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È in questo senso che va letto uno degli utilizzi più frequenti della simbologia misterica dell’animale: il capro espiatorio. Il sacrificio, in genere, è connotato dall’offerta al sovrannaturale di qualcosa di prezioso per l’officiante, ma soprattutto gradito alla divinità. Esistono diverse letture della pratica sacrificale; secondo René Girard, il capro espiatorio ha il compito di prendere su di sé tutte le colpe della comunità – divenendo il colpevole che ha turbato l’ordine naturale e soprannaturale – ma al tempo stesso ha il compito, con la sua morte, di ristabilire tale armonia liberando la comunità dai mali che la affliggono.
GIRARD CI DICE
In numerosi
rituali, il sacrificio si presenta in due opposte maniere, ora come una ‘cosa
molto santa’ da cui non ci si potrebbe astenere senza grave negligenza, ora,
invece, come una specie di delitto che non si potrebbe commettere senza esporsi
a rischi altrettanto gravi.
C’è un
mistero del sacrificio…
La pietà
dell’umanesimo classico addormenta la nostra curiosità ma lo studio assiduo
degli autori antichi la risveglia. Il mistero resta, oggi, più che mai impenetrabile.
Nel modo in cui viene trattato dai moderni, non si sa se a prevalere sia la
distrazione, l’indifferenza o una specie di segreta prudenza.
Sarà questo un secondo mistero o è sempre il medesimo?
Perché, per esempio, non ci si chiede
mai quali rapporti intercorrano tra il sacrificio e la violenza?
Una volta
destato, il desiderio di violenza comporta certi mutamenti corporali che
preparano gli uomini alla lotta. Tale disposizione violenta ha una certa
durata. Non bisogna vedere in essa un semplice riflesso che interromperebbe i
suoi effetti appena lo stimolo cessa di agire. Storr osserva che è più
difficile placare il desiderio di violenza che farlo scattare, soprattutto
nelle normali condizioni della vita in società.
La
violenza viene di frequente definita ‘irrazionale’.
Eppure non
le mancano i motivi; sa anzi trovarne di ottimi quando ha voglia di scatenarsi.
Tuttavia, per buoni che siano questi motivi, non meritano mai d’esser presi sul
serio. Sarà la violenza stessa a dimenticarli se soltanto l’oggetto
inizialmente preso di mira rimarrà fuori tiro e continuerà a sfidarla.
La violenza inappagata cerca e finisce per trovare una vittima sostitutiva. Alla creatura che eccitava il suo furore, ne sostituisce improvvisamente un’altra che non ha alcuna ragione particolare per attirare su di sé i fulmini del violento, tranne quella d’essere vulnerabile e di capitargli a tiro.
Di fatto,
un Joseph de Maistre vede sempre nella vittima rituale una creatura ‘innocente’
che paga per un certo ‘colpevole’.
L’ipotesi
che noi proponiamo sopprime questa differenza morale. Il rapporto tra la
vittima potenziale e vittima attuale non è da definirsi in termini di
colpevolezza e di innocenza.
Non c’è
nulla da ‘espiare’.
La società
cerca di sviare in direzione di una vittima relativamente indifferente, una
vittima ‘sacrificabile’, una violenza che rischia di colpire i suoi stessi
membri, coloro che intende proteggere a tutti i costi.
Tutte le qualità che rendono la violenza terrificante, la sua cieca brutalità, l’assurdità del suo scatenarsi, non mancano di contropartita: fanno tutt’uno con la sua strana tendenza a gettarsi su vittime sostitutive, permettono di giocare d’astuzia con tale nemica e di gettarle, al momento propizio, la presa irrisoria che la soddisferà.
Volgendosi
stabilmente verso la vittima sacrificale, la violenza perde di vista l’oggetto
da essa originariamente preso di mira. La sostituzione sacrificale implica un
certo misconoscimento. Fintanto che rimane vivo, il sacrificio non può rendere
manifesto lo spostamento sul quale è fondato. Non deve dimenticare
completamente né l’oggetto originario né il passaggio che fa scivolare da
questo oggetto alla vittima realmente immolata, senza di che non ci sarebbe più
alcuna sostituzione e il sacrificio perderebbe la sua efficacia.
I ‘fedeli’
non sanno e non debbono sapere qual’è il ruolo svolto dalla violenza. In tale
misconoscimento, è evidentemente primordiale la ‘teologia del sacrificio’. Si
presuppone sia il dio a reclamare le vittime; in teoria è lui il solo a godere
del fumo degli olocausti; è lui ad esigere la carne ammucchiata sui suoi
altari. È per placare la sua collera che si moltiplicano i sacrifici. Le
letture che nemmeno sfiorano questa rimangono prigioniere di una teologia da
esse trasferita tutta nell’immaginario, ma lasciata intatta.
Ci si sforza di organizzare un’istituzione reale attorno ad un’entità puramente illusoria; non c’è poi da stupirsi se l’illusione finisce per prevalere, distruggendo a poco a poco persino gli aspetti più concreti di tale istituzione. Invece di negare la teologia in blocco e in modo astratto, il che equivale all’accettarla docilmente, occorre criticarla; occorre ritrovare i rapporti conflittuali che il sacrificio e la sua teologia dissimulano e placano nel contempo…
Considerate
nel loro insieme, per quanto assurde ci sembrino alcune di esse, le precauzioni
rituali dirette contro la violenza non procedono da alcunché d’illusorio. Cosa
che in fin dei conti abbiamo già constatato a proposito del sacrificio. Se la catarsi
sacrificale arriva ad impedire la propagazione disordinata della violenza, quel
che essa riesce ad arrestare risulta essere realmente una specie di contagio…
Se
gettiamo, infatti, indietro uno sguardo ci accorgeremo che la violenza si è
rivelata a noi, sin dall’inizio, come una cosa eminentemente comunicabile. La
sua tendenza a gettarsi su un oggetto sostitutivo, in mancanza dell’oggetto
preso di mira in origine, può essere descritta come una specie di
contaminazione. La violenza a lungo repressa finisce sempre per diffondersi
tutt’attorno; da quel momento guai a chi le capita sotto tiro. Le precauzioni
rituali mirano da un lato a prevenire quel genere di diffusione e dall’altro a
proteggere, per quanto possibile, coloro che si trovano improvvisamente
implicati in una situazione d’impurità rituale, ossia di violenza.
La benché minima violenza può provocare una catastrofica escalation!
Anche
questa verità, senza essere affatto superata, è divenuta difficilmente
visibile, perlomeno nella nostra vita quotidiana, sappiamo tutti che lo
spettacolo della violenza ha qualcosa di ‘contagioso’. Talvolta è quasi
impossibile sottrarsi a quel contagio. L’intolleranza nei riguardi della
violenza può rivelarsi, in fin dei conti, altrettanto fatale della tolleranza.
Quando la
violenza diviene manifesta, ci sono uomini che si danno apertamente ad essa,
con entusiasmo perfino; ce ne sono altri che si oppongono al suo sviluppo; ma
speso sono proprio costoro a permetterle di trionfare. Non c’è regola
universalmente valida, non c’è principio che riesca a resistere. Ci sono
momenti in cui tutti i rimedi sono efficaci, tanto l’intransigenza che il
compromesso; ce ne sono altri, invece in cui tutti si dimostrano vani; e allora
non fanno altro che accrescere il male che si immaginano di ostacolare.
Arriva
sempre il momento, a quanto sembra, in cui non ci si può più opporre alla
violenza se non mediante un’altra violenza; e allora importa poco il successo o
il fallimento, è sempre lei quella che vince.
La violenza ha straordinari effetti mimetici, a volte diretti e positivi, a volte indiretti e negativi. Più gli uomini si sforzano di dominarla e più le danno alimento; essa trasforma in mezzi d’azione gli ostacoli che uno crede di opporle, simile in ciò ad una fiamma che divora tutto quello che, con l’intenzione di spegnarla, le si può gettar sopra.
E’ la violenza che costituisce il vero cuore e l’anima segreta del sacro!
(R. Girard, la violenza e il sacro)
Girard ritiene che una teoria unificata dell’evoluzione animale debba spiegare come la selezione abbia operato a livello di gruppi sociali, assicurando la sopravvivenza a quelli che riuscirono a dotarsi di strumenti efficaci per far fronte ai pericoli che incombevano su di loro; pur senza sottovalutare i pericoli esterni (scarsità di cibo e acqua, malattie, predatori, ecc..).
Girard
concentra la propria attenzione sul problema dell’aggressività intraspecifica,
che sembra costituire una minaccia tanto più grave quanto più sono sviluppate
le facoltà cerebrali. I fenomeni della vita associata, sia essa umana oppure
no, si lasciano comprendere pienamente solo se esaminati sotto il punto di
vista privilegiato della violenza intestina, la quale, nel corso dello sviluppo
delle forme animali più semplici alle più evolute di maggior intelligenza,
sembra divenire sempre più intensa e dotarsi di armi sempre più sofisticate e
letali; è perciò necessario comprendere come una crescente propensione ai
comportamenti violenti, i quali non hanno alcuna ragione per risparmiare gli
individui più vicini e appartenenti al medesimo gruppo, abbia potuto consentire
l’esistenza di società fortemente coese, quali quelle umane, anziché renderle
del tutto impossibili.
In altri termini, bisogna spiegare come sia stato possibile incanalare la violenza verso l’esterno e sviluppare freni atti ad isolare una sfera di (relativa) non-violenza, che poteva coincidere con la famiglia o con il gruppo nella sua totalità. Tale problema si è presentato sia negli animali non-umani sia all’uomo - ma a quest’ultimo in misura maggiore, vista la sua maggiore capacità d’offendere ed aggredire grazie ad armi più potenti di quelle naturali - ed è stato risolto in forme differenti.
Nella
prospettiva di Girard ‘non c’è un inizio assoluto nell’emergere degli elementi
culturali nella storia dell’umanità’, che si stagliano piuttosto su uno sfondo
comune alla vita di tutti gli esseri dotati di istinti sociali; anziché
postulare una natura umana ideale e sempre già data, Girard indaga sui
lunghissimi processi che l’hanno plasmata e le hanno dato quel sovrappiù di
forza sul quale si fondano le sue pratiche di sfruttamento.
La differenziazione che ha dato origine all’umano è perciò cercata da Girard su un piano del tutto diverso di quello postulato da altre teorie filosofiche (ragione, linguaggio, ecc…), essendo legata al problema delle modalità di controllo della violenza, vero punto di discrimine tra uomo e animale; ma tale differenziazione, a tutto vantaggio della semplicità della teoria, nasce da meccanismi comportamentali comuni a tutti gli animali e spiega anziché presupporre, le peculiarità della specie ‘Homo-sapiens-sapiens’.
In coerenza con il taglio darwiniano adottato, grande rilevanza assume nel suo pensiero il problema delle variazioni accidentali: la spiegazione dell’emergere dell’umano, nettamente antifinalista, fa appello ad eventi contingenti avvenuti in epoche remote. La stessa cultura umana è un fenomeno la cui insorgenza è casuale e il cui perpetuarsi obbedisce unicamente alla legge del miglior adattamento delle circostanze. Nelle poche pagine dedicate alla relazione tra umani e animali, prevalentemente contenute in ‘delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo’, Girard fornisce elementi sufficienti ad avviare un discorso coerente antispecista, svincolato sia dalle argomentazioni utilitaristiche sia da quelle legate al tema dei diritti e derivanti piuttosto da un’analisi storica di lungo periodo sulle condizioni che hanno reso possibile lo sfruttamento indiscriminato degli animali da parte della ‘specie simbolica’.
La lontanissima pratica di addomesticazione degli animali, sfociata poi nel consumo abituale dei loro corpi per l’alimentazione e per mille altri scopi, trova infatti una spiegazione solo nel rito, che è stato la scuola dell’umanità primitiva in ogni aspetto della sua esistenza. Applicando e svolgendo le intuizioni di Girard, dunque, possiamo affermare che ciò che ha condannato gli animali alla situazione presente è una dinamica di esclusione violenta, del tutto simile a quella esercitata nei confronti di altri esseri umani più deboli, rivolta contro chi garantisce l’assoluta sicurezza di non essere in grado di vendicarsi.
Proprio la
mancanza, negli animali, della possibilità di difendersi e di operare
ritorsioni efficaci, costituisce la ragione ‘unica’ della loro collocazione ad
un livello più basso della scala ontologica e del dominio spietato che essi
subiscono. Tutti gli altri argomenti con i quali è stata sostenuta nel tempo la
superiorità umana devono essere intesi come costruzioni teoriche sostitutive
volte ad occultare la natura di una gerarchia che ha nella violenza il suo
unico parametro; intere categorie umane, prima di divenire sufficientemente
minacciose da rendere il loro sacrificio rituale e il loro sfruttamento economico
troppo pericolosi, hanno del resto subìto una sorte non troppo dissimile da
quella degli animali.
Onestà vuole dunque che si strappi il velo dell’ipocrisia e si riconosca il fondamento violento dello specismo, che non è umanistica ‘preferenza per ciò che è razionale’ ma accorta distinzione tra vittime dalla cui ritorsione è necessario guardarsi e vittime inoffensive, delle quali si può disporre liberamente. Il problema dell’‘ominizzazione’, ossia della differenziazione evolutiva dell’uomo dallo sfondo comune alle altre specie, è affrontato da Girard grazie agli strumenti offerti dalla teoria mimetica, da lui elaborata dapprima in riferimento alla psicologia umana e poi applicata a tutti gli esseri dotati di vita sociale, cioè alla grande maggioranza delle specie animali; la mimesi è infatti un sistema di comportamento che si può ritrovare in qualunque essere dotato di un cervello sufficientemente evoluto e si può presentare sia in forme essenzialmente innocue, come l’imitazione del canto degli adulti da parte dei giovani uccelli, sia in forme più pericolose, ma sempre istintuali, ad esempio, quando un individuo risponde ad un atto aggressivo con un contrattacco.
Le lotte
fra animali non durano all’infinito e non portano, d’abitudine alla morte di uno
dei contendenti. Si concludono, piuttosto,
con l’accettazione, da parte del vinto, di una supremazia dell’altro;
l’individuo sconfitto frena da quel momento i propri comportamenti
appropriativi, con un’accettazione della superiorità dell’avversario che
comporta la rinuncia a imitarlo in alcune sfere precise della vita.
Ma cosa succede allorché la potenza mimetica diviene troppo forte, oppure, geneticamente (negli odierni tempi) ed artificialmente innestata!
Si può
infatti supporre che un più elevato sviluppo encefalico porti ad una maggiore
tendenza all’imitazione, fino al punto in cui essa diviene più forte della
paura: non c’è bisogno di scomodare Aristotele per accorgersi che l’uomo, fra
tutti gli animali, è il più atto all’imitazione.
Il
problema del controllo della violenza emerge ora più che mai in tutta la sua
gravità: se quella strana attività che chiamiamo ‘guerra’ poté vedere la luce,
evidentemente erano già stati sviluppati meccanismi che preservano dai
comportamenti aggressivi un’area ben delimitata, i cui confini non hanno nulla
di naturale:
La
guerra si sviluppa in maniera evidente tra gruppi molto vicini, ossia tra
uomini che nulla obiettivamente distingue sul piano della razza, del
linguaggio, delle abitudini culturali. Tra l’esterno nemico e l’interno amico,
non c’è reale differenza e non si capisce come dei montaggi istintuali
potrebbero spiegare la differenza di comportamento.
Affermare che esiste un istinto naturale a preservare i propri congiunti è evidentemente privo di senso, dal momento che, come è ben visibile, tra gli umani l’assassinio intra-famigliare esiste, anche se non è la regola. Si deve quindi supporre che, proprio quando l’aumento dell’aggressività mimetica ha messo ha rischio la nascente specie umana, un meccanismo nuovo si sia innescato; si tratta, secondo Girard, del fenomeno della vittimizzazione del capro-espiatorio:
Oltre una certa soglia di potenza mimetica, le
società ‘animali’ diventano impossibili. Questa soglia corrisponde dunque alla
soglia di apparizione del ‘meccanismo vittimario’; è la soglia
dell’ominizzazione.
Tale
meccanismo non è del tutto assente negli animali; Girard cita a riguardo alcune notissime osservazioni di Lorenz:
Quando due oche avvicinandosi mostrano segnali di
ostilità, il più delle volte convogliano la loro aggressività reciproca contro
un oggetto terzo.
Questo
comportamento cementa il legame tra gli individui dal punto di vista che,
scrive Lorenz, ‘l’aggressività
discriminatoria verso gli estranei e il vincolo fra i membri del gruppo si
intensificano a vicenda’.
Tale fenomeno può essere considerato come il primo abbozzo del futuro meccanismo vittimario proprio nel suo ruolo di forza ‘idraulica’ che tende a scaricare l’aggressività interindividuale su terzi, ma l’insufficiente potenza mimetica di cui sono dotati gli animali non-umani impedisce che al processo partecipi l’intero gruppo.
Non scatta
cioè, negli animali, quel meccanismo che sembra essere il vero segreto
dell’umanità, ossia l’omicidio collettivo; perché ciò accada, è necessario che
la crisi dovuta alla rivalità tra due individui sfoci in quella lotta
generalizzata di tutti contro tutti che, secondo l’intuizione hobbesiana,
costituisce la minaccia gravante in permanenza sui gruppi umani.
L’inizio
dell’umano deve perciò essere posto nel momento di massima crisi, al culmine di
quell’implosione sociale che colpisce un gruppo ormai incapace di conformarsi
ai ‘dominance patterns’, così efficaci per animali dotati di una potenza
mimetica inferiore.
Nulla, nella costituzione umana, mira a quest’inizio: è altamente probabile che molti gruppi non abbiano una soluzione né istintuale né culturale al problema e si sono semplicemente estinti. Ma alcuni gruppi hanno trovato il mezzo per sopravvivere proprio nel momento più difficile, ridirigendo la violenza di tutti contro tutti verso un unico individuo. Proprio la potenza della mimesi ha convogliato su un’unica vittima gli impulsi violenti: la violenza indiscriminata ha prodotto un fenomeno di capro-espiatorio, ossia l’uccisione collettiva di un ‘unico’ individuo che si è trovato a essere in condizione di estrema debolezza, non difeso da nessuno.
Si tratta
della tesi girardiana del ‘linciaggio fondatore’, da lui elaborata in relazione
alla nascita di un ordine culturale dopo una crisi ma applicabile anche alla
nascita dell’umano in senso assoluto, a partire da crisi remotissime
intervenute nelle prime fasi dell’evoluzione, quando l’accresciuta potenza
imitativa appena conseguita con l’incremento delle facoltà cerebrali ha infranto
l’equilibrio sul quale si fondavano i gruppi pre-umani.
Non vi è
ragione per pensare che la violenza sia in grado di dirigersi da sé verso
l’esterno: al contrario, la rabbia, quando ci si abbandoni a essa, è
centripeta. Più è esasperata, più tende a orientarsi verso gli esseri più
vicini e più cari, quelli che in tempi normali sono meglio protetti dalla
regola della non-violenza. È fondamentale comprendere come Girard non riconduca
il problema del sovrappiù di aggressività degli esseri umani a un inspiegabile
‘istinto’, a una tendenza al male innata nell’essere umano:
‘esso fa tutt’uno con il sovrappiù di mimetismo
legato all’accrescimento del cervello’.
Gli umani non sono né più buoni né più malvagi degli altri animali: semplicemente, imitano più intensamente, portando così all’estremo sia gli elementi positivi della facoltà di apprendere dai propri simili sia quelli negativi consistenti nello scatenare conflitti privi di soluzione pacifica. Se le rivalità umane hanno assai di frequente quale risultato finale l’assassinio, come è largamente constatabile, le teorie che postulano un accordo con cui gli umani avrebbero deciso di sospendere la violenza peccano di ingenuità: nell’escalation della violenza la probabilità che i contendenti si siedano intorno ad un tavolo per fissare regole e divieti è nulla.
Porre quindi l’origine delle società umane in un ‘patto sociale’, come hanno fatto per secoli filosofi contrattualisti, è indulgere a una visione eccessivamente razionalistica delle cose umane. La violenza può essere fermata solo da un evento dal forte impatto emotivo, che doni la pace al gruppo quasi senza che gli umani sappiano come e perché. Il carattere congetturale di questa ricostruzione è potenzialmente rafforzato dall’esame dei miti fondatori dei popoli dell’intero pianeta: all’inizio vi è, quasi sempre, un omicidio, dal quale sono scaturite le istituzioni sociali e, in primo luogo, ‘la religione’ con i suoi riti e i suoi divieti.
Per
spiegare l’assoluta preminenza del religioso nelle società arcaiche e, al suo
interno, di riti di distruzione quali il sacrificio, è necessario formulare
l’ipotesi che l’atto fondativo del sacro abbia coinciso con l’origine della
società stessa e sia stato un atto violento. Possiamo cioè supporre che, all’apparire
di una prima crisi di violenza interna, il parossismo mimetico abbia portato la
collettività a far convergere l’aggressività verso un ‘unico individuo’, ucciso
unanimemente da tutti gli altri: la furia, oramai priva di un oggetto, cessa
improvvisamente, provocando un mutamento emotivo talmente brusco da far
concentrare tutta l’attenzione del gruppo sulla vittima. Essa viene vista come
responsabile dello straordinario passaggio dall’eccitazione alla calma,
assumendo così agli occhi dei suoi linciatori uno ‘status’ del tutto
eccezionale, preludio alla sua collocazione in una categoria differente da
quella degli individui comuni.
Davanti al cadavere della vittima si ha l’inizio del sacro, da intendersi come la categoria dell’assolutamente eterogeneo. L’ambivalenza dei sentimenti provati dalla vittima, prima accusata e fatta a pezzi, poi ritenuta autrice della rinnovata concordia sociale, spiega la duplice natura del sacro, al tempo stesso malefico e benefico. La calma ritrovata può, però, essere nuovamente perduta con grande facilità; la vittimizzazione del capro-espiatorio è insufficiente a spiegare la stabilità dei gruppi umani, a meno che non sia possibile ricavarne un meccanismo capace di prolungare la durata dell’effetto pacificatore. Tale pratica, attestata presso tutte le civiltà, è il sacrificio, che può essere definito come la prima manifestazione della religione e, con essa, dell’intera cultura.
La classificazione degli esseri dipende, nella prospettiva di Girard, dalle pratiche sacrificali, prima scuola di pensiero dell’uomo e luogo in cui si sono forgiati gli strumenti intellettuali che hanno caratterizzato la successiva evoluzione. Sarà dunque qui che andrà ricercata la prima origine del giudizio con cui l’uomo si attribuisce le prerogative divine, trasceglie e separa se stesso dalla folla delle altre creature, fa le parti agli animali suoi fratelli e compagni, e distribuisce loro quella porzione di facoltà e di forze che gli piace.
(M. Calarco)
In questo senso esiste un doppio ruolo giocato dall’animale, colpevole ma liberatore, terreno ed eletto a ricongiungersi spiritualmente con la divinità. Altri autori riprendono questa interpretazione, sottolineando il ruolo sostitutivo dell’animale espiatorio in una pratica di sacrificio rituale originariamente diretta all’uomo, come esito quasi spontaneo della polarizzazione della violenza del gruppo sul diverso. Secondo questa ipotesi non ci troveremmo di fronte a un atto che riconosce il valore in sé dell’animale, bensì dovremmo parlare di animale surrogato sacrificale, esito di precisi tabù rispetto al sacrificio umano.
Esiste
anche un’ulteriore interpretazione del ‘sacrificio animale’, che prende come
punto di partenza le innegabili testimonianze del cosiddetto ‘senso di colpa’
per la caccia. Alcuni antropologi sostengono che l’uccisione dell’animale sia avvertita
dall’uomo come un atto contro l’armonia naturale, cosicché molte culture hanno inventato
modi per nascondere questa pratica o sublimarla attraverso una cerimonia.
Secondo questa spiegazione, il ‘sacrificio animale’ sarebbe un rito
finalizzato, attraverso particolari paramenti, a permettere l’attività
venatoria, che altrimenti risulterebbe blasfema.
In ultima analisi, questa interpretazione attribuisce lo stesso significato al dipinto rupestre paleolitico e al sacrificio rituale neolitico: tutti e due avrebbero il compito di frenare il senso di colpa, ma soprattutto di trovare – tanto nell’appello alla divinità quanto nella celebrazione iconografica – il modo di sfuggire alla vendetta animale.
(S. Tonutti)
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