precedenti capitoli
con la danza
PROSEGUE CON IL
& CON IL RACCONTO
Con il grasso
di ciuco si è impiastrato
Ed il
bossolo al collo s’è legato,
Chi osi
dire che Dio nostro Signore
È sol
misericordia e mai furore,
Anche
quando gran male si commetta,
E che
giudica il peccato una cosetta
Da nulla e
quasi tutt’affatto umana.
Non è,
credi, per l’oca o per la rana
Che è fatto
lo splendor del paradiso
E non è sol
da oggi a mio avviso,
Che dopo
aver commesso peccato
Riattacca a
farlo l’uomo sciagurato
Che conosca
la bibbia a menadito
E di storie
molt’altre ne abbia udito,
E tuttavia
pretenda di ignorare
Ciò che lo scritto gli vuole insegnare:
Che
punizione segue puntuale,
Con
sofferenze e fuoco infernale,
Poiché il
signore mai potrà accettare
Che gli si
possa offensione arrecare.
Iddio non è
boemo né tatàro,
Ma il loro
gergo gli riesce chiaro;
Benché sia
grande la sua compassione
Che ignora
peso, metro e condizione,
Resta però
la giustizia divina,
Al
peccatore in eterno vicina,
E non risparmia
chi ha commesso il male
E i figli e
i pronipoti pur ne assale.
Misericordia
a lungo mai non dura,
Quando
giustizia interviene sicura;
Per l’oca
il cielo non è stato fatto;
Ma di certo
né l’asino né il matto,
Né la
scimmia, né il porco, né il vitello,
Non entran
nel celeste porto bello;
Ché tutto
ciò che appartiene al demonio
Giammai avrà del paradiso il conio.
(S. Brant, La nave dei folli)
BISOGNA CONTINUARE
Nel
discorso che devo oggi tenere, e in quelli che mi occorrerà tenere qui, forse
per anni, avrei voluto poter insinuarmi surrettiziamente. Più che prendere la
parola, avrei voluto esserne avvolto, e portato ben oltre ogni inizio
possibile. Mi sarebbe piaciuto accorgermi che al momento di parlare una voce
senza nome mi precedeva da tempo: mi sarebbe allora bastato concatenare, proseguire
la frase, ripormi, senza che vi si prestasse attenzione, nei suoi interstizi,
come se mi avesse fatto segno, restando, per un attimo, sospesa. Inizi, non ce
ne sarebbero dunque; e invece d’essere colui donde viene il discorso, secondo
il capriccio del suo svolgimento, sarei piuttosto una sottile lacuna, il punto
della sua scomparsa possibile. Mi sarebbe piaciuto che dietro a me ci fosse
(avendo preso la parola da un pezzo, superando in anticipo tutto quel che sto
per dire) una voce che parlasse così:
Bisogna continuare, non posso continuare, bisogna
dire parole sinché ce ne sono, bisogna dirle sinché mi trovino, sinché mi
dicano – strana pena, strana colpa, bisogna continuare, è forse già cosa fatta,
mi hanno forse già detto, mi hanno forse portato sino alle soglie della mia
storia, dinnanzi alla porta che s’apre sulla mia storia, mi stupirei si
aprisse, questa porta.
C’è in molti, penso, un simile desiderio di non dover cominciare, un simile desiderio di ritrovarsi, d’acchito, dall’altra parte del discorso, senza aver dovuto considerare dall’esterno ciò che esso poteva avere di singolare, di temibile, di malefico forse. A questo augurio così comune, l’istituzione risponde sull’ironico, perché essa rende solenni gli esordii, perché li attornia d’un cerchio di attenzione e di silenzio, e impone loro, per segnalarli da più lontano, forme ritualizzate.
Il desiderio dice:
Non vorrei dover io stesso entrare in
quest’ordine fortuito del discorso; non vorrei aver a che fare con esso in ciò
che ha di tagliente e di decisivo; vorrei che fosse tutt’intorno a me come una
trasparenza calma, profonda, indefinitamente aperta, in cui gli altri
rispondessero alla mia attesa e in cui le verità, ad una ad una, si alzassero;
non avrei che da lasciarmi portare, in esso e con esso, come un relitto felice.
E l’istituzione risponde:
Non devi aver timore di cominciare; siamo tutti
qui per mostrarti che il discorso è nell’ordine delle Leggi; che da tempo si
vigila sulla sua apparizione; che un posto gli è stato fatto, che lo onora ma
lo disarma; e che, se gli capita d’avere un qualche potere, lo detiene in
grazia nostra, e nostra soltanto.
Ma forse quest’istituzione e questo desiderio non sono altro che due risposte opposte ad una stessa inquietudine: inquietudine nei confronti di ciò che il discorso è nella sua materiale realtà di cosa pronunciata o scritta; inquietudine nei confronti di quest’esistenza transitoria, destinata magari a cancellarsi, ma secondo una durata che non ci appartiene; inquietudine nell’avvertire dietro a questa attività, pur quotidiana e grigia, poteri e pericoli che si immaginano a stento; inquietudine nel sospettare lotte, vittorie, ferite, dominazioni, servitù attraverso tante parole, di cui l’uso ha ridotto da sì gran tempo le asperità….
Ma che c’è
dunque di tanto pericoloso nel fatto che la gente parla e che i suoi discorsi
proliferano indefinitamente?
Dov’è dunque il pericolo?
Ecco
l’ipotesi che vorrei avanzare questa sera, per fissare il luogo – o forse il
molto provvisorio teatro – del lavoro che faccio: suppongo che in ogni società
la produzione del discorso è insieme controllata, selezionata, organizzata e
distribuita tramite un certo numero di procedure che hanno la funzione di scongiurarne
i poteri e i pericoli, di padroneggiarne l’evento aleatorio, di schivarne la
pesante, temibile materialità. In una società come la nostra si conoscono,
naturalmente, le procedure d’esclusione.
La più evidente, ed anche la più familiare, è quella dell’interdetto. Si sa bene che non si ha il diritto di dir tutto, che non si può parlare di tutto in qualsiasi circostanza, che chiunque, insomma, non può parlare di qualunque cosa. Tabù dell’oggetto, rituale della circostanza, diritto privilegiato o esclusivo del soggetto che parla: si ha qui il gioco di tre tipi d’interdetto che si incrociano, si rafforzano o si compensano, formando un reticolo complesso che non cessa di modificarsi.
Noterò solo
che, ai nostri giorni, le regioni in cui il reticolo è più fitto, in cui si
moltiplicano le caselle nere, sono le regioni della Natura e la sua protezione assommata alla
politica del dominio della ragione: come se il discorso, lungi dall’essere
l’elemento trasparente o neutro nel quale la Natura si placa e la politica si
pacifica, fosse uno dei siti in cui esse esercitano, in modo privilegiato,
alcuni dei loro più temibili poteri: il dominio.
Il
discorso, in apparenza, ha un bell’essere poca cosa, gli interdetti che lo colpiscono
rivelano ben tosto, e assai rapidamente, il suo legame col desiderio e col
potere.
E non vi è
nulla di sorprendente in tutto questo: poiché il discorso – la psicanalisi ce
l’ha mostrato – non è semplicemente ciò che manifesta (o nasconde) il
desiderio; e poiché – questo, la storia non cessa di insegnarcelo – il discorso
non è semplicemente ciò che traduce le lotte o i sistemi di dominazione, ma ciò
per cui, attraverso cui, si lotta, il potere di cui si cerca di impadronirsi.
Esiste, nella nostra società, un altro principio d’esclusione: non più un interdetto, ma una partizione (partage) e un rigetto. Penso alla opposizione tra ragione e follia.
Dal
profondo del Medioevo
il folle è colui il cui discorso non può circolare come quello degli altri:
capita che la sua parola sia considerata come nulla e senza effetto, non avendo
né verità né importanza, non potendo far fede in giustizia, non potendo
autenticare un atto o un contratto, non potendo nemmeno, nel sacrificio della
messa, permettere la transustanziazione e fare del pane un corpo; capita anche,
in compenso, che le si attribuiscano, all’opposto di ogni altra parola, strani
poteri, quello di dire una verità nascosta, quello di annunciare l’avvenire,
quello di vedere del tutto ingenuamente quel che la saggezza degli altri non
può scorgere.
È curioso
constatare che per secoli in Europa la parola del folle o non era intesa,
oppure, se lo era, veniva ascoltata come una parola di verità. O cadeva nel
nulla – rigettata non appena proferita; oppure vi si decifrava una ragione ingenua
o scaltrita, una ragione più ragionevole di quella della gente ragionevole.
In ogni
modo, esclusa o segretamente investita dalla ragione, in senso stretto essa non
esisteva.
La follia
del folle si riconosceva attraverso le sue parole; esse erano il luogo in cui
si compiva la partizione; ma non erano mai accolte né ascoltate. Ecco perché
gulag lager esiliati perseguitati e tutti coloro che sono costantemente
avvelenati in nome e per conto dello Stato sovrano, per l’occhio della massa
contengono il germe, o il genio, della follia bandita e ben perseguitata…
Per concludere questo breve capitolo meditiamo
breve lapidaria riflessione:
‘se la parola del Folle coniata dalla presunta
follia e bandita dalla società per ogni verità detta, la quale vigile vive nella
costante incertezza della propria celata follia a guardia della stessa e
acclamata quale Verità certa, in nome del popolo Sovrano; ed al contrario,
quella Follia ben votata potrà essere ancora edificata e spacciata per ultima
verità acclamata o ancora da acclamare’…
…regnerà in nome di quale potere in Terra?
(Woodward & Foucault)
LA NAVE DEI FOLLI
Occorre
ora ricordare molto frettolosamente, cominciamo dal più semplice, ma anche
dal più simbolico di questi aspetti. Un nuovo oggetto fa la sua apparizione nel
paesaggio immaginario del Rinascimento; ben presto occuperà in esso un posto
privilegiato: è
la ‘Nave dei folli’, strano battello ubriaco che fila lungo i fiumi
della Renania e i canali fiamminghi. Il ‘Narrenschiff’ è evidentemente una creazione
letteraria, presa in prestito al vecchio ciclo degli Argonauti, che ha
recentemente ripreso vita e gioventù tra i grandi temi mitici, e al quale si è
appena dato un aspetto istituzionale negli stati di Borgogna.
È di moda immaginare
queste navi il cui equipaggio di eroi immaginari, di modelli etici, o di tipi
sociali s’imbarca per un grande viaggio simbolico che fornisce loro, se non la
fortuna, almeno la fisionomia del loro destino o della loro verità. È così che
Symphorien Champier compone successivamente una “Nef des princes et des batailles de Noblesse”, nel 1502, poi una “Nef des Dames vertueuses” nel
1503; abbiamo anche una “Nef de
Sant‚”, accanto a “Blauwe Schute” di Jacop van Oestvoren nel 1413, al ‘Narrenschiff’ di Brandt (1497) e
all’opera di Josse Bade: “Stultiferae
naviculae scaphae fatuarum mulierum” (1498).
Il quadro di Bosch, naturalmente, appartiene a tutta questa flotta di sogno. Ma di tutti questi vascelli romanzeschi o satirici, il Narrenschiff è il solo che abbia avuto un’esistenza reale, perché sono esistiti questi battelli che trasportavano il loro carico insensato da una città all’altra.
I folli
allora avevano spesso un’esistenza vagabonda, le città li cacciavano volentieri
dalle loro cerchie; li si lasciava scorrazzare in campagne lontane, quando non
li si affidava a un gruppo di mercanti o di pellegrini. L’usanza era frequente
soprattutto in Germania; a Norimberga, durante la prima metà del quindicesimo
secolo, era stata registrata la presenza di sessantadue folli; trentuno sono
stati cacciati; per i cinquant’anni seguenti si conserva la traccia di ventun partenze
obbligate; e si tratta solo dei folli arrestati dalle autorità municipali.
Accadeva
spesso che venissero affidati a battellieri: a Francoforte, nel 1399, alcuni marinai
vengono incaricati di sbarazzare la città di un folle che passeggiava nudo; nei
primi anni del quindicesimo secolo un pazzo criminale è spedito nello stesso modo
a Magonza. Talvolta i marinai gettano a terra questi passeggeri scomodi ancor
prima di quanto avevano promesso; ne è testimone quel fabbro di Francoforte,
due volte partito e due volte ritornato, prima d’essere ricondotto
definitivamente a Kreuznach.
Le città europee hanno spesso dovuto veder approdare queste navi di folli.
Non è
facile ricuperare il significato preciso di questa usanza si può pensare che si
tratti di una misura generale di rinvio con cui le municipalità colpiscono i
folli in stato di vagabondaggio; ipotesi che non può chiarire i fatti da sola,
perché accade che certi folli, prima ancora che vengano costruite per loro
delle case speciali, siano accolti negli ospedali e curati come tali; all’Hotel-Dieu
di Parigi essi hanno i loro rifugi disposti in dormitori…
La loro
successiva partenza e il loro imbarco non possono venire spiegati solo con l’utilità
sociale o con la sicurezza dei cittadini. Altri significati più vicini al rito
erano certamente presenti; ed è ancora possibile decifrarne alcune tracce. È per
questo che l’accesso alle chiese è vietato ai folli, mentre il diritto
ecclesiastico non proibisce loro l’uso dei sacramenti. La Chiesa non prende
sanzioni contro un prete che diventa pazzo; ma a Norimberga, nel 1421, un prete
folle è cacciato con una particolare solennità, come se l’impurità fosse
moltiplicata a causa del carattere sacro del personaggio, e la città preleva
sul proprio bilancio il denaro che deve servirgli da viatico.
Accadeva che
certi insensati fossero frustati pubblicamente, e che durante una specie di
giuoco fossero poi inseguiti in una corsa simulata e cacciati dalla città a
colpi di verga.
Tutte prove
che la partenza dei pazzi si inscriveva nel numero di altri esili rituali.
Si
comprende meglio allora la curiosa ricchezza di significato che si accumula
sulla navigazione dei folli e che indubbiamente le conferisce il suo prestigio.
Da un lato non bisogna contestare la sua efficacia pratica: affidare il folle
ai marinai significa evitare certamente che si aggiri senza meta sotto le mura
della città, assicurarsi che andrà lontano, renderlo prigioniero della sua
stessa partenza. Ma a tutto questo l’acqua aggiunge la massa oscura dei suoi
valori particolari; essa porta via, ma fa ancor più: essa purifica; e inoltre
la navigazione abbandona l’uomo all’incertezza della sorte; là ognuno è
affidato al suo destino, ogni imbarco è potenzialmente l’ultimo.
È per l’altro mondo che parte il folle
a bordo della sua folle navicella; è dall’altro mondo che arriva quando sbarca.
È posto all’interno
dell’esterno e viceversa.
Posizione
altamente simbolica, che resterà senza dubbio sua fino ai nostri giorni,
qualora si ammetta che ciò che fu un tempo la fortezza visibile dell’ordine è diventato
ora il castello della nostra coscienza.
L’acqua e la navigazione hanno davvero questo significato. Prigioniero nella nave da cui non si evade, il folle viene affidato al fiume dalle mille braccia, al mare dalle mille strade, a questa grande incertezza esteriore a tutto. Egli è prigioniero in mezzo alla più libera, alla più aperta delle strade: solidamente incatenato all’infinito crocevia. È il Passeggero per eccellenza, cioè il prigioniero del Passaggio. E non si conosce il paese al quale approderà, come, quando mette piede a terra, non si sa da quale paese venga. Egli non ha verità né patria se non in questa distesa infeconda fra due terre che non possono appartenergli.
È questo il rituale che, a causa di questi valori, è all’origine della lunga parentela immaginaria che si può constatare lungo tutta la cultura occidentale. O, al contrario, è questa parentela che dal fondo dei tempi ha evocato e poi fissato il rito dell’imbarco. Una cosa almeno è certa: l’acqua e la follia sono legate per lungo tempo nei sogni dell’uomo europeo.
Già
Tristano, travestito da pazzo, si era un tempo lasciato gettare da alcuni
battellieri sulla costa di Cornovaglia. E quando si presenta al castello del re
Marco, nessuno lo riconosce, nessuno sa da dove venga. Ma fa troppi discorsi
strani, familiari e lontani; conosce troppo i segreti di ciò che è ben noto,
per non essere di un altro mondo, molto vicino. Non viene dalla terra solida,
con le sue solide città; ma dall’incessante inquietudine del mare, da quelle
strade sconosciute che nascondono tanti saperi strani, da quella pianura
fantastica, rovescio del mondo. Isotta, per prima, sa bene che quel pazzo è figlio
del mare, e che è stato gettato lì, come segno di sciagura, da insolenti
marinai: “Maledetti siano i marinai che hanno condotto questo folle!
Perché non l’hanno gettato in mare!
(M. Foucault)
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