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Prosegue con la Legge
Il futuro
non appartiene a coloro che sono contenti dell’oggi, apatici nei confronti dei
problemi comuni così come di quelli dei loro simili, timidi e pavidi di fronte
a nuove idee e a progetti audaci. Apparterrà invece a chi è capace di fondere
passione, ragione e coraggio in un impegno personale per gli ideali e le grandi
sfide della società americana. Apparterrà a coloro che capiscono che la
saggezza può solo emergere dallo scontro tra punti di vista contrastanti,
dall’appassionata espressione di convinzioni profonde e contrarie. Platone
diceva:
‘Una vita
senza critica non è degna di essere vissuta’.
Questo è lo
spirito seminale della democrazia americana. Questo è lo spirito che si può
trovare tra molti di voi. Ed è questo che rappresenta la speranza della nostra
nazione.
Non è
sufficiente, infatti, consentire il dissenso. Dobbiamo esigerlo. Perché vi è
molto su cui dissentire.
Dissentiamo sul fatto che milioni di persone restino intrappolate nella povertà mentre la nazione diventa sempre piú ricca.
Dissentiamo sulle condizioni e sulle
ostilità che negano una vita piena ad alcuni nostri concittadini a causa del
colore della loro pelle.
Dissentiamo sull’assurdità mostruosa
di un mondo in cui le nazioni si tengono pronte a distruggersi reciprocamente e
in cui gli uomini devono uccidere i loro simili.
Dissentiamo sul fatto che buona
parte dell’umanità viva in povertà, colpita da malattie, minacciata dalla fame
e condannata a una morte prematura dopo una vita di continui stenti.
Dissentiamo sulla condizione delle
città, che ottundono i nostri sensi e fanno sì che gli atti normali della
nostra vita diventino una lotta penosa.
Dissentiamo sulla consapevole e
noncurante distruzione della gioia e della bellezza della natura.
Dissentiamo su tutte quelle
strutture, della tecnologia e della stessa società, che privano l’individuo
dell’onore e dell’entusiasmo di condividere con gli altri gli obiettivi della
propria comunità e del proprio paese.
Come se non bastasse la nostra impotenza nel fermare questa crescente divisione tra americani, che almeno si confrontano tra loro, ci sono poi milioni di persone che vivono in luoghi nascosti, i cui nomi e le cui facce sono completamente ignoti. Ma io ho visto questi altri americani, ho visto i bambini affamati in Mississippi, con i loro corpi talmente falcidiati dalla fame e le loro menti così danneggiate per tutta la vita da non avere futuro. Ho visto questi bambini in Mississippi, qui negli Stati Uniti, un paese con un prodotto interno lordo di 800 miliardi di dollari; ho visto bambini nella regione del delta del Mississippi con le pance rigonfie e i volti coperti dalle piaghe per inedia; e noi non abbiamo ancora sviluppato una politica che ci consenta di procurare il cibo necessario affinché essi possano vivere e affinché le loro vite non siano distrutte. Non credo che questo sia accettabile negli Stati Uniti d’America. Penso vi sia bisogno di un cambiamento.
Ho visto
gli indiani vivere nelle loro riserve disadorne e misere, senza lavoro, con una
disoccupazione dell’80 per cento e con così poca speranza nel futuro da parte
dei giovani, ragazzi e ragazze di meno di vent’anni, che tra loro la principale
causa di morte è il suicidio.
E mi candido per questa ragione; corro per la presidenza perché ho visto uomini fieri sulle colline dell’Appalachia, uomini che desiderano semplicemente lavorare con dignità, ma non possono, perché le miniere sono state chiuse, il loro lavoro non c’è più e nessuno, né l’industria, né il sindacato, né il governo, se ne è preoccupato a sufficienza da aiutarli. Penso che noi, in questo paese, con lo spirito generoso che c’è qui negli Stati Uniti, possiamo fare meglio.
Ho visto la
gente del ghetto nero ascoltare promesse sempre più grandi di eguaglianza e di
giustizia, mentre in realtà siedono ancora nelle stesse scuole fatiscenti e si
accalcano nelle stesse stanze sudicie, senza riscaldamento, difendendosi dal
freddo e dai topi.
Se
riteniamo che noi, in quanto americani, siamo legati insieme da una comune
preoccupazione gli uni per gli altri, allora incombe un’urgente priorità
nazionale. Dobbiamo iniziare a porre fine alla vergogna di quest’altra America.
Troppo e per troppo tempo abbiamo dato l’impressione di riporre l’eccellenza personale e i valori della comunità nella mera accumulazione di beni materiali. Il nostro prodotto interno lordo, ora, ha superato gli 800 miliardi di dollari l’anno, ma il Pil – se intendiamo giudicare gli Stati Uniti d’America su quella base – comprende l’inquinamento dell’aria, la pubblicità delle sigarette e le ambulanze per liberare le autostrade dalle carneficine.
Mette nel
conto le serrature speciali per le nostre porte e le carceri per le persone che
le forzano. Include la distruzione delle sequoie e la perdita, nell’espansione
caotica, delle nostre meraviglie naturali. Comprende il napalm, le testate
nucleari e le autoblindo della polizia per reprimere le rivolte nelle nostre
città.
Include i
fucili Whitman e i coltelli Speck, così come i programmi televisivi che
glorificano la violenza in modo da vendere giocattoli ai nostri figli.
Il Pil non calcola, invece, la salute dei nostri figli, né la qualità della loro istruzione o la gioia nel loro giocare. Non include la bellezza della nostra poesia né la forza dei nostri matrimoni, l’intelligenza del nostro dibattito pubblico e l’integrità dei nostri pubblici funzionari. Non misura né la nostra arguzia, né il nostro coraggio; né la nostra saggezza, né il nostro apprendimento; né la nostra compassione né la nostra devozione al paese; in breve, misura qualsiasi cosa, eccetto ciò che rende la vita degna di essere vissuta. E ci può dire tutto sull’America, fuorché le ragioni per cui siamo orgogliosi di essere americani.
Questo è
tempo di vergogna e di sofferenza. Non è una giornata per la politica. Mi sono
riservato solo questa opportunità, l’unico impegno pubblico della giornata, per
parlarvi brevemente dell’insensata minaccia della
violenza in America, che ancora una volta macchia la nostra patria e la
vita di ognuno di noi.
Non è un
problema di questa o quella razza. Vittime della violenza sono neri e bianchi,
ricchi e poveri, giovani e vecchi, persone famose e gente comune. Sono
soprattutto esseri umani che altri esseri umani amavano e di cui avevano
bisogno. Nessuno – non importa dove viva o cosa faccia – può sapere con
certezza chi soffrirà per qualche assurdo spargimento di sangue. Eppure in
questo nostro paese si va avanti così.
Perché?
Cosa ha mai
ottenuto la violenza?
Cosa ha mai
creato?
Nessuna
causa di nessun martire è stata mai fermata dalla pallottola di un assassino.
Nessun torto è stato mai riparato da rivolte e da disordini civili. Un cecchino è solo un codardo, e non un eroe; una folla incontrollata e incontrollabile è solo la voce della follia, e non la voce della ragione.
Ogni qual
volta una vita americana viene strappata inutilmente da un altro americano –
che ciò avvenga in nome della legge o in spregio alla legge, da parte di un
uomo solo o di una banda, a sangue freddo o in un accesso d’ira, in un attacco
di violenza o in risposta alla violenza – ogni volta che strappiamo la tela
della vita che un altro uomo ha faticosamente, e magari anche maldestramente,
tessuto per sé e per i suoi figli, viene avvilita l’intera nazione.
‘Fra uomini
liberi – ebbe a dire Abraham Lincoln – non vi è possibilità di passare con
successo dalla votazione alla pallottola, e coloro che vi ricorrono sono certi
di perdere la loro causa e pagarne le spese’.
Eppure pare che siamo disposti a tollerare un livello crescente di violenza che ignora la nostra comune appartenenza all’umanità così come la nostra pretesa di essere civilizzati. Accettiamo tranquillamente le notizie sui giornali di stragi civili in terre remote. Glorifichiamo l’omicidio nei film e sugli schermi televisivi e lo chiamiamo spettacolo. Rendiamo facile a uomini di ogni grado di sanità mentale l’acquisto di tutte le armi e le munizioni che essi possano desiderare.
Troppo spesso onoriamo la spavalderia, la millanteria e chi ricorre alla forza; troppo spesso giustifichiamo coloro che sono disposti a costruire le proprie vite sui sogni infranti degli altri. Certi americani, che predicano la non violenza all’estero, qui in patria invece non la praticano. Alcuni che accusano gli altri di incitare alla rivolta l’hanno in realtà provocata con la loro stessa condotta.
Alcuni
cercano capri espiatori, altri vanno a caccia di cospirazioni. Ma una cosa è
certa: la violenza genera violenza, la repressione porta alla rappresaglia e
solo ripulendo interamente la nostra società possiamo rimuovere questo male dalla
nostra anima.
C’è infatti
un altro tipo di violenza, più lenta ma mortalmente distruttiva tanto quanto un
colpo di arma da fuoco o l’esplosione notturna di una bomba. È la violenza delle istituzioni; l’indifferenza, l’inazione e
il lento degrado.
È la
violenza che affligge i poveri, che avvelena le relazioni tra gli uomini a
causa del loro diverso colore della pelle. È il lento annientamento di un bimbo
per fame, scuole senza libri e abitazioni senza riscaldamento in inverno.
È la
distruzione dello spirito di un uomo a cui si nega la possibilità di essere un
padre e un uomo tra gli altri uomini. Anche questo affligge noi tutti.
Non sono venuto qui a proporre una lista di rimedi specifici, né esiste una simile lista. A grandi linee però sappiamo che cosa si debba fare. Quando insegni a un uomo a odiare e a temere il proprio fratello, quando gli spieghi che è un uomo inferiore a causa del suo colore, delle sue credenze o delle politiche che persegue, quando insegni che chi è diverso da te è una minaccia per la tua libertà o per il tuo lavoro o per la tua famiglia, allora anche tu impari a trattare gli altri non come concittadini ma come nemici, da affrontare non con spirito di cooperazione bensì con spirito di conquista, da soggiogare e da dominare.
Impariamo,
alla fine, a considerare i nostri fratelli come degli estranei, gente con cui
condividiamo una città, ma non una comunità; gente a cui ci lega l’essere
vicini di casa, ma nessuna cooperazione. Impariamo a condividere solo una paura
comune, solo un comune desiderio di allontanarci gli uni dagli altri, solo un
comune impulso a reagire al disaccordo con la forza. Per tutte queste cose non
ci sono risposte risolutive.
Sappiamo tuttavia cosa dobbiamo fare. Si tratta di realizzare una vera giustizia fra i nostri concittadini. Il problema non è quali programmi dovremmo cercare di mettere in atto. Il problema è se riusciamo a trovare fra noi e nei nostri cuori un senso di umanità che ci guidi a riconoscere le terribili verità della nostra esistenza.
Dobbiamo
ammettere la fatuità delle nostre false distinzioni fra gli uomini e imparare a
rintracciare il nostro avanzamento nella ricerca dell’altrui avanzamento.
Dobbiamo ammettere in cuor nostro che il futuro dei nostri figli non può essere
costruito sulle disgrazie altrui. Dobbiamo riconoscere che questa breve vita
non può essere né nobilitata né arricchita dall’odio o dalla vendetta.
Le nostre
vite su questo pianeta sono troppo brevi e il lavoro da compiere è troppo
grande per consentire a questo spirito di prosperare ancora sulla nostra terra.
Ovviamente non possiamo sconfiggerlo per mezzo di un programma o di una
risoluzione.
Forse però possiamo ricordare, almeno per una volta, che coloro che vivono insieme a noi sono nostri fratelli, che condividono con noi lo stesso breve periodo dell’esistenza, che non cercano, proprio come noi, niente altro se non la possibilità di vivere la propria vita dandole un senso e un po’ di serenità, cercando la soddisfazione e l’appagamento che potranno ottenere.
Certamente questo vincolo di una fede comune, questo vincolo di un fine comune, può cominciare a insegnarci qualcosa. Di sicuro possiamo almeno imparare a guardare a coloro che ci sono intorno come ad altri uomini, e di sicuro possiamo cominciare a sforzarci un po’ di piú per curarci reciprocamente le ferite e tornare ad essere nei nostri cuori fratelli e compatrioti.
(R. F.
Kennedy)
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