole attribuite a Mussolini dal più autorevole storico del fascismo, Renzo De Felice.

Ma chi avrebbe dovuto evitare che il duce fosse investito da quella bufera?

Il riferimento è ad alcuni dei suoi stessi collaboratori, e fra i più stretti: il capo della sicurezza De Bono, il sottosegretario agli Interni Aldo Finzi e altri due alti gerarchi, Giovanni Marinelli e Cesare Rossi. Tutti e quattro legati da una comune appartenenza alla massoneria, quel filo invisibile che, sin dai tempi del Risorgimento, annoda gran parte delle relazioni segrete tra Roma e Londra. Molti credono all’innocenza di Mussolini. Persino alcuni dei più influenti e prestigiosi esponenti liberali dell’epoca. Personaggi come Giovanni Giolitti, Luigi Einaudi e Benedetto Croce. Proprio quest’ultimo, nel giugno del 1926, presenta al Senato un ordine del giorno a favore del duce. E dopo la scontata approvazione, dichiara entusiasta che si è trattato di un voto ‘prudente e patriottico’.




Guglielmo Salotti, allievo e collaboratore di De Felice, racconta che Nicola Bombacci, ex dirigente socialista che nel 1931 si avvicina al fascismo, aveva indagato a lungo sul delitto Matteotti, per giungere a questa conclusione: ‘Purtroppo gli imputati non sono qui. Magari, dopo essere stati manutengoli dei tedeschi, saranno oggi al servizio degli inglesi o meglio ancora degli americani’.

Le tangenti che Matteotti voleva denunciare

Mussolini e gli uomini a lui più vicini scaricano dunque la responsabilità del delitto sugli ambienti massonici che collegano il regime ai britannici. Ma quali legami possono mai esserci tra il delitto Matteotti e la Gran Bretagna?

Il 22 aprile 1924, meno di due mesi prima di essere assassinato, il deputato socialista arriva segretamente in Inghilterra. La sua permanenza a Londra, protetta dal più stretto riserbo, dura quattro giorni, durante i quali ha numerosi incontri con esponenti del Partito laburista, all’epoca al governo, e dirigenti sindacali. Il 26 aprile lascia il Regno Unito e sbarca in Francia, da dove poi rientra in Italia. Nonostante la segretezza del viaggio, uno dei suoi futuri esecutori, Albino Volpi, lo ha pedinato per tutto il tempo della sua permanenza in territorio francese. E Mussolini ha inviato un telegramma all’ambasciata italiana a Londra per avere informazioni sui suoi movimenti in terra inglese: quando è stato a Londra e quanto è durato il suo soggiorno, quali contatti ha avuto e perché, se ha incontrato anche membri del governo britannico ed esponenti di altre nazionalità.




A confermare il legame tra il delitto Matteotti e la Gran Bretagna arrivano oggi i risultati di lunghe ricerche condotte da due studiosi molto diversi tra loro ma che, seguendo lo stesso filo, sono giunti a un’identica conclusione. Il primo è lo storico Mauro Canali, docente all’Università di Camerino, che ha scavato negli archivi inglesi e americani. Il secondo è Benito Li Vigni, amico personale e stretto collaboratore di Enrico Mattei all’Eni, nonché per un lungo periodo responsabile dei servizi d’informazione dell’ente petrolifero italiano.

Secondo entrambi il legame sarebbe costituito dal petrolio, l’oro nero che nei primi decenni del Novecento stava diventando sempre più una risorsa strategica per i processi di industrializzazione delle grandi potenze, per la riconversione della loro forza militare e per i loro interessi geopolitici. Una risorsa preziosissima, per la quale gli stati erano (e sono ancora oggi) disposti a qualsiasi cosa.

È proprio in questo contesto che si situerebbe il delitto Matteotti: la guerra del petrolio combattuta fra Italia e Gran Bretagna, senza esclusione di colpi e attraverso l’uso di quinte colonne politiche, militari, diplomatiche e giornalistiche. A Londra Matteotti affronta con i laburisti un argomento molto imbarazzante per il regime. Questi lo mettono infatti al corrente delle tangenti che Arnaldo Mussolini, fratello del duce, e alcuni membri di Casa Savoia, hanno intascato per stipulare una convenzione tra il governo italiano e una società petrolifera americana, la Sinclair Oil. Non solo: Matteotti riceve anche documenti che provano quei maneggi. Ed è questo lo scandalo che il deputato socialista avrebbe voluto denunciare alla Camera l’11 giugno 1924, se il giorno prima non lo avessero fatto sparire insieme alle prove che aveva raccolto.




L’accordo segreto con gli americani colpiva gli interessi inglesi

Sullo sfondo del primo tra i grandi delitti politici italiani del Novecento ci sarebbero dunque i conflitti per il petrolio. Una guerra combattuta anche sul territorio italiano, in primo luogo tra i due colossi energetici dell’epoca: l’americana Standard Oil, privata, e la britannica Anglo-Persian Oil Company (Apoc), di proprietà statale. La prima ha iniziato la sua scalata al mercato italiano sin dalla fine dell’Ottocento, conquistando di fatto una posizione di monopolio dei prodotti raffinati distribuiti nel nostro paese: all’epoca dell’assassinio Matteotti, controlla una quota dell’80 per cento. Una supremazia dovuta al fatto che gli inglesi non possiedono una raffineria nell’area mediterranea e non sono in grado di trattare il petrolio che hanno cominciato a estrarre in Medio Oriente, cosicché la loro presenza sul mercato italiano ed europeo è fortemente penalizzata. Ma, proprio in quel periodo, il governo inglese decide di muovere all’attacco del gigante Usa. Alla fine del 1923, grazie a un accordo con l’Italia, la Apoc rileva una vecchia raffineria austriaca in disuso, a Trieste, a due passi dai depositi della Standard Oil. E nel gennaio del 1924 apre una filiale italiana, la British Petroleum (Bp), una società con capitale misto angloitaliano intorno alla quale si aggregano anche quegli interessi politico finanziari del fascismo più vicini a Londra che a Washington.




L’accordo tra la Apoc e il governo italiano nasconde almeno altre due insidie per la compagnia americana. La prima è nella clausola, inserita su esplicita richiesta di Roma, secondo la quale gli inglesi possono impegnarsi nell’esplorazione del sottosuolo nazionale e nell’eventuale sfruttamento dei giacimenti che venissero scoperti. La seconda insidia risiede in un’altra clausola che consente alla Bp la costruzione in tempi brevi di uno stabilimento in Italia per la raffinazione e la distribuzione anche sul nostro territorio del petrolio estratto in Iraq e in Persia. La raffineria di Trieste, una volta a regime, consentirà alla Gran Bretagna di conquistare un  indubbio vantaggio logistico rispetto agli americani. Perché il greggio Usa, per giungere da New York al porto di Messina, dove si concentra l’intero traffico del petrolio della Standard Oil prima di essere distribuito sul mercato italiano ed europeo, deve compiere un tragitto di 4200 miglia.

Agli inglesi, invece, basterà percorrerne mille per portare il loro prodotto dal Medio Oriente e dai pozzi che controllano nel Mar Nero sino alla raffineria di Trieste. Gli americani reagiscono con prontezza, firmando una convenzione con il governo di Roma che avrebbe spalancato il nostro mercato a un’altra società statunitense, la Sinclair Oil appunto, ‘cugina’ della Standard. ‘I padroni della Sinclair e i loro compari sono pronti a fare qualsiasi cosa pur di colpire gli interessi specifici inglesi, come ottenere concessioni o fare accordi di questo genere’ telegrafa al proprio governo l’ambasciata britannica di Washington.




Per i britannici l’accordo della Sinclair Oil con il governo italiano punta a ledere i loro interessi. Attraverso il colloquio con il deputato socialista, essi intendono quindi attirare l’attenzione dell’opposizione italiana sulle manovre che la loro concorrente d’oltreoceano sta conducendo in combutta con il regime. Che proprio i documenti ricevuti a Londra da Matteotti siano il movente del suo assassinio, lo ipotizzano del resto non solo la stampa italiana, ma anche quella britannica e americana subito dopo la scoperta del cadavere del leader socialista.

‘Si vuole che l’onorevole Matteotti dovesse pronunziare alla Camera – in sede di discussione sull’esercizio provvisorio – un discorso di critica alla convenzione Sinclair’ scrive il ‘Nuovo Paese’, il giornale diretto da Carlo Bazzi. La preoccupazione negli ambienti politici romani è confermata anche da un’informativa datata 14 giugno 1924 (quattro giorni dopo il sequestro del deputato, ma in un momento in cui non si sa ancora della sua morte), secondo la quale sarebbero ‘sulla bocca di tutti le constatazioni che l’onorevole Matteotti possedesse documenti su cui avrebbe parlato alla Camera e che si riferivano a prove contro il Finzi sugli affari compiuti per i petroli, per le case da gioco, e altro’.

Adesso si può capire cosa è successo

Ma torniamo al punto: scoperti gli esecutori materiali e accertati i loro legami con esponenti del regime, restano da individuare i mandanti del delitto. L’implicazione del fratello del duce, di altri esponenti fascisti e della casa reale nell’affare Sinclair farebbe pensare che sia stato direttamente Mussolini a impartire l’ordine di eliminare Matteotti. Ma Mussolini, come abbiamo visto, pur attribuendosi la responsabilità politica e morale di quanto è accaduto, respinge con decisione i sospetti di chi gli addossa la colpa dell’omicidio, scaricandoli di fatto su alcuni gerarchi legati alla massoneria inglese... 






Seppur velatamente, il cronista pare individuare il mandante del delitto proprio nella britannica Anglo-Persian.

Il giornale del Partito fascista, ‘Il Popolo d’Italia’, lo sostiene in modo esplicito: Non mi meraviglierei che dovesse risultare domani come la mano stessa che forniva a Londra all’on. Matteotti i documenti mortali, contemporaneamente armasse i sicari che sul Matteotti dovevano compiere il delitto scellerato. L’autore dell’articolo si nasconde dietro lo pseudonimo di ‘Spettatore’, ma a ispirarlo – è stato appurato – è direttamente la presidenza del Consiglio, cioè Mussolini.

La contraddizione, almeno all’apparenza, è evidente: perché la mente che ha armato Matteotti contro Mussolini, consegnandogli documenti compromettenti, avrebbe dovuto contemporaneamente armare anche la mano dei suoi assassini prima che potesse pronunciare il suo discorso in parlamento?

L’ipotesi del presunto doppio gioco degli inglesi non trova altro fondamento certo, tuttavia la domanda resta, poiché una responsabilità diretta del duce non è mai stata provata in nessuno dei tre processi per il delitto; neppure in quello, l’ultimo, celebrato subito dopo la guerra, nel 1947, quando il regime si era ormai dissolto, Mussolini era morto, l’Italia era stata liberata ed era ormai una repubblica democratica. Ma oggi, alla luce dei documenti riguardanti Churchill e l’affaire Dumini rinvenuti negli archivi nazionali britannici di Kew Gardens a Londra dagli autori di questo libro, è forse possibile aggiungere le tessere mancanti del mosaico.

Dopo l’assassinio il governo annulla l’accordo con gli americani




La prima tessera è proprio l’ambigua figura di Dumini, l’uomo della Ceka che ha guidato il commando dei rapitori e degli assassini di Matteotti. Massone iscritto alla Gran Loggia nazionale di piazza del Gesù con il terzo grado, quello di Maestro, vanta con il regime rapporti stretti almeno quanto quelli che intrattiene con il mondo anglosassone.

Dumini è nato nel 1894 a Saint Louis, negli Stati Uniti, e il padre Alfredo è un mercante d’arte fiorentino. La madre, Jessica Wilson, è invece rampolla di una facoltosa famiglia inglese: ha due sorelle che conducono una vita molto agiata nei pressi di Londra, un fratello, ricco commerciante, che si è stabilito in Australia, e un altro fratello, ingegnere, che svolge un compito piuttosto delicato in America per conto del governo inglese nel settore della costruzione di navi da guerra. Qualche tempo dopo il delitto, nel 1933 – racconta Peter Tompkins, l’uomo dell’Oss (ovvero l’Office of Strategic Services, il servizio segreto Usa in tempo di guerra, poi ribattezzato Cia) in Italia –, Dumini, forse sentendosi abbandonato dal regime, scrive un memoriale e lo invia a due legali di estrema fiducia, uno in America e l’altro in Inghilterra, con l’invito a renderlo pubblico nel caso in cui venga assassinato. Ma non gli succede nulla. Anzi, viene inserito nei ranghi dei servizi italiani e inviato in Libia. Scoppiata la guerra, quando gli inglesi entrano a Derna, nel 1941, lo arrestano e lo fucilano. Viene solo ferito, però, e riesce a scappare dopo essersi finto morto.

Questa, almeno, è la versione ufficiale diffusa dagli stessi britannici.




Nel 1943 Dumini segue Mussolini a Salò, dove continua a svolgere il suo ruolo di agente segreto per conto dell’intelligence della Repubblica sociale e con ogni probabilità anche di Londra. Arrestato nuovamente dagli inglesi nel 1945, a guerra conclusa, due anni dopo viene processato e condannato all’ergastolo per il delitto Matteotti. Ma la pena è prima ridotta a trent’anni e poi, grazie a una serie di indulti, praticamente annullata. Ed è davvero difficile pensare che dietro la clemenza dei vari tribunali non ci siano ragioni inconfessabili, per esempio qualche debito da saldare nei confronti di un personaggio che aveva ben servito la causa.

La seconda tessera è il gerarca fascista De Bono, alle cui dipendenze lavora Dumini all’epoca del caso Matteotti. Il capo della Milizia è legato alla Gran Bretagna da un filo doppio: attraverso la massoneria, come abbiamo visto; e in quanto fiduciario di Casa Savoia, i cui rapporti con la Gran Bretagna non sono mai venuti meno, rafforzandosi anzi con il passare degli anni.

Assume quindi una certa importanza il fatto che una copia delle carte compromettenti sulla convenzione Sinclair, quelle che erano nella borsa di Matteotti, finisca proprio nella cassaforte di De Bono. Il gerarca utilizza quei documenti per ricattare Mussolini e ottenere un risultato favorevole agli interessi britannici?

Ipotesi più che plausibile. Di sicuro – e la coincidenza non può non impressionare – subito dopo l’assassinio del deputato socialista, quando si diffonde la notizia dei suoi incontri londinesi e delle informazioni che ha raccolto nella capitale inglese, il governo italiano annulla immediatamente gli accordi con la Sinclair. Non solo. Anni dopo, deposto Mussolini il 25 luglio 1943, tra i gerarchi della corrente filobritannica che hanno partecipato al golpe firmando l’ordine del giorno proposto da Dino Grandi, c’è anche De Bono. Il quale, processato a Verona da un tribunale della Repubblica sociale e condannato a morte insieme ad altri, tenta di salvarsi la pelle consegnando a Mussolini i documenti di Matteotti.




Quel materiale si trova probabilmente fra le carte sequestrate dagli inglesi a Mussolini, a Dongo, poco prima che il duce sia fucilato: il famoso archivio sui rapporti segreti tra il fascismo e il governo di Londra, che tanto avrebbe imbarazzato Winston Churchill e la Corona britannica se fosse finito in mano ai partigiani o, peggio, a conoscenza dell’opinione pubblica. I profili e le storie personali di Dumini e De Bono portano certamente a Londra. E il loro speciale legame con quel governo autorizza quantomeno a ipotizzare un qualche doppio gioco da parte loro.

Quale potrebbe essere, dunque, il tassello mancante del caso Matteotti?

Le carte segrete e la finta morte di Dumini

 Facciamo un passo indietro e torniamo all’inizio del 1941. Quando gli inglesi conquistano Derna, in Libia, la prima cosa che fanno gli uomini dell’intelligence è raggiungere l’abitazione di Dumini. La ragione di tanta fretta è che gli agenti di Sua Maestà cercano qualcosa che per loro è di enorme importanza. Infatti, dietro una finta parete, il tenente Duff e i suoi uomini del Naval Service trovano l’archivio segreto del sicario di Matteotti. Materiale scottante, con molte lettere di Mussolini e altri documenti su quel delitto assai pericolosi per il duce.

Ma solo per lui?

Dumini, con le sue carte, viene subito trasferito al Cairo, dove valuta con i servizi britannici quale possa essere il modo migliore di gestire la faccenda. Le sue controparti sono il colonnello George Pollock (Special Operations) e l’agente Rex Leeper. Molto probabilmente Dumini si assicura l’incolumità offrendo il suo archivio all’intelligence in cambio della protezione inglese. La spia italiana rimane per qualche tempo al Cairo, in gran segreto, mentre i suoi documenti vengono immediatamente trasferiti a Londra e messi al sicuro negli archivi del Naval Service. Qualche mese dopo, ai primi di novembre, le autorità militari britanniche al Cairo, assieme all’ambasciatore in Egitto Sir Miles Lampson, propongono un piano al Foreign Office (il ministero degli Esteri britannico): redigere un falso certificato di morte dell’agente italiano, la cui ‘fucilazione’ sarebbe avvenuta il 7 aprile 1941.




Si punta a ottenere due risultati. Da un lato, la sua scomparsa allontanerà ogni sospetto sui suoi rapporti con l’intelligence britannica, che anzi potrà continuare a servire anche negli anni successivi. Dall’altro, sapendo che il sicario di Matteotti ha inviato un memoriale a due legali in America e in Inghilterra, pregandoli di renderlo pubblico in caso di morte, la diplomazia britannica è certa che la notizia del suo decesso indurrà gli avvocati a diffondere quel documento, con effetti propagandistici devastanti per l’immagine del duce. Londra approva il piano il 13 novembre 1941. Ma l’ambasciatore in Egitto e il Foreign Office, che probabilmente non sono informati su tutti i retroscena dell’affaire Dumini, non hanno messo in conto la reazione di Churchill. Una reazione furibonda. E incredibilmente strana. Non appena viene messo a conoscenza del piano predisposto dall’ambasciatore Lampson e dal Foreign Office, il 14 novembre, il premier si inquieta non poco, perché ‘la faccenda sembra molto seria’.

Tre giorni dopo, durante una riunione del War Cabinet, il gabinetto di Guerra, ordina infatti di mettere tutto a tacere. La vicenda Dumini, leggiamo nei documenti inglesi, dev’essere ‘attentamente valutata’ perché potrebbe provocare ‘attacchi’ in grado di danneggiare il Regno Unito. Al ministero degli Esteri britannico appare del tutto incomprensibile il comportamento di Churchill. Il Foreign Office non capisce perché non si debba sfruttare contro Mussolini un’occasione così ghiotta. La faccenda sembra chiusa. Trasferito il suo archivio a Londra, Dumini scompare nel nulla, salvo riapparire più tardi di nuovo al fianco di Mussolini, a Salò.

Ma c’è un imprevisto che getta Londra e Churchill di nuovo nel panico. Nel maggio del 1942, un anno dopo il ritrovamento dell’archivio a Derna, nonostante sia stata bloccata l’idea di utilizzare quelle carte contro Mussolini, chissà come, perché e da chi, a un giornalista australiano al Cairo, John Lardner, viene riferita la notizia della ‘morte’ di Dumini. Ignaro ovviamente dei retroscena, il giornalista la prende per buona e la ‘gira’ alla stampa americana. L’articolo esce sul ‘New York Times’ il 14 maggio 1942. Londra entra subito in fibrillazione, temendo la pubblicazione del materiale che l’assassino di Matteotti ha inviato anni prima ai suoi legali in Inghilterra e Stati Uniti. L’agitazione britannica risulta con tutta evidenza dalle pressanti richieste di chiarimenti inviate da Londra alla sua ambasciata di Washington. Ma Churchill, anche in questa occasione, ha molta fortuna, oppure riesce ancora una volta a insabbiare il tutto. Perché l’avvocato londinese non rende pubblica neppure una riga. Mentre quello americano, Martin Robertson (San Antonio, Texas), si limita a divulgare, il 16 maggio 1942, un innocuo memoriale di un centinaio di pagine, in cui Dumini ammette di aver partecipato al sequestro del deputato socialista, professando però la propria innocenza per la sua morte: tutto lì, non emerge nient’altro.




Il potenziale esplosivo di quei documenti viene così disinnescato. E il premier britannico tira un sospiro di sollievo.

Mussolini pagato dagli inglesi

Torniamo allora alla domanda iniziale: perché Churchill ha tanta paura di quello che potrebbe saltar fuori dalle carte sul delitto Matteotti?

Le risposte sono diverse.

Alcune ipotetiche perché basate solo su indizi, per quanto molto seri. Altre certe, perché fondate su documenti trovati negli archivi londinesi dagli autori di questo libro. Ad angosciare il premier ci sarebbe innanzitutto il rischio che venga alla luce che Dumini fosse al servizio dell’intelligence britannica già dal 1919-1924, cioè nel periodo che va dall’ascesa al potere di Mussolini fino al delitto Matteotti.

Vediamo ora, invece, le risposte certe.

Intanto, in quello stesso periodo, anche il duce intrattiene rapporti con i servizi segreti di Londra. Nel gennaio del 1918, subito dopo la disfatta italiana a Caporetto, il diplomatico inglese Samuel Hoare apre a Roma una sede dell’MI5 (Military Intelligence, Sezione 5, ovvero l’agenzia britannica per la sicurezza e il controspionaggio). Con una missione molto precisa: spostare l’opinione pubblica italiana dalla parte delle potenze alleate che combattono contro gli imperi centrali, reclutare uomini politici e giornali e tenere d’occhio i filotedeschi (tra questi ultimi, come risulta da decine di rapporti inviati a Londra da Hoare, c’è anche il cardinale Eugenio Pacelli, il futuro Pio XII). Nella fase finale della prima guerra mondiale i servizi britannici foraggiano abbondantemente uomini di partito, direttori di giornali e giornalisti perché conducano una campagna di stampa a favore di Gran Bretagna e Francia. E tra costoro c’è anche Benito Mussolini, ex esponente di punta del Partito socialista, che percepisce 100 sterline alla settimana da Sir Hoare.




Churchill evidentemente sa che il duce è un uomo degli inglesi. Di più: è un suo ammiratore e intrattiene con lui intensi rapporti epistolari. Ne favorirà l’ascesa al potere per contenere non solo il pericolo social-comunista in Italia, ma anche quello bolscevico in Europa. E non esita, in seguito, all’epoca in cui il regime fascista è nel pieno del suo splendore, a esprimergli pubblicamente tutta la sua ammirazione, definendolo il ‘salvatore dell’Italia’ e ‘il più grande legislatore vivente’.

Quando nell’aprile del 1924 Matteotti si reca in gran segreto a Londra per incontrare i laburisti, i Tories sono all’opposizione. È assai probabile che gli uomini dell’intelligence vicini ai conservatori apprendano che il deputato socialista è ripartito dalla Gran Bretagna con le prove sulle tangenti pagate in Italia dall’americana Sinclair Oil, e che utilizzerà quelle carte in parlamento contro Mussolini.

Churchill, dunque, non può consentire che il regime italiano rischi di cadere, travolto dalle carte di Matteotti, compromettendo anche la politica petrolifera inglese (di cui lo statista è uno dei grandi strateghi sin dai primi del Novecento). Come abbiamo visto, proprio alla vigilia del caso Matteotti, la britannica Apoc ha messo in piedi il suo progetto di assalto al mercato italiano. Puntando in due direzioni. Da un lato, l’obiettivo è l’americana Standard Oil. Dall’altro la stessa Italia, o meglio: quella parte meno ‘anglofila’ del regime che comincia a scommettere su una politica energetica autonoma attraverso la costituzione di un ente petrolifero nazionale. Un disegno pericoloso quanto la presenza degli Usa, per gli interessi britannici nel Mediterraneo e in Medio Oriente, e che Londra tenta di contrastare in tutti i modi attraverso le sue quinte colonne italiane.

Gli interessi inglesi sono salvi. E Mussolini pure




Tra il 1920 e il 1921, pur tra mille difficoltà, il governo liberale costituisce la Direzione generale dei combustibili (Dgc), che ha il compito di ridurre la dipendenza energetica italiana dalle compagnie straniere. Ma una commissione parlamentare, istituita per elaborare una proposta di riordinamento dell’amministrazione dello Stato, verso la fine del 1921 conclude i suoi lavori con la proposta di abolire la Dgc, provocando la violenta reazione di una parte del governo. Il ministro dell’Agricoltura, da cui la Dgc dipende, dichiara che se tale proposta fosse accettata, comprometterebbe, ‘con grave pregiudizio dell’economia nazionale, la politica di combustibili all’estero, e particolarmente l’approvvigionamento degli olii minerali’, cioè quella politica avviata dalla Dgc per assicurare al paese ‘le fonti di petrolio all’estero, onde emanciparsi dal servaggio imposto all’Italia dai grandi trust internazionali’.

Un’esigenza – dettaglio non di poco conto in quel contesto – che induce tra l’altro il governo italiano a stipulare con la neonata Urss, nel 1923, un accordo per le forniture petrolifere; scelta che Mussolini giustifica alla Camera con queste parole: ‘Il trattato con l’Unione Sovietica nasce dalla necessità di rinsaldare l’indipendenza del nostro mercato dai trust internazionali nelle cui mani non possiamo affidare l’avvenire della nostra industria e la stessa sicurezza dei servizi pubblici, in particolare quelli attinenti la difesa della nostra Patria’.

È un atto che i britannici non gradiscono.




Innanzitutto, perché un loro agente ha osato ‘muoversi in proprio’, andando addirittura contro la decisione di boicottare il petrolio ‘comunista’ presa l’anno precedente, nel 1922, alla conferenza dell’Aja. E poi perché, visto che gli inglesi si accingono a dare l’assalto al mercato italiano, anche i rapporti tra Roma e Mosca (come quelli con le americane Standard Oil e Sinclair Oil) costituiscono una minaccia per i loro interessi. Insomma, non vogliono che il nostro paese si trovi un giorno nella condizione di emanciparsi dalla dipendenza energetica, e quindi anche politica, britannica. Un obiettivo che coincide con quello di una parte del ceto politico e del mondo dell’informazione italiani dell’epoca.

La Direzione generale combustibili viene chiusa nel 1923, con una decisione imposta dallo stesso Mussolini. E con quell’atto si spalancano alla Gran Bretagna le porte del mercato italiano e le vie del petrolio dal Medio Oriente all’Europa, proprio attraverso l’Italia.

Dunque, nonostante certe sue intemperanze e velleità autonomistiche, il duce è per Churchill, e per gli interessi economici che il leader conservatore britannico rappresenta, una pedina troppo importante perché si possa correre il rischio di perderla.

L’assassinio di Matteotti, proprio alla vigilia del suo importante discorso alla Camera, quello in cui avrebbe denunciato le tangenti legate alla convenzione con la Sinclair, risolve ogni problema. A Mussolini. Alla britannica Apoc. E a Churchill che, attraverso le carte di De Bono e quelle di Dumini, può continuare a tenere in pugno il duce. Gli americani sono messi da parte, Mussolini non cade perché Matteotti non riesce a pronunciare la denuncia in parlamento, e gli interessi inglesi sono salvi. Churchill insomma sceglie il male minore, pur di salvare il duce da una catastrofe annunciata.

(Cereghino/Fasanella, Il golpe inglese)










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