CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

domenica 18 febbraio 2024

LA VENEZIA DEL NORD, ovvero, il racconto della Domenica










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di uno o più Viaggi 


dell'Anima







Nel 1541, il ventenne nobile mercante fiorentino Lodovico Guicciardini venne ad Anversa per aiutare lo zio Girolamo nei suoi affari. La città gli piacque così tanto che continuò a viverci per il resto della sua vita, fino alla morte avvenuta nel 1589. Quanto i Paesi Bassi lo affascinassero è evidente dalla sua Descrittione di tutti i Paesi Bassi, scritta probabilmente senza troppe pretese o aspettative , comunque sia la prima monografia dedicata all’angolo settentrionale dell’impero asburgico.

 

La sua opera precedente, un trattato storico con particolare attenzione ai Paesi Bassi, i Comentarii delle cose più memorabili seguite in Europa, era già stata pubblicata nel 1565. Nella sua Descrittione, Guicciardini descrisse le varie province dei Paesi Bassi con particolare attenzione alle città più importanti, ma trattò anche questioni come il commercio e l’industria, le scienze e le arti.

 

Anversa è il punto di partenza di Guicciardini. Questa città riceve la massima attenzione e nella prima edizione – l’unica - oltre alla pianta della città, presenta anche una veduta della Cattedrale di Nostra Signora e del Municipio, integrata nell’edizione Plantin del 1581 con le immagini dei Borsa e Hanzehuis. Le altre quattordici carte riguardano i Paesi Bassi (l’unica incisione su rame), le province del Brabante, dell’Olanda e delle Fiandre e una selezione di dieci città. Nell’edizione Plantin, alla quale contribuì lo stesso Guicciardini, il numero delle illustrazioni fu notevolmente ampliato, arrivando a 55 in totale, ora tutte in incisione su rame. Oltre ai Paesi Bassi, otto province, ducati, contee o principi vescovi ricevono una mappa, più altre 41 città.

 

Ma anche qui la posizione centrale di Anversa rimane intatta, con quattro paesaggi urbani oltre alla mappa della città. Un’edizione francese pubblicata da Plantin nel 1582 conteneva già 78 mappe, planimetrie e vedute della città. Quando la Descrittione fu pubblicata nei Paesi Bassi settentrionali a partire dal 1609, le illustrazioni furono nuovamente ampliate, arrivando ora a 93. Nelle edizioni successive il numero a volte superò addirittura il centinaio. Il grande merito dell’opera qui discussa è che le diverse immagini della stessa città - a volte fino a sette - vengono distinte e collegate alle innumerevoli diverse edizioni dell’opera pubblicate nell’arco di quasi un secolo.




Forse Guicciardini non immaginava che il suo lavoro pionieristico avrebbe continuato a suscitare così tanto interesse per così tanto tempo. Perché anche se negli anni Sessanta del Cinquecento scriveva ancora energicamente i Paesi Bassi, erano tempi turbolenti e sarebbero rimasti tali per qualche tempo a venire. Ma forse quei tempi turbolenti contribuirono al fatto che la sua opera del 1567 sarebbe rimasta un classico fino al XVII secolo inoltrato: almeno le ultime edizioni in folio dell’Olanda settentrionale spesso coincidono bene con momenti come l’inizio e la fine dei Dodici Anni e la pace di Münster.

 

Quando è stato creato il libro, la pace era solo apparente. Ad esempio, Willem Silvius, il primo editore di Anversa della Descrittione, ottenne il privilegio di pubblicazione per dieci anni nel 1565. L’anno successivo scoppiò la Beeldenstorm. Ciò tuttavia non impedì che l’opera comparisse in italiano e francese nel 1567 e che ne fosse pubblicata una ristampa francese nel 1568. Anni dopo, anche il suo concittadino Christoffel Plantin ne vide dei meriti e, alle spalle di Silvius, ottenne il privilegio di una nuova edizione il 1° luglio 1580.

 

Considerati i suoi ingenti investimenti - non solo Guicciardini stesso fornì alcune aggiunte al suo testo originale e Plantin fece stampare le 17 tavole in gran parte da xilografie incise in rame e ampliando il numero delle tavole a 55 - lo stampatore del libro annuncerà con soddisfazione, poco prima della pubblicazione la quale mise in ansia gli spagnoli: “dopo tutto, i Paesi Bassi settentrionali stanno riflettendo sulla loro posizione e non più o solo geografica”.

 

Plantin optò saggiamente per una sicura via di mezzo e decise di lasciare aperto il posto riservato allo stemma e al ritratto del monarca regnante, in modo che, a seconda della situazione, lì potessero essere onorati Filippo II o il duca d’Angiò.

 

Il libro venne pubblicato ai primi di marzo del 1581 e poco dopo, il 26 luglio, l’edizione italiana del 1581 è nota per gli spazi vuoti o le armi e i ritratti di Filippo II incollati; l’edizione francese del 1582 per i detti latini stampati o le armi e i ritratti incollati del duca d’Angiò. In definitiva, la seconda edizione italiana, del 1588 - dopo la presa di Anversa da parte del duca di Parma nel 1585 - rifletterebbe fedelmente la situazione stabilizzata e includerebbe semplicemente lo stemma e il ritratto di Filippo II in stampa.




 

L’EDITTO

 

 

Giunsero così alla Casa del Comune, dinnanzi alla quale stavano, a cavallo, gli araldi che suonavano la tromba e battevano i cimberli; il prevosto con la verga della giustizia; e il procuratore comunale, anch’esso a cavallo, che teneva con due mani un’ordinanza dell’Imperatore e si preparava a leggerla alla folla radunata intorno. Claes udì chiaramente che si proibiva di nuovo, a tutti in generale e in particolare, di stampare leggere possedere o divulgare scritti, libri o dottrine di Martin Lutero, di Giovanni Wycleff, Giovanni Huss, Marcilius de Padua, Aecolampadius, Ulricus Zwynglius, Philippus Melancthon, Franciscus Lambertus, Joannes Pomeranus, Otto Brunselsius, Justus Jonas, Joannes Puperis e Gorcianus, i Nuovi Testamenti stampati da Adriano de Berghes, Cristoforo de Remonda e Giovanni Zel, pieni di eresie luterane e simili, riprovati e condannati dalla Facoltà teologica dell’Università di Louvain.

 

Similmente si vietava di dipingere o far dipingere o ritrarre pitture o figure obbrobriose di Dio e della  benedetta Vergine Maria o dei suoi Santi; di rompere, spezzare o cancellare le immagini fatte in onore ricordo o memoria di Dio, della Vergine Maria e dei suoi Santi riconosciuti dalla Chiesa.

 

Inoltre, diceva l’editto, nessuno, di qualsivoglia stato o condizione, poteva parlare o discutere della Sacra Scrittura, fosse pure in materia dubbia, se non era teologo di fama e laureato da una università illustre.

 

Sua Maestà stabiliva, fra le altre pene, che le persone sospette non potessero mai più esercitare una professione onorevole. Quanto a coloro che fossero ricaduti nel medesimo errore o a quelli che vi si fossero ostinati, sarebbero stati condannati a esser bruciati a fuoco lento o vivo, in una capanna di paglia o attaccati a un palo, ad arbitrio del giudice.

 

Gli altri sarebbero stati giustiziati con la spada se erano nobili o buoni borghesi; i contadini con la forca e le donne con la fossa. Le loro teste, per servir d’esempio, dovevano essere piantate sopra un’asta. V’era poi, a beneficio dell’Imperatore, la confisca dei beni di tutti costoro, nei casi soggetti a confisca.

 

Sua Maestà accordava ai delatori la metà di quanto possedevano i morti, se i beni non oltrepassavano le cento lire grosse, moneta di Fiandra. Quanto alla sua parte, l’Imperatore si riservava d’impiegarla in opere pie e misericordiose, come aveva fatto per il sacco di Roma.

 


 


LA VENEZIA DEL NORD 

 

 

La città sembra galleggiare sulle acque e sembra la sovrana degli abissi. È affollato di mercanti di ogni nazione e i suoi abitanti sono essi stessi i mercanti più eminenti del mondo. A prima vista non sembra essere la città di un popolo particolare, ma comune a tutti, come centro del loro commercio. Le navi in ​​questo porto sono così numerose, da nascondere quasi l’acqua in cui galleggiano; e gli alberi guardano in lontananza come una foresta.

 

‘Ho guardato, con insaziabile curiosità, questa grande città, in cui tutto era in movimento’.

 

Questa rappresentazione di Amsterdam da parte di un autore del XVII secolo ci riporta al tempo in cui nessun rivale aveva ancora contestato alla città il suo monopolio commerciale, quando il suo spettacolo pieno e radioso colpiva gli occhi di ogni visitatore. Per quanto siamo tentati di ricordare questo glorioso passato (il periodo e i diretti dintorni del suo più grande pittore), prendiamo naturalmente come base lo stato attuale di Amsterdam, e così facendo notiamo dolorosamente la perdita di preziose reminiscenze che il corso di tempo ha inevitabilmente comportato.

 

Ma rendendoci conto che tale perdita non è solo la conseguenza dell’incuria e della mancanza di rispetto, e che in larga misura la vita moderna, con le sue diverse esigenze e intensità, provoca con la forza cambiamenti crudeli, dobbiamo vincere i nostri rimpianti e guardare piuttosto con occhi aperti la vitalità di la città e la rinnovata energia della sua esistenza attuale.

 

Triste è infatti l’aspetto delle città, dette ‘città morte’, che conservano il loro antico aspetto architettonico, e dove ogni vita sembra estinta. Non sono altro che le loro ombre e un grido perpetuo contro i rovesci del Destino o il rilassamento dell’energia umana, che si è rivelata incapace di portare avanti le aspirazioni delle generazioni precedenti.




Fortunatamente Amsterdam è sfuggita a questa disgrazia, perché la sua scintilla di vita non si è mai spenta del tutto, l’ardente vigore dei suoi abitanti, che contribuì ad aumentare la prosperità della città nel XVII secolo, può sembrare un ricordo ancora vivo che si manifesta con l’antica energica intraprendenza da cui trarre spunto da taluni artisti, rispetto al declino all’inizio del diciannovesimo secolo.

 

Quando Motley dice, nella sua ‘Storia dei Paesi Bassi Uniti’, che la Repubblica olandese è ‘nata e sostenuta dal mare’, dobbiamo applicare questa affermazione, in primo luogo, alla sua città più importante, Amsterdam; e se poi ricordiamo che la soppressione (al tempo della dominazione spagnola) di una nazione abituata alle attività marittime è una delle cose più rare nella storia, arriveremo a comprendere meglio la successiva vitalità artistica di Amsterdam.

 

In una città dove la vita ha mantenuto il suo corso, non possiamo aspettatevi di trovare interi quartieri conservati, così come apparivano nella prima metà del XVII secolo; l’assetto generale della città è però così originale ed efficace che il suo impianto indistruttibile è sopravvissuto fino ai nostri giorni, e sono poche le città al mondo che possiedono una così affascinante singolarità, Venezia è probabilmente l’unica città che offre un’attrazione simile, anche se differisce sotto molti aspetti. Quindi, il soprannome di Amsterdam quale  Venezia del Nord, è facilmente spiegabile e appare già negli scritti di Guicciardini, lo storico del XVI secolo. È l’acqua che conferisce alla città il suo fascino particolare, e mentre alcuni canali dovettero essere riempiti per creare alloggi per le carrozze nelle parti antiche, la maggior parte è stata preservata, e sebbene nell’acqua si riflettano altre facciate di case, il visitatore può ricostruire, senza grandi difficoltà, una visione dell’Amsterdam ai tempi di Rembrandt.




Quando Rembrandt arrivò ad Amsterdam intorno al 1631, trovò la città cambiata rispetto ai suoi antichi confini con nuovi quartieri sorti sui campi esterni, che una generazione precedente aveva conosciuto solo come prati e orti. L’artista deve aver notato molti cambiamenti anche da quando trascorse i suoi anni di apprendistato ad Amsterdam nello studio di Pieter Lastman, tornando di nuovo nella sua città natale Leida durante i sette o otto anni intermedi. 

 

 

UN FILOSOFO 

 

 

Alcuni anni prima Spinoza ricevette la visita di Henry Oldenburg, che stava allora facendo uno dei suoi periodici viaggi in giro per il continente. Nato verso il 1620 a Brema, dove il padre insegnava filosofia (e dove egli fu battezzato originariamente Heinrich), Oldenburg a partire dal 1639, poco dopo la laurea in teologia, aveva abitato a lungo in Inghilterra, lavorando forse come precettore per qualche famiglia benestante. Nel 1648, aveva fatto ritorno in continente, per viaggiare e passare di tanto in tanto a casa. Nel 1653, il consiglio comunale di Brema, favorevolmente impressionato dai legami che Oldenburg ancora manteneva con l’Inghilterra, gli aveva chiesto di tornare in quel paese per negoziare con Oliver Cromwell la neutralità di Brema nel primo conflitto anglo-olandese. Ed egli si era fermato poi in Inghilterra per una buona metà degli anni cinquanta, studiando a Oxford e facendo il precettore di alcuni giovani aristocratici del posto.

 

Prima di assumere questo ed altri successivi incarichi, Oldenburg come il Guicciardini, volle fare ancora un viaggio a Brema e nei Paesi Bassi, aveva in mente di recarsi in visita da Huygens, al quale voleva raccontare delle ultime scoperte scientifiche fatte in Inghilterra. Ma prima di andare all’Aia decise di passare da Amsterdam e Leida, e in una di queste città, o forse in entrambe, sentì parlare di Spinoza, forse proprio ad Amsterdam da amici collegianti o cartesiani, quali Peter Serrarius o Jan Rieuwertsz, o forse a Leida da Johannes Coccejus, libero docente di teologia all’università del posto e suo ottimo amico.




Stuzzicato dalla curiosità, a metà luglio Oldenburg partì dunque da Leida per recarsi a Rijnsburg, dove Spinoza si era da poco trasferito. E i due si intesero subito assai bene: il primo giro di lettere dopo la visita è tutto un complimento reciproco e un augurio di rivedersi presto. Spinoza dovette fare di sicuro un certo effetto sul suo ospite, se questi gli scrisse che

 

‘è stato così penoso separarmi da voi che non vedo l’ora, adesso che sono in Inghilterra, di riunirmi subito a voi, per quanto è possibile, almeno per lettera’.

 

Oldenburg ribadiva poi a Spinoza che occorreva

 

‘mantenere stretti i vincoli della nostra amicizia, coltivandola assiduamente con tutte le risorse di una reciproca solidarietà’.

 

Spinoza, dal canto suo, si diceva ‘lusingato dalla vostra amicizia’, pur manifestando qualche cautela, forse per paura di sembrare troppo audace agli occhi del più esperto e navigato Oldenburg:

 

‘Per quanto mi sembra addirittura presuntuoso ardire a entrare in amicizia con voi, in considerazione specialmente del fatto che tutto è comune fra amici, e i beni spirituali soprattutto, lo farò tuttavia, attribuendone il merito a voi, piuttosto che a me stesso, alla vostra generosità e benevolenza.

 

Esercitando in massimo grado la prima per abbassare voi stesso e la seconda per valorizzare la mia persona, mi avete incoraggiato ad accettare l’intima amicizia che insistete a offrirmi e a ricompensarvi a mia volta con quella che vi siete degnato di sollecitare da me e che io avrò cura di mantenere costante e duratura’.




 A casa di Spinoza, i due discussero di Dio e dei suoi attributi, dell’unione dell’anima e del corpo, e della filosofia di Cartesio e Bacone, tutti argomenti di stringente attualità per Spinoza. Da diversi mesi egli stava infatti lavorando a un trattato filosofico sistematico. In quest’opera, voleva passare in rassegna tutte le questioni metafisiche, etiche, teologiche, psicologiche, metodologiche, fisiche ed epistemologiche sulle quali aveva riflettuto per lungo tempo e che erano state solo abbozzate (come tutta la “Filosofia”) nel Trattato sull’emendazione dell’Intelletto.

 

Al tempo della sua prima risposta a Oldenburg, il Breve trattato su Dio, l’uomo e suo bene era ancora lungi dal possedere una forma definitiva. Con ogni probabilità, Spinoza aveva iniziato a scriverlo quando ancora abitava ad Amsterdam, forse su pressione degli amici.

 

Questi dovevano aver capito che Spinoza faceva assai più che discutere con loro di teorie altrui, in primo luogo di Cartesio, e potrebbero avergli chiesto dunque una concisa esposizione delle sue specifiche idee filosofiche, magari per iscritto, così da poterle studiare e analizzare meglio, Spinoza li accontentò scrivendo un’opera in latino, probabilmente tra la metà del 1660 e la partenza per Rijnsburg. E quando gli fu chiesta una versione in olandese, forse per coloro i quali non sapevano abbastanza bene il latino, Spinoza cominciò a rimaneggiare il testo, introducendo via via aggiunte e correzioni, talvolta in risposta alle obiezioni e ai consigli degli amici, un lavoro di stesura e revisione che continuò per tutto il 1661.




Anche se, a quanto pare, Spinoza prese in considerazione l’ipotesi di pubblicare il trattato, le sue osservazioni alla fine dell’opera chiariscono che si trattava in effetti di una presentazione complessiva della sua filosofia agli amici:

 

‘Per concludere, mi rimane ancora da dire agli amici per i quali scrivo questo [trattato]: non siate meravigliati di queste novità, poiché sapete molto bene che una cosa non cessa di essere verità, solo perché non è accettata da molti. E poiché voi non ignorate neppure la condizione dell’epoca in cui viviamo, voglio ancora insistere pregandovi di essere ben attenti per quanto riguarda la comunicazione di queste cose ad altri’.

 

Spinoza riconosceva così apertamente, non solo l’estrema originalità delle proprie idee, ma anche il fatto che esse sarebbero apparse troppo radicali agli occhi delle autorità calviniste olandesi. Il Breve trattato comincia in modo innocente, con diverse prove dell’esistenza di Dio. E, alla stregua del Trattato sull’emendazione dell’intelletto, si conclude con l’affermazione che la felicità e il bene dell’uomo, ossia la nostra ‘beatitudine’, consistono nella conoscenza di Dio e del modo in cui ogni cosa dipende da lui. A ciò si unisce l’esortazione ad amare Dio come il nostro sommo ed esclusivo bene.

 

Ma il Dio di cui Spinoza dimostra l’esistenza non è un Dio parente di quello della Chiesa riformata, o di qualsiasi altra religione cattolica o protestante. Spinoza non parla di Dio in termini di libero e benevolo creatore. Il suo Dio non è un Dio legislatore e giudice nel senso tradizionale di questi termini. Non è fonte di conforto, ricompensa o castigo, e non è neppure un essere al quale si possano rivolgere preghiere.




Spinoza nega apertamente che Dio sia onnisciente, compassionevole e saggio. Semmai, Dio è ‘un essere del quale sono predicati infiniti attributi’. Dio è quella che Spinoza chiama la ‘sostanza’. E la sostanza è semplicemente l’essere reale. È, per definizione e per dimostrazione, infinitamente perfetto, così come è infinito e unico nella sua specie. In altri termini, non è limitato da nessun’altra sostanza della stessa natura. Ed è anche indipendente sotto il profilo causale da ogni altra cosa che si trovi al di fuori di lui: la sostanza esiste in modo necessario e non contingente.

 

Dunque, la sostanza pensante, la sostanza di cui il pensiero è un attributo o una natura, è infinita e unica: esiste una sola sostanza pensante. E lo stesso si può dire della sostanza estesa, o della sostanza di cui l’estensione (o la dimensionalità, l’essenza della materia) è un attributo.

 

In realtà, il pensiero e l’estensione sono solo i due attributi, o le due nature, di un’unica sostanza infinita e perfetta. La sostanza, di cui il pensiero è un attributo, è numericamente identica alla sostanza di cui l’estensione è un attributo. Tutti gli attributi che esistono in natura, e noi ne conosciamo solo due, sono, a dispetto della loro apparente diversità di sostanza, differenti aspetti di un unico essere singolare.

 

La natura è un’unità, un intero, al di fuori del quale non c’è nulla. Ma se la Natura è soltanto la sostanza composta di infiniti attributi, l’unità produttiva soggiacente a ogni cosa, allora la Natura è Dio. Ogni cosa in natura ‘esiste ed è compresa in Dio’. Dio non si trova al di fuori della natura. Non è una causa distaccata. Semmai, Dio è la causa immanente e portante di tutto quanto esiste. Dio è sì la libera causa di tutto, ma questo non vuol dire che le cose potrebbero accadere diversamente da come accadono e potrebbero essere più o meno perfette.




Ogni cosa discende da Dio, dalla Natura, secondo una necessità eterna. Non c’è niente di contingente o accidentale in natura. Non ci sono eventi spontanei o senza causa. Niente avrebbe potuto non accadere così come è accaduto. Tutto è predestinato e necessitato dagli eterni attributi di Dio.

 

Spinoza chiama Dio Natura naturans, ossia ‘Natura naturante’, la dimensione attiva, eterna e immutabile della natura. La ‘Natura’, in questo senso, è invisibile: consiste unicamente negli attributi invisibili ma universali del pensiero e dell’estensione, le due nature a noi note di tutto ciò che esiste, e nelle leggi che governano ciascuna di esse, le leggi del pensiero e le leggi dell’estensione (ossia la geometria). Il mondo invece, così come lo conosciamo, è il mondo della materia e del movimento (che include i corpi fisici) e il mondo dell’intelletto (che include le idee o i concetti dei corpi), e questo mondo è Natura naturata. Esso non è altro che il prodotto della sostanza infinita che lo genera e lo sorregge.

 

Le cose singolari e le loro proprietà corrispondono a quelli che Spinoza chiama i ‘modi’ della sostanza, i modi in cui gli attributi della sostanza si esprimono. E, a differenza della sostanza, essi nascono e muoiono secondo le leggi immutabili della natura. Questo è lo sfondo metafisico dell’etica e dell’antropologia di Spinoza.




Dato che tutto in natura semplicemente è, e discende necessariamente da Dio, una delle conseguenze del rigido determinismo di Spinoza è che il bene e il male non hanno alcuna realtà in sé. ‘Il bene e il male non esistono in natura’, egli insiste, ma sono solo ‘enti di ragione’, prodotti dell’intelletto. Il bene e il male sono sempre relativi al nostro punto di vista. Queste categorie morali sono semplici etichette che noi apponiamo alle cose quando esse si dimostrano o non si dimostrano all’altezza dei nostri ideali. Una persona ‘buona’ è semplicemente una persona che risponde ai nostri criteri di perfezione dell’essere umano, così come un cattivo martello è un martello che non corrisponde affatto alla nostra idea di martello perfetto.

 

L’essere umano è un composto di anima e corpo.

 

…Ma, a differenza di quanto accade con il dualismo della metafisica cartesiana, per Spinoza l’anima umana e il corpo umano non sono due sostanze separate. La nostra anima è solo un modo di uno degli attributi sostanziali di Dio, il pensiero. Per essere ancora più precisi, essa è il modo del pensiero, è un’idea, una nozione, che a sua volta risponde a un modo particolare dell’attributo estensionale di Dio, che è tutto quanto il corpo.

 

Dato che l’essere umano consiste in una mente (un modo del pensiero) e in un corpo (un modo dell’estensione), egli è il soggetto sia di ‘percezioni’ (o forme di conoscenza) sia di passioni. A differenti passioni si accompagnano, per natura, differenti forme di conoscenza. E, come aveva già fatto per le percezioni nel Trattato dell’emendazione dell’intelletto, Spinoza distingue tra: opinioni acquisite grazie a racconti altrui o a esperienze accidentali, credenze vere acquisite grazie all’arte del ragionamento, e (il massimo) comprensione intuitiva della cosa stessa grazie a un concetto chiaro e distinto. A differenza della conoscenza indiretta e dell’esperienza accidentale, il sapere razionale, ottenuto sia per deduzione sia per intuizione immediata, non è soggetto a errori.




E uno stato cognitivo stabile, che permette di afferrare l’essenza dell’oggetto. Migliore è l’oggetto e migliore sarà la conoscenza; migliore è la conoscenza e migliore sarà la condizione di colui che conosce. ‘Il più perfetto è quindi quell’uomo, proclama Spinoza, che si unisce a Dio (che è l’essere perfettissimo) e di lui così gode’.

 

Queste diverse forme di percezione hanno tutte i loro specifici riflessi affettivi. Spinoza cataloga, analizza e valuta con cura le diverse passioni cui è soggetto l’essere umano, amore, gioia, odio, tristezza, invidia, vergogna, desiderio, gratitudine, rimorso, e via dicendo, e dimostra quali di esse portino alla felicità e quali invece conducano alla nostra rovina.

 

Fino a quando noi facciamo affidamento sui racconti altrui o sulle nostre passate esperienze accidentali, giudicando e rincorrendo solo gli oggetti sfuggenti dell’immaginazione e dei sensi, restiamo dominati da passioni quali il desiderio, l’odio, l’amore, la tristezza lo stupore, il piacere, la paura, la disperazione e la speranza. Le cose corruttibili sono infatti completamente al di fuori del nostro controllo. Né abbiamo alcuna presa su di esse, e tanto le loro proprietà quanto il loro possesso possono sempre sfuggirci di mano.

 

Questo tipo d’amore e di attaccamento per le cose materiali può condurre solo alla rovina.

 

La credenza vera, invece, porta progressivamente a una chiara comprensione dell’ordine dell’universo e permette di capire come gli oggetti esterni dipendano realmente dalla loro origine e causa ultima. In questo modo possiamo riuscire infine a conoscere Dio stesso e le ‘cose eterne e incorruttibili’ che dipendono direttamente da Dio, nonché il modo in cui le cose corruttibili dipendono da quelle.




La conoscenza di Dio non è altro che la conoscenza della Natura in ogni suo aspetto. E questa conoscenza conduce all’Amore dell’esser sommo, da cui tutto dipende. Solo grazie a tale conoscenza, infatti, noi possiamo agire senza venire travolti da passioni come l’odio e l’invidia, che si basano sulla formulazione di giudizi falsi e scorretti sugli oggetti o sulla mancata percezione della loro necessità.

 

È l’uso appropriato della ragione che ci consente di estirpare queste passioni dalle nostre vite. Ed è questo che ci consente al tempo stesso di contemplare l’essere immutabile.

 

‘Se l’uomo giunge ad amare Dio, che è e resta immutabile, per lui è impossibile cadere in questa melma delle passioni. E perciò stabiliamo, come regola fissa e immutabile, che Dio è la prima e unica causa di ogni nostro bene e colui che ci libera da ogni nostro male’.

 

Giunti a questo punto, capiamo che l’uomo fa parte della natura ed è indissolubilmente vincolato all’ordine (apparentemente) causale delle cose. Anche noi siamo infatti determinati nelle nostre azioni e passioni. E la libertà, intesa come spontaneità, è una semplice illusione. ‘Poiché l’uomo è una parte di tutta la natura, da cui dipende e da cui anche è governato, non può fare nulla da se stesso per la propria salute e il proprio bene’.

 

Noi dobbiamo dunque capire che il nostro corpo, e tramite esso la nostra mente, è soggetto alle stesse leggi di natura che governano ogni altra cosa.

 

‘Noi dipendiamo a tal punto da ciò che è sommamente perfetto che siamo anche come una parte del tutto, cioè di lui [Dio], e contribuiamo, per così dire, alla produzione di tante opere bene ordinate e perfette, che da lui dipendono’. Sapere questo ci libera dalla tristezza, dalla disperazione, dall’invidia, dalla paura, e da altre cattive passioni, le quali… sono il vero e puro inferno.




 Soprattutto, noi dobbiamo smettere di temere Dio, che è lo stesso bene supremo, a causa del quale sono ciò che sono tutte le cose che hanno qualche essenza, e anche noi, che viviamo in lui. Questa è la via verso il bene e la felicità. La conoscenza e l’amore di Dio, indebolendo il potere che il corpo ha su di noi, possono liberarci da tutti i malesseri creati dalle passioni e possono al tempo stesso incrementare la nostra vera libertà intesa come esistenza stabile che il nostro intelletto acquisisce grazie all’unione immediata con Dio e come svincolamento dalle cause esterne e in ciò consiste la nostra beatitudine’.

 

Nonostante il linguaggio teologico impiegato da Spinoza, e alcune apparenti concessioni agli ortodossi (‘l’Amore di Dio è la nostra massima beatitudine’), non ci possono essere equivoci sulle sue intenzioni, il suo scopo è nientemeno che la completa desacralizzazione e naturalizzazione della religione e dei suoi concetti:

 

‘L’uomo, finché è una parte della natura, deve seguire le leggi della Natura: questa è la vera religione, e finché egli agisce così permane nel bene’.

 

Il Breve trattato è un’opera difficile e complessa, Spinoza spese molte energie nel rivederne e chiarirne la forma e il contenuto, forse mostrò alcune parti di una copia dell’ultimo manoscritto in latino a Oldenburg, quando questi sostò a Rijnsburg nell’estate del 1661, ma sembra comunque che sia stato piuttosto cauto nel rivelarne i dettagli all’ospite: Oldenburg ricorda infatti che ‘si è parlato tra di noi come attraverso una grata’.

 

In una lettera a Blijenburgh degli inizi del 1665, egli dichiara in tal senso che ‘dell’opera su Cartesio non mi sono più occupato ulteriormente dopo la sua pubblicazione in olandese’. I motivi, aggiunge, ‘sarebbero troppo lunghi da enumerare’.

(S. Nadler)

 


 

 

UNA PASSEGGIATA NEL GIARDINO OLANDESE (le campanelle bianche di Febbraio, evento assai raro, scorrono vicino ad un Fiume Nero…) 

 

 

Indubbiamente la strada per raggiungere i Bulb Gardens of Holland è seguire la strada attraverso la quale i bulbi arrivano in Inghilterra (assieme alla posta con cui talora anche il Filosofo si misurava con una cartesiano). O almeno seguono quella strada in una certa misura: i bulbi di solito compiono parte del viaggio nell’entroterra del loro paese in barca sui canali, un procedimento né molto possibile né molto comodo per il viaggiatore medio. Ma per il resto il loro percorso è quello adatto a chi ha svago e vuole arrivare ai giardini nel modo più adatto.

 

Si sale su un piccolo piroscafo olandese alle Scale della Torre, un piroscafo che sembra avere una gran fretta di partire, ma non lo è mai, anche se tutti e tutto, compresa la fuga del vapore, sono molto occupati finché finalmente non strilla sotto il Tower Bridge e quindi lungo il fiume. Questi piroscafi a volte lo sono vengono chiamate con disprezzo navi mercantili, e certamente i bulbi, nelle loro scatole da imballaggio bianche e pulite, arrivano in Inghilterra in quel modo; e quando non vengono, prendono il loro posto formaggi olandesi in quantità e altre cose.

 

Ma la sistemazione dei passeggeri ha molti aspetti da consigliare. Ricordo una grande cabina sul ponte, molto più grande e leggera di gran parte delle sistemazioni di prima classe delle grandi navi di linea indiane e australiane. Ricordo lenzuola di robusto lino di campagna, che ricordano nel loro profumo di asperula le casse di mogano spagnole dove le massaie riponevano i loro attrezzi con l’erba aromatica. Ricordo un posto accogliente con una lampada oscillante e armadietti, che ricordava più la cabina della Goletta Hesperus, quando lo skipper aveva portato la sua figlioletta a fargli compagnia, che il salone di un piroscafo che attraversava la Manica.




È vero che il cibo è olandese, ma se, come non di rado accade, si è passeggeri unici, lo si mangia quando e dove si vuole, il che è un compenso. È anche vero che a bordo non c’è nessuna hostess, e spesso non c’è qualcuno che parli bene l’inglese, e che il viaggio dura piuttosto lungo, ma queste sono sciocchezze.

 

La virtù nazionale dell’Olanda, l’Olanda che si vede dal canale, è l’industria; non esattamente energia, certamente non ‘trambusto’ o qualcosa di simile, ma industria, unita a una pulizia che mantiene in ordine anche i fossati e non consente quel diritto inalienabile dell'abitante rurale inglese, il mucchio di spazzatura del giardino. Gli olandesi sembrano i più industriosi di qualsiasi altra cosa al mondo, a parte forse le formiche, con una comunità alla quale, bisogna ammetterlo, hanno qualche somiglianza. L’ideale nazionale, almeno nel distretto dei bulbi, è la pulizia.

 

La lode più alta da tributare a qualsiasi cosa è che sia pulita. Un bel bulbo di tulipano nella sua brillante buccia giallo-marrone viene esaltato come “così pulito”; del curioso terreno sabbioso in cui crescono i bulbi si parla con orgoglio come sempre pulito; il grande complimento da fare a una stalla a bulbo è che è pulita. Forse uno dei vantaggi del lavoro dei coltivatori è che è pulito.

 

Credo che sia consuetudine parlare di Amsterdam come della Venezia del Nord, per chi non ha visto Venezia è impossibile fare un paragone, ma sembra difficile immaginare molta somiglianza tra loro, al di là del fatto che entrambe possiedono canali, case e storia. Amsterdam ricorda in qualche modo i romanzi di Dickens, è immensamente interessante, piuttosto affollata, reale, indaffarata, familiare e genuina; non evoca esattamente passioni devastanti o alto romanticismo, ma pace confortevole e salutare.




Nei giardini dei bulbi non c’è molto da fare in inverno, almeno durante le gelate. La terra viene messa a letto, la maggior parte dei campi di bulbi sono ricoperti di paglia o di canne, solo quelli che contengono le specie più resistenti, come la Scilla sibirica , l’Aconito invernale e poche altre, vengono lasciati nudi. Questa copertura, che è di spessore variabile per adattarsi ai bulbi sottostanti, non viene spostata finché non scoppia il gelo e inizia il clima più mite. Ma quando ciò accade c’è molto da fare, perché deve essere spostata secondo il salita e discesa del termometro: parzialmente rimosso se il clima si mantiene mite, altrimenti i bulbi si svilupperebbero troppo velocemente con il caldo sottostante; sostituito per le notti fredde o se è probabile un forte gelo.

 

All’inizio della primavera bisogna prestare molta attenzione a questo, perché con mezzogiorno soleggiato, forti gelate notturne, periodi di prolungata pioggia battente e improvvisi venti pungenti, è molto difficile proteggere adeguatamente e non coprire eccessivamente i bulbi.




I crochi non sono molto coltivati ​​nelle immediate vicinanze di Haarlem, la terra è troppo preziosa per essere dedicata all’economico bulbo. Molte migliaia vengono da Hille, alcuni piccoli coltivatori ne fanno una specialità e coltivano poco altro; sono loro che riforniscono i grandi uomini che riforniscono i mercati. Sembra che ci siano ora circa ottantatré specie di croco, il che è qualcosa in più rispetto alle sei specie che ‘Robinio di Parigi, quel doloroso e curioso ricercatore di semplici’, inviò a Gerardo. Al tempo di Parkinson sembra che se ne conoscessero trentuno specie, ma ai suoi tempi avevano cominciato a coltivare seriamente i bulbi, e per loro sarebbe stato più un motivo di interesse che di sorpresa vedere le nostre varietà, le quali, secondo l’autorità del coltivatore, si dice, ‘sono state derivato da (coltivato dal seme del) originale Crocus vernus dell’Europa meridionale e centrale.

 

Quando questo croco venne introdotto per la prima volta in Olanda non è facile dirlo. Né è facile scoprire “quando” (nelle parole dello stesso coltivatore) “coltivatori e dilettanti cominciarono a ibridare le diverse forme” – né quando per la prima volta vi furono diverse forme da ibridare; certamente lo è successo molto tempo fa. Si racconta che il croco dello zafferano (Crocus sativus) sia stato introdotto in Inghilterra nel 1339.

 

Hakluyt racconta che fu portato da un pellegrino che, apprezzando il valore sovrano della pianta, e ‘proponendosi di fare del bene al suo paese’, portò a casa una radice nascosta nel suo bastone, che era stato reso cavo ‘allo scopo’, anche se non è chiaro se allo scopo di trasportare zafferano o qualsiasi altra cosa di valore o interesse che potesse raccogliere. In entrambi i casi il procedimento è piuttosto tipicamente inglese, così come lo sono anche le ulteriori osservazioni di Hakluyt sulla coltivazione dello zafferano. Si rammarica che sia diventata un’industria in declino in questi giorni, quando molti individui robusti sono senza lavoro, e suggerisce, proprio come noi suggeriamo la rinascita di varie cose curiose, che dovrebbe essere rilanciata a beneficio dei disoccupati, che poi, come adesso, fossero un problema di tipo taglia e torna.




Si ritiene ora che il croco originale di tutti i crochi fosse originario del Kashmere e abbia seguito la migrazione ariana attraverso il globo temperato; portato, senza dubbio, in primo luogo per il suo zafferano, di cui sembra che questi remoti antenati della razza europea avessero la stessa stima del pellegrino di Hakluyt. Nelle sue varie forme selvatiche lo si trova ora in Persia e nel Levante, nelle Alpi e negli Appennini, in Italia e in Grecia, e sui pendii inferiori dei Pirenei; ed è passato così tanto tempo in questi paesi che è stato considerato un fiore autoctono e ha un posto in molte antiche leggende. Ovidio racconta che Proserpina stava raccogliendo ‘graziosi crochi e gigli bianchi’ quando fu rapita. È lui anche a raccontare l’origine del fiore in Grecia. Un giovane di nome Croco innamorato della ninfa Smilace: egli, per l’impazienza del suo amore, si trasformò nella fiore; e lei, senza una ragione apparente, che sembra ingiusta, si trasformò non nella delicata pianta verde che chiamiamo con il suo nome, ma in un albero di tasso, un destino un po’ cupo per l’innamorata di un insignificante effimero come appare Crocus.

 

Nonostante questa storia d’amore impaziente non sembra esserci alcuna traccia, come ci si potrebbe aspettare, dell’uso del croco nell’aroma di filtri o amuleti d’amore. Il velo dell’Imene era color zafferano; il fiore, tra gli altri, sbocciò sul terreno dove giacevano Zeus ed Era, per puro stupore, si potrebbe immaginare, nel vedere la coppia olimpica in buoni rapporti. Noi stessi lo abbiamo dedicato a San Valentino -

 

Mentre il croco si affretta al santuario

 

Dell’amore di Primula a San Valentino




È stato utilizzato per molte altre cose. ‘Il croco raggiato d’oro’ è tra i fiori che incoronano la ‘potente dea’ di Sofocle. Sappiamo che anche i Greci lo annoveravano tra i profumi. Aristofane, ne Le Nuvole. Presso gli orientali era considerata una spezia scelta: ‘Nardo e zafferano, calamo e cannella, con tutti gli alberi d'incenso, mirra e aloe’, erano le spezie che dovevano uscire dal giardino dell’Amato nel Cantico dei Cantici. Un’antica autorità lo riteneva il cibo delle fate, e gli umani del suo tempo lo tenevano in grande considerazione. Ma ora è caduto dal suo alto rango, e, anche se il Consiglio della Contea o qualche altro organismo potesse ancora perseguire un uomo per aver venduto zafferano adulterato, sarebbe filantropia disinteressata e non avrebbe alcuna somiglianza con il rogo dei delinquenti a Norimberga nel quindicesimo secolo per un reato simile.

 

In Persia è ancora molto utilizzato come condimento, in misura minore in Spagna, in Olanda lo si trova ad aromatizzare il riso bollito con il latte; qui in Inghilterra persiste ancora nelle torte allo zafferano della Cornovaglia, altrimenti gioca un ruolo marginale, tranne che come colorante alimentare. Sembra che fosse in uso ai tempi di Shakespeare. Il clown, che ha così tante cose da comprare per la festa della tosatura di Perdita, la spunta tra le altre: ‘Devo avere dello zafferano’, dice, ‘per colorare le torte del guardiano’.




E noi, anche se abbiamo perso lo scontrino per le torte del guardiano, usiamo ancora lo zafferano per colorare la nostra cucina. Questo è particolarmente vero in Russia, dove la legge stabilisce che tutti i coloranti alimentari devono essere vegetali, una legge singolare, se si pensa che tutti i veleni alcaloidi sono di origine vegetale, e per la loro vera cattiveria è difficile da battere alcuni dei coloranti forniti dalla Natura.

 

Infine, per concludere questa breve passeggiata di Domenica, a tutti coloro che in quest’hora ridono con diverso zafferano condire il proprio ed altrui riso per il misfatto compiuto, circa l’ideale tradito della Natura sancita ‘dal e nel’ Diritto, raccomandiamo una diversa passeggiata così come non udire o ammirare i Fiori del nostro Eterno Giardino! 





 

EPILOGO 

 

 

Per la maggior parte del tempo lottiamo non con la realtà, ma con le sue rappresentazioni matematiche (come abbiamo appena letto fra Spinoza e Cartesio e un successivo inglese).

 

La mistica della matematica, la fede che la realtà possa essere colta nel suo livello più profondo attraverso un’equazione o una costruzione geometrica: ecco la religione privata e intima del fisico teorico. Come ogni altra vera mistica non può essere comunicata a parole: ne occorre l’esperienza. Occorre poter sentire, al di là delle parole, la possibilità che uno dei pezzi della matematica che si arriva a comprendere possa essere anche una rappresentazione del mondo.

 

Sospetto fortemente che questa gioia di scoprire all’interno della propria mente una corrispondenza fra una costruzione matematica e un oggetto della natura sia una esperienza che i matematici e i fisici  più attivi devono aver provato. La si può provare in un momento di illuminazione che ci fa comprendere le leggi di Newton e che al tempo stesso ci fa capire di aver afferrato la logica che si realizza nel moto di infinite cose esistenti. È per questi motivi che la formazione di un fisico o di un matematico assomiglia un po’ all’ingresso di un novizio in un ordine religioso misticheggiante. Naturalmente, col progredire dello studio, ci si accorge ben presto che né le leggi di Newton né la geometria euclidea colgono effettivamente la realtà del mondo.




Ciò che è al contempo meraviglioso e terrificante in tutto questo è che non c’è assolutamente alcun motivo per cui la natura nei suoi aspetti più profondi dovrebbe avere qualcosa a che fare con la matematica. Non c’è da invocare nessun mistero, nessuna nascosta simmetria per spiegare perché l’aria si diffonda uniformemente in una stanza. Ogni atomo si muove casualmente, è semplice statistica dei grandi numeri. Il peggiore incubo del platonista è forse quello di scoprire che tutte le nostre leggi sono come queste, di scoprire che tutte le belle regolarità che abbiamo scoperto si possono rivelare nient’altro che regolarità statistiche, dietro le quali si cela solo il caso o l’irrazionalità.

 

È questo, forse, uno dei motivi per cui la biologia sembra costituire un problema per alcuni fisici. La possibilità che la sconvolgente bellezza del mondo vivente possa, in definitiva, essere fatta risalire solo al caso, alla statistica, al mero accidente, rappresenta una vera e propria minaccia per la concezione mistica che vorrebbe che la realtà possa venir catturata in un’unica, elegante, bella equazione.

 

È per questo motivo che mi ci sono voluti degli anni prima di potermi adattare all’idea che le leggi della fisica, almeno in parte, potrebbero venir spiegate proprio attraverso questa stessa logica del caso. In questo breve post ci occupiamo del problema di come costruire una teoria dell’intero universo.

 

Ma il caso cosmologico è assai diverso.




 Ogni soluzione dell’equazione universale descrive un intero mondo, ma solo una di esse può avere qualcosa a che fare con la realtà del nostro. Questo significa che una qualsiasi teoria dell’intero universo, se è un gioco newtoniano, deve presentarsi con un’appendice che ci dica quale fra le infinite soluzioni descrive l’universo reale. Questo è il cosiddetto problema delle condizioni iniziali. È un problema che riguarda la cosmologia, visto che implica che ci debba essere un qualche motivo perché l’universo sia iniziato in un certo stato piuttosto che in un altro.

 

Ma se questa ragione giace fuori dall’universo, sembrerebbe seguirne che l’universo non è tutto ciò che esiste, il che è contraddittorio perché allora non sarebbe l’universo. C’è quindi il pericolo che il bisogno di una tale teoria legata alle condizioni iniziali faccia rientrare la religione dalla finestra. Religione che non sarebbe però il misticismo matematico di cui abbiamo parlato, ma l’idea che esista un Dio che consapevolmente ha deciso e scelto di fabbricare il mondo. Si dice che Einstein abbia detto una volta: ‘Ciò che mi piacerebbe veramente sapere è se Dio ha avuto una qualche scelta quando ha creato il mondo’. 

 

Il problema delle condizioni iniziali in cosmologia non è stato ancora risolto.

 

Al giorno d’oggi viene usualmente paludato nel linguaggio della fisica quantistica, dove diventa il problema di specificare lo stato quantistico dell’universo. Di quando in quando qualcuno viene fuori a sostenere che dovrebbe esistere una soluzione unica delle equazioni della cosmologia quantistica. Ma, ogni volta, un più attento esame rivela che quelle equazioni ammettono molte soluzioni, ciascuna delle quali descrive una cosmologia possibile.




Il problema cui ci troviamo di fronte è il seguente: la fisica fondamentale e la cosmologia devono assomigliare, nel loro utilizzo dei numeri, alla matematica pura o alla biologia?

 

Se l’universo intero non fosse altro che l’opera di leggi deterministiche, il futuro risulterebbe in senso stretto una manifestazione del presente. Non c’è un domani in cui potrebbe accadere qualcosa di nuovo, un qualcosa che non sia già codificato nell’oggi. È la concezione platonista di teoria fisica che rende difficile, in generale, credere nella possibilità della novità.

 

Tutte le strutture del mondo sono riflessi di forme ideali, e dunque non ci può essere nulla di nuovo: le forme sono eterne. Il mondo biologico sembrerebbe smentire questa concezione, visto che la storia della selezione naturale è piena di momenti in cui sono state inventate nuove forme prima inesistenti.

 

La tentazione di asserire che in biologia la novità è possibile è molto forte. Ma se crediamo che le leggi fondamentali siano deterministiche, ci possiamo veramente permettere di credere nella realtà del nuovo, o dobbiamo continuare a insistere sull’impossibilità della novità?




Sembra che siamo di fronte a un problema che vale la pena di esaminare: come è possibile che processi descritti completamente da leggi fisiche possano creare cose che non esistevano in tempi precedenti?

 

E come cambierebbe la risposta da dare a questa domanda, se le leggi della fisica fossero esse stesse il risultato di un processo di autorganizzazione o di selezione naturale?

 

I processi naturali, agendo nel tempo, possono effettivamente creare il nuovo. Ma c’è però un problema filosofico o, per dirla meglio, un problema per la filosofia.  

 

Si suppone che il processo di selezione naturale sia semplicemente opera della logica e della probabilità che agiscono su processi che riguardano molecole strutturate. E la probabilità non dovrebbe essere altro che una forma di contare, e anche il contare, ci dicono i logici, non è altro che logica.

 

In definitiva, dunque, la selezione naturale non è altro che l’opera dei principi della logica applicati a certe popolazioni di molecole strutturate. Ma la logica dovrebbe essere tautologica. E in una tautologica non dovrebbe esserci alcuna informazione reale, perché il suo significato è di essere vera in ogni circostanza possibile. Ma se qualcosa è vero in ogni circostanza possibile, è vero sempre. E dunque non ci può mai essere niente di nuovo.

 

Come è dunque possibile che una cosa che non comporta nient’altro che l’opera della logica della probabilità riesca a generare il nuovo? 




Il problema di come sia possibile la novità è dunque un problema per la filosofia. Una risposta possibile è che nella realtà la novità non esiste. La possibilità di ogni specie, anzi, di ogni possibile miscuglio di specie, esiste non appena esista il meccanismo fondamentale della vita. Ma si deve intendere la selezione naturale come qualcosa che ha luogo nel tempo; di conseguenza le proprietà di una specie saranno anch’esse giudizi dipendenti dal tempo che valgono solo durante il periodo di tempo necessariamente limitato che corrisponde alla vita della specie stessa.

 

Se la logica pura sembra non avere alcun potere di creazione quando viene considerata nel contesto di un mondo statico, platonico, fatto di proposizioni che sono vere o false per l’eternità, un processo che agisce nel tempo per trasformare le strutture dell’universo, quale è quello della selezione naturale, può essere al contempo compiutamente spiegabile in termini logici ed essere veramente capace di inventare il nuovo.  Sottolineando che esistere deve significare esistere nel tempo, possiamo rovesciare la trappola che la vecchia metafisica ci aveva imposto: quella per cui ciò che realmente esiste, l’Essere, può esistere solo eternamente, mentre le cose che esistono nel tempo sono solo apparenze, solo pallidi riflessi di ciò che è realmente reale.




Se l’esistenza ha bisogno del tempo, allora non c’è  né bisogno né posto per l’Essere, per il mondo platonico assoluto e trascendente. Ciò che esiste è ciò che troviamo nel mondo. E ciò che esiste, esiste nel tempo, perché per esistere deve essere creato da processi  che agiscono nel tempo per creare il nuovo e l’inatteso da ciò che precedentemente esisteva Questo semplice scherzo, che suggerisce come la  nozione di struttura nel mondo si sia formata attraverso la selezione naturale, ci permette di evadere dalla prigione platonica in cui è costretta a languire l’epistemologia. In particolare, quella visione del mondo ci impone di aspettarci che la conoscenza oggettiva – la conoscenza del reale è anch’essa una conoscenza che vive nel tempo.

 

Il problema tuttavia persiste, almeno ad un livello puramente teorico: se il mondo non è altro che l’opera di una legge matematica preesistente, come è possibile la novità?

 

La possibilità che le leggi possano anche non essere eterne, ma che possano effettivamente essere costruite nel tempo per mezzo di processi fisici getta una nuova luce su questo dilemma. I due diversi tipi di matematica su cui può essere fondata la fisica fondamentale discendono da due diversi concetti di forma e di come le forme possono essere state generate.

 

Pensiamo, ad esempio, a un  fiore e a un dodecaedro.




Sono entrambi belli, entrambi ordinati, e il fiore potrebbe anche non sembrare meno simmetrico di quella costruzione geometrica. La differenza fra loro, sta, appunto, proprio nel modo in cui sono stati costruiti. Il dodecaedro è una manifestazione esatta di un certo gruppo di simmetrie, che può essere descritto in una riga di simboli matematici. E anche se non posso costruirne uno perfetto, posso però fabbricarne un’ottima rappresentazione, con carta, forbici e colla o anche con programmino per un calcolatore.

 

Un fiore, per contro, non è perfetto, se lo esaminiamo da vicino, vedremo che, nonostante possa apparire simmetrico, non aderisce precisamente a nessuna forma ideale. Dall’avvolgimento del suo DNA in ciascuna delle migliaia di miliardi delle sue cellule, fino alla disposizione dei suoi petali, la forma di un fiore potrà spesso suggerire una simmetria,  ma non riuscirà mai a realizzarla precisamente. Ma con tutte queste sue imperfezioni, non c’è modo in cui io possa costruire un fiore. Esso è il prodotto di un vastissimo sistema che si estende assai lontano nelle profondità del tempo.

 

La sua bellezza è il risultato di miliardi di anni di incrementi evolutivi infinitesimali, dell’accumularsi di scoperte operate da ciechi processi statistici; il suo significato sta nel ruolo che gioca in un ecosistema molto più grande di lui, in cui è coinvolta l’esistenza di tanti e tanti altri organismi viventi. Gli antichi greci, come i fisici che portarono a compimento la rivoluzione copernicana non conoscevano nulla della possibilità che la struttura si formi attraverso simili processi. Non avevano altra alternativa per spiegare la bellezza e l’ordine del mondo se non vagheggiare che esso rappresentasse un riflesso dell’eterna forma matematica di Platone.

 

Il problema che ci troviamo oggi di fronte è se la nostra teoria fisica rimarrà limitata da questa concezione o se invece vorremo usufruire dei vantaggi resi possibili dalla costruzione di un mondo ordinato attraverso processi di autorganizzazione.

 

Il problema, in ultima analisi, si riduce a questo: se l’universo assomiglia a un fiore o a un dodecaedro.

 

 (L. Smolin, La vita del cosmo; da G. Lazzari L’Eretico Viaggio)

 



 

 

  


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