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Senocrate
fu il primo filosofo ad accordare importanza al demone, la lacunosità delle
testimonianze non ci consente di ricostruirne il sistema demonologico nella sua
completezza. Invece nell’Epinomide possiamo individuare una abbastanza
esaustiva trattazione della demonologia immediatamente successiva a Platone.
Dopo
un elogio della matematica in quanto dono del cielo, fondamento della virtù,
delle arti e di ogni bene, l’autore passa ad una metodica esposizione
teologico-cosmologica, affermando che agli dei visibili, gli astri, esseri
intelligenti dal corpo igneo, segue la stirpe dei demoni, i più elevati dei
quali sono denominati eterei (si noti il nesso tra questi enti gerarchicamente
inferiori agli dei e l’elemento etere, che pare rinviare a quegli esseri che
più tardi entreranno nella tradizione greco-romana con il nome di angeli); al
di sotto di essi troviamo la classe aerea, che occupa il terzo posto, quello
intermedio, ed ha perciò la funzione di interprete e va onorata con preghiere
di ringraziamento per la sua benevola opera di intercessione.
Queste
due classi sono completamente trasparenti alla nostra vista e, pur essendo
molto vicine a noi, non ci appaiono per nulla; il loro ruolo di intermediari è
reso possibile dalla posizione mediana, che permette loro di passare facilmente
dalla terra ad ogni regione del cielo.
Tali
esseri possiedono una mente eccelsa, apprendono facilmente e sono dotati di
ottima memoria; conoscono tutto ciò che noi pensiamo ed hanno una particolare
predilezione per chi è moralmente buono e bello e una viva avversione per il
malvagio. Tuttavia partecipano al dolore, a differenza degli dei che, avendo
nella loro natura la perfezione, sono estranei alla sofferenza e al piacere.
La classe seguente è costituita dai semidei generati dall’acqua (una formulazione che induce ad interpretare questi enti come eroi, dato l’appellativo di semidei e la collocazione successiva ai demoni aerei): talvolta si riesce a vederli, altre volte essi scompaiono del tutto alla vista, lasciando sbalorditi con le loro vaghe apparizioni.
L’attenzione
alle epifanie degli esseri divini, che rientrano nell’ambito della loro
essenza-potenza-attività, costitutiva di ciascun essere sarà una costante nella
tradizione del pensiero platonico e la ritroveremo nel De mysteriis, dove Giamblico
dedicherà un intero libro, il secondo, alle apparizioni; l’accentuarsi della
trascendenza del divino porta in effetti tanto più a concentrarsi sull’aspetto
fenomenico di questo, quanto più la sua essenza si fa lontana ed inconoscibile
all’uomo.
Nel
complesso l’autore dell’Epinomide sembra voler ribadire l’onnipresenza del
divino nel cosmo, già teorizzata agli arbori della filosofia greca, attraverso
l’assegnazione dei vari gradi dell’essere a ciascuno dei cinque elementi. In
tale contesto emerge, da un lato, la fedeltà alla nozione platonica di demone
intermediario; dall’altro, una stratificazione del demonico che rimanda ad una
acuita trascendenza del divino, riscontrabile, nello stesso periodo, in
Senocrate.
La demonologia occupa un ruolo di spicco nella sfaccettata riflessione di Plutarco di Cheronea, poliedrico scrittore vissuto tra il 50 e il 120 d.c. Anche se dalle sue opere trapela soprattutto la rielaborazione della dottrina del demone anima, su cui ci si soffermerà nel prossimo capitolo, anche la nozione del mediatore riveste una notevole importanza: ne costituisce la premessa la concezione plutarchea di dio, che è in se stesso lontanissimo dalla terra, incontaminato, incorruttibile, puro da ogni materia che soggiaccia alla distruzione e alla morte.
In
tale contesto si ribadisce la funzione degli esseri intermedi, grazie ai quali
si ha un punto in comune e un legame tra noi e la divinità; una teoria, questa,
curiosamente considerata di origine straniera: è incerto, afferma l’autore, se
essa sia dovuta a Zoroastro e ai suoi magi, oppure sia tracia e derivi da
Orfeo, o sia egizia o frigia. Se, comunque, si sottraesse l’aria tra la terra e
la luna, l’unità e la coesione del tutto risulterebbero spezzate; così chi non
ammette la categoria del demonico toglie continuità e relazione tra il mondo
degli dei e quello degli uomini, eliminando esseri che svolgono il compito di
interpreti e ministri.
L’elemento
aria, grazie alla sua fluidità, assume una certa conformazione in rapporto a
ciò che viene pensato dai demoni, e comunica agli uomini divini ed eccezionali
il pensiero di colui che ha pensato.
Lo status dell’intermedietà implica perciò la connessione con la divinazione e gli oracoli, già prerogativa dell’Eros platonico. Nel De defectu oraculorum il tramonto degli oracoli è attribuito alla scomparsa dei demoni ad essi preposti: se queste entità vengono messe al bando o emigrano altrove, gli oracoli perdono la loro virtù; con la ricomparsa di quelle, essi riacquistano voce, come strumenti suonati da musicisti.
Il
racconto del barbaro del Mar Rosso riconduce la virtù oracolare ai demoni; lo
straniero, che trascorre la maggior parte del tempo in compagnia di ninfe
erranti e demoni, ed è più oltre definito egli stesso un demone, è ispirato
all’arte mantica un giorno all’anno, quando profetizza sulla riva del mare.
Anche in Il volto sulla luna si allude ai demoni che assistono e servono
Crono nell’isola dove è imprigionato; essi sarebbero dotati di capacità
profetiche, in grado di trarre innumerevoli vaticini. Di fatto sembra che i
demoni intervengano nella mantica in qualità di sorveglianti e custodi della
giusta proporzione di quella temperie prodotta dall’anima umana e
dall’ispirazione profetica; come nell’accordo di uno strumento, essi eliminano
ogni eccesso nel rapimento estatico, introducendovi una commozione pacata e
serena.
Un’organica
esposizione demonologica ci è fornita nel
VII sec. a.c. da Esiodo in ‘Le opere
e i giorni’: la prima stirpe umana, annota lo scrittore, è la stirpe aurea
dei tempi di Crono, che dopo la morte sono diventati demoni puri terrestri,
custodi dei mortali; essi hanno cura della giustizia e delle azioni malvagie,
sono vestiti di nebbia e sparsi ovunque sulla terra.
La seconda stirpe, argentea, è assai peggiore della prima; dopo la morte, questi demoni sono chiamati mortali beati sotterranei.
Dopo
una terza stirpe, ancora inferiore, la quarta è quella degli eroi. La classe
demonica è perciò costituita dagli Spiriti dei morti, investiti del compito di
custodire i viventi; essi si inseriscono in una precisa gerarchia determinata
da qualità morali (dal migliore al peggiore); la loro funzione sembrerebbe
rivolta più ad una collettività indeterminata che ai singoli individui.
Alla
teoria del demone anima deve ricondursi, in ultima analisi, l’intera
demonologia del pitagorismo antico.
Abbiamo
osservato come le Memorie pitagoriche immaginavano l’aria pullulante di anime
chiamate demoni ed eroi, che inviavano sogni e segni ai viventi; apprendiamo da
una testimonianza di Plutarco nel ‘De genio Socratis’ che Simmia di Tebe,
discepolo di Filolao, considerava il demone il vero nome dell’anima.
Dalla
lettura di un Frammento (14) dello stesso Filolao è possibile istituire un
nesso tra l’anima demone e la dottrina della metempsicosi, centrale nel
pensiero pitagorico: l’anima è vincolata al corpo in conseguenza di una colpa;
la credenza nella trasmigrazione delle anime occuperà un ruolo non trascurabile
nella demonologia di Empedocle e di Platone.
Agli assunti demonologici dei seguaci di Pitagora si avvicinano altri filosofi dei secoli VI e V: nel Frammento 73 di Eraclito leggiamo che l’uomo inesperto è solito prestare ascolto al demone, come un bambino ad un uomo: il demone è perciò un’entità legata all’individuo, gerarchicamente e moralmente superiore, che ammonisce con buoni consigli.
Per
Empedocle i demoni sono anime inserite nella ruota incessante della
trasmigrazione, che si trovano, prima di terminare il loro ciclo, a rivestire
aspetti di uomini, piante, animali; l’obbligo di reincarnarsi dipende dall’onta
dei crimini commessi. Dopo molte incarnazioni queste anime muoiono, cioè
vengono assorbite nella divinità universale.
Riallacciandosi
alla tradizione di matrice pitagorica, poi canonizzata da Senocrate, e
adattandola alle nozioni dell’astrologia, Porfirio ritiene che l’individuo
felice sia colui che, conoscendo il proprio quadro astrale e quindi il demone
personale, è in grado di allontanare la fatalità per mezzo dei sacrifici; ma,
obietta Giamblico, se il demone ci è stato assegnato in base alle
configurazioni celesti al momento della nascita, ed è in base a queste che
possiamo individuarlo, come potremmo distruggere il destino mediante la
conoscenza di un essere assegnatoci, appunto, dal fato?
La
critica del Calcidese prende le mosse da una ferma gerarchia di valori che vede
i principi divini e trascendenti, come i demoni, decisamente più in alto
rispetto alle realtà scientifiche e umane quale, appunto, l’arte degli
oroscopi.
Anche la riflessione sul demone personale, quindi, dipende dalla complessa serialità dell’esistente, e dal postulato che le realtà superiori non possono in alcun modo trarre origine da quelle inferiori, o essere vincolate ad esse: ne è prova la già citata impassibilità degli enti divini, che, in quanto sostanze incorporee ed eterne, non possono accogliere al loro interno mutamenti provenienti dai corpi.
Beninteso,
Giamblico non intende affatto escludere il nesso tra astrologia e indagine sul
demone personale, quanto piuttosto ribadire che, poiché per il demone stesso vi
sono cause più antiche, le tavole astrologiche non sono indispensabili e
possono venire sostituite dalla mantica divina. La teurgia, intesa come culto
divino, si rivela quindi supremo strumento di conoscenza, per il resto,
Giamblico è pronto a difendere l’astrologia reputata un dono degli Dei.
La
dottrina astrologica rientra nella divinazione che si compie in previsione
dell’avvenire attraverso le viscere, il volo degli uccelli, gli astri. In
sostanza questo genere di mantica, sia pur mediato dai segni, è veritiero
perché riconducibile agli Dei, che modellano essi stessi mediante la Natura, a
loro disposizione per la produzione dei fenomeni.
Ricorrendo
alla divinazione sacra e alla teurgia, osserva Giamblico, è possibile risolvere
qualsiasi difficoltà e incertezza legate ai calcoli astrologici, come l’ardua
individuazione dell’anima, da cui a sua volta dipende la determinazione del
demone. Tuttavia quest’ultimo non è dato dal signore della casa soltanto, dal
momento che esistono principi ben più universali di esso: il Filosofo intende
mettere in guardia Porfirio dal disgiungere un singolo elemento dal tutto,
preoccupandosi di saldare l’immagine del demone ad un assetto cosmico ordinato
e compatto.
Questo essere, in effetti, sta già in forma di modello: la nozione lo riporta alla sfera delle idee prima che le anime discendano nel mondo del divenire. Dal momento in cui un’anima lo sceglie come guida, subito il demone si fa suo realizzatore: quando essa discende verso il corpo la lega ad esso, governa l’essere vivente che è in comune con lei, fornisce i principi di tutto ciò che viene concepito con il ragionamento, guida le azioni dell’individuo fino al momento in cui, mediante la teurgia ieratica noi poniamo un dio come guardiano e sorvegliante della nostra anima.
A
questo punto il demone cede a questo essere più potente, gli consegna il
dominio sull’elemento psichico oppure gli si sottomette per collaborare con
lui, insomma si rende in qualche modo servo del dio che comanda.
È
soprattutto nell’opera De abstinentia
di Porfirio che la distinzione in
senso dualistico fra il demone buono e quello malvagio si fa netta, con
un’interessante interrelazione tra la natura del demone e la sua fisicità
tramite il concetto del pneuma: quest’ultimo è la materia sottile ed aerea
assunta dall’anima nel corso della discesa attraverso le sfere celesti, di cui
essa dovrà liberarsi durante la risalita.
Nel
caso in cui il pneuma assorba la materia diverrà pesante, e coloro che se ne
rivestono saranno percepibili alla vista; perciò i demoni malvagi, dominati dal
pneuma, restano ancorati alla materia, tanto che è possibile vederli, mentre
quelli buoni dominano sul pneuma attraverso il Logos.
I
demoni malvagi causano sciagure e pestilenze e insinuano negli uomini opinioni
errate sugli dei; risalta qui l’analogia con quei cristiani che reputavano i
demoni fomentatori di eresia, a partire da quando, nel II sec. d.c. Ignazio di Antiochia usa il sostantivo demone in
senso negativo per indicare una dottrina errata: il diavolo viene considerato
allora responsabile di ogni forma di dissenso e, d’altra parte, l’esistenza
stessa del dissenso è vista come prova evidente dell’intervento diabolico.
(F. Innocenzi da G. Lazzari, Un mondo
perduto)
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