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Prosegue con il
Josef
Mazzini viaggiava spesso da solo e molto a piedi. Ma non è che, perché
camminava, il mondo gli sembrasse piccolo, anzi, diventava sempre più grande,
tanto che alla fine egli scomparve in esso.
Mazzini, un
camminatore trentaduenne, andò disperso nelle lande glaciali di Spitsbergen
nell’inverno artico dell’anno 1981. Si trattò senz’altro di un lutto privato:
un disperso, uno in più, nulla di particolare. Ma quando uno scompare senza
lasciare resti tangibili, qualcosa che si possa incenerire, inabissare o
sotterrare, allora lo si deve prima far lentamente sparire per sempre nelle
storie che si iniziano a raccontare su di lui dopo la sua scomparsa.
A questi
racconti nessuno è sopravvissuto.
Mi ha spesso turbato il fatto che l’inizio nonché la fine di ogni storia, che uno riesca a seguire abbastanza a lungo, a un certo punto si perdano nell’estensione cronologica, ma poiché è sempre impossibile dire tutto quello che c’era da dire e poiché un secolo deve bastare per spiegare un destino, io inizio dal mare e dico: era una limpida e ventosa giornata di marzo dell’anno 1872 sulla costa adriatica. Forse anche allora i gabbiani, simili ad aquiloni di filigrana, si libravano nel vento sopra la banchina e nel cielo blu spaziavano i candidi brandelli di un fronte di nuvole lacerato dalle turbolenze della stagione novella, non lo so.
Si racconta
comunque che, quel giorno, Carl Weyprecht, un sottotenente di vascello di linea
dell’imperial-regia Marina austroungarica, abbia tenuto un discorso davanti
alla capitaneria di porto di quella città che gli italiani chiamano Fiume e i
suoi abitanti croati Rijeka. Di fronte a uomini di mare e a un pubblico misto
raccoltosi nel porto, egli parlò delle minacce dell’estremo nord.
Sono stato a lungo persuaso che durante il discorso di Weyprecht sia cominciata a cadere improvvisa una pioggia primaverile: una pioggia nella cui ebbrezza mitigatrice alcuni dei marinai in ascolto poterono smarrirsi senza sospettare che sarebbero partiti, essendo infatti spaventati dalle immagini evocate dal sottotenente. Weyprecht descriveva un mondo lontano, nel quale un freddo sole estivo orbitava per mesi intorno ai naviganti senza mai tramontare; in autunno, però, cominciava a imbrunire finché su quelle contrade calavano le tenebre della notte polare e un indicibile rigore, che si protraevano ugualmente per parecchi mesi.
Weyprecht
parlò dell’immensa solitudine di una nave che, serrata nella morsa della
banchisa, andava alla deriva in un mare ancora inesplorato, in balia
dell’arbitrio delle correnti e delle pressioni glaciali che spaccavano strati
di ghiaccio pesanti tonnellate, sollevando e ammassando uno sull’altro
innumerevoli blocchi ghiacciati fino ad altezze impressionanti. Una violenza
che spesso aveva schiacciato anche i ventri armati delle golette e delle
fregate come fossero modellini in compensato.
Il cigolio e lo stridio della risacca del Mare Polare Artico rappresa dai ghiacci poteva talvolta risvegliare, nel navigante che solcava quelle regioni, le angosce più recondite, ma egli doveva comunque rimanere per anni in quel mondo, imprigionato tra muraglie di pack e senz’altro conforto che la propria forza d’animo.
Ma ecco che
il discorso di Weyprecht prese inaspettatamente una piega che fece apparire
tutti gli orrori sotto una luce diversa e che dovette aver perlomeno colpito
alcuni marinai al punto da indurli a presentarsi più tardi al signor
sottotenente nella capitaneria di porto:
La desolante monotonia di un viaggio artico, la
noia mortale della notte eterna e la terribile intensità del freddo sono i
luoghi comuni, passibili di infinite varianti, con i quali la civiltà è solita
compatire i poveri naviganti delle regioni polari. Ma si deve compatire solo
colui che, memore dei piaceri abbandonati, non è in grado di resistere, colui
che, compiangendo la crudeltà della propria sorte, conta i giorni che ancora lo
separano dall’ora del ritorno. Questi fa meglio a rimanersene a casa dove, al
tepore della stufa, può lasciarsi solleticare dal vagheggiamento di ignote
sofferenze, forse esagerate dall’immaginazione. Per chi invece è interessato al
creato e alle sue evoluzioni, l’atrocità del freddo non è tale da non essere
sopportabile, né la lunga notte è così lunga da non aver mai fine. La noia,
però, la prova solo colui nel quale essa è connaturata e che non è in grado di
trovare un’occupazione che distolga lo spirito dall’affliggente vessazione del
cupo meditare.
Nel cantiere Teklenborg und Beurmann di Bremerhaven, sotto le sue direttive era stata costruita una nave, concludeva Weyprecht, la Admiral Tegetthoff, una goletta a tre alberi, 220 tonnellate di stazza, dotata di una macchina a vapore ausiliaria e perfettamente attrezzata contro il ghiaccio.
La
Admiral Tegetthoff
sarebbe salpata in giugno facendo rotta su Capo Nord e di lì avrebbe continuato
a veleggiare verso tramontana, nell’inesplorato mare a nordest dell’arcipelago
russo di Novaja Zemlja. Chi dunque, tra i marinai presenti, fosse sano, non
temesse il Mare Glaciale e fosse disposto ad abbandonare ogni consuetudine e
affetto per due anni e mezzo era invitato a presentarsi presso la capitaneria
di porto per prender parte all’imperial-regia spedizione polare artica
austroungarica. Egli, Weyprecht, avrebbe avuto il comando della Admiral Tegetthoff; a terra, però, la suprema
autorità sarebbe stata esercitata dal suo collega il tenente Julius Payer.
Mentre le cose sull’Adriatico seguivano così il loro pigro corso, venendo concordati i salari nonché predisposte le partenze, a Vienna un comitato polare composto da esponenti dell’aristocrazia, e primariamente il conte Hans Wilczek che nutriva una forte passione per l’avventura, provvedeva al finanziamento di questa spedizione e intanto il tenente Julius Payer scriveva in Sudtirolo:
Caro Haller, sono lieto di averti finalmente
rintracciato e che tu mi abbia così prontamente risposto.
Intendo realizzare un viaggio della durata di due
anni e mezzo in regioni molto fredde nelle quali non esiste anima viva se non
orsi bianchi e dove il sole splende ininterrottamente per diversi mesi per poi
scomparire del tutto per altrettanti mesi.
Faccio, per l’appunto, una spedizione artica:
1. Ti pago, senza ritenuta alcuna, il viaggio da
Sankt Leonhard fino a Bremerhaven, dove ci imbarcheremo.
2. Tu dovresti entrare in servizio alla fine di
maggio, periodo nel quale dovrai giungere a Vienna.
3. Dovrai rimanere con me due anni e mezzo.
4. Provvederò io stesso al tuo vestiario, alle
armi e al vitto e riceverai, oltre a speciali ricompense per particolari prestazioni,
un minimo di 1000 fiorini in banconote, parte dei quali potrai già riscuotere
alla tua partenza. Caro Haller, ti prego di cercare un altro alpinista: deve
essere una persona corretta, affidabile, laboriosa e, per quanto immense
possano essere le privazioni, non deve mai perdere l’entusiasmo e la tenacia,
deve inoltre essere un buon cacciatore e riceverà quanto te. Al ritorno ti
verrà donato anche un bel fucile Lefaucheaux (doppietta e retrocarica).
Scrivi quindi subito e cerca in ogni caso un’altra
persona della quale tu possa garantire che sia adatta.
Dovremo affrontare freddo e perigli, ti spaventa?
Ho già felicemente superato due viaggi del genere e ciò che faccio io lo puoi
fare anche tu.
Il tuo amico Payer
(Christoph Ransmayr)
JULIUS
Io era già
inconsciamente educato al culto dell’Eguaglianza
dalle abitudini democratiche dei due miei parenti e dai modi identici che essi
usavano col patrizio e col popolano: nell’individuo essi non cercavano
evidentemente se non l’uomo e l’onesto. E le aspirazioni alla libertà, ingenite
nell’animo mio, s’erano alimentate dei ricordi di un periodo recente, quello
delle guerre repubblicane francesi, che suonavano spesso sulle labbra di mio
padre…
Assieme alle
Storie di Livio e di Tacito non meno quelle di Giuliano che il mio maestro di
Latino mi faceva tradurre, e della lettura di alcuni vecchi giornali da me
trovati semi-nascosti dietro ai libri di medicina paterni, fra i quali ricordo
alcuni fascicoli della Chronique du Mois
pubblicazione girondina dei primi tempi della Rivoluzione di Francia.
Ma l’Idea che v’è un so’ che di guasto nel
mio paese contro il quale bisognava lottare, l’Idea cioè che in quella lotta io avrei potuto far la mia parte,
non mi balenò sino al giorno che ebbi modo di incontrare dei veri oppositori.
O meglio, ora che ricordo uno solo di loro!
Per il vero
procedeva - e non certo volava sulle note di un più elevato Pensiero, giacché
se ciò lo tenta e sprona nel naturale desiderio se pur immobile nella medesima
certezza di un cacciatore, o critico, del nuovo antico progresso per sempre
assiso nel palchetto concesso sulla vasta platea; dirigersi - come dicevo -
verso una più che calcolata cella e non più guerra, penso che questa eterna
condizione l’abbia abdicata ai suoi nemici i quali sanno ricavarne giusto
margine di profitto in ogni Impero ove si è imprigionati, non più verso l’esilio,
ma cella ove ogni Manoscritto vittima
della secolar grammatica con cui posto all’Indice di una Storia interdetta.
Ricordo
questo esule contrario alla sua patria, si incamminava verso una perigliosa Cima, dacché meditai che anche lui deve
avere un amore, lo stesso, per l’Uguaglianza
e la Libertà ove sempre minacciata e reclusa.
In quel
giorno ho meditato che avrebbe potuto scegliere l’esilio, ma costui il quale mi astengo nel nominare, si avviò alla
calcolata reclusione per dimostrare che l’Ideale
merita ancora Sacrificio.
Mi debbo
ravvedere circa la paradossale condizione in cui posto dalla mia stretta cella
il meditato egoistico Sacrificio, giacché costui avrebbe
potuto comodamente contrastare l’avversato principio in ogni patria ove non
gradito… il Tiranno…
Non volendo interpretando un paradossale soggetto (& sceneggiatura) con il dovuto abito di Scena grato ad ogni Tiranno… se pur avversato…
La
condizione amletica del Primo Atto assume dovuta consistenza!
Il
paradosso della sottile critica la abdichiamo alla rappresentazione storica…
Ma come il
sottoscritto - il soggetto facente parte della Memoria deve palesarne l’Ideale
che al meglio la contraddistingue nella storia genetica di cui smemorata, e non più rinchiuso
nell’egoismo dell’uomo, semmai indicare l’altrui delirio sfociato nel più vile egoismo,
con cui ogni Tiranno cinge e confonde
l’urgenza del proprio concetto di patria barattata e ancor più confusa al bene
(o convenienza) individuale della propria personale ricchezza… nella
correttezza della Scena posta…
Incaricata dallo
sforzo di ogni Compagnia con l’Economia sovrintendere - per inteso e
sottinteso - ogni palcoscenico interpretato - quindi - sfarzosamente
rappresentato per il bene, almeno così dicono, del beneficio d’ogni singolo
spettatore colmare e saziare la vasta platea.
La rappresentazione scenica della stessa richiede non più il libretto digitalizzato estraneo all’Atto, semmai il vecchio libretto in uso ad ogni Teatro ove non solo la grande lirica assume la propria alta espressione…, ma come già espresso, la stessa Scena colmare - in ogni Impero ove rappresentata con le innumerevoli repliche - la grande lacuna di cui la Verità povera e per sempre imprigionata.
Costui,
dicevo, lo incontrai una mattina, andava a combattere la sua Guerra, senza odio
alcuno eccetto la secolare volontà, affine alla mia, di poter indicare al mondo
intero il Tiranno.
Ho meditato
a lungo tal scelta, dacché individuata la patria comune di intenti ho offerto l’umile
ricordo, giacché la ricchezza confusa in nome di un falso ideale scritto
nell’economia, oggi più che ieri, nonostante le apparenze, regna incontrastata.
Possiamo conoscere così i Tiranni, ed indicare ciò che al meglio li
contraddistingue e divide ma quantunque unisce.
L’Ideale del falso progresso congiunge e
mai divide, ed ogni finalità scritta nel presupposto dell’Economia ci suggerisce che la Tirannia
mai sconfitta, regna solo la parvenza d’uno specchio deformato e illusorio, conferendo
di rimando l’abito ben indossato coprire le nude membra di ugual immutato
corpo.
L’immutato - in verità e per il vero - medito!
Giacché in quella patria ove l’Esule va combattendo la secolare guerra di un Pensiero per sempre imprigionato, regna altrettanta ugual dittatura donde proviene l’istinto motivato.
Dacché ne
ho sinceramente meditato la Storia.
La Storia - per il vero - di determinati grandi Imperi, i quali, pur le travagliate
vicissitudini, comporre Libri e Tomi
con vaste Biblioteche custodirne -
offenderne - se non addirittura celarne la Memoria
ivi custodita; non hanno mai posto dovuta sufficiente attenzione al
ragguardevole uso della ‘moda’ -
specchiata e riflessa - nel corpo imbalsamato (nonché ibernato) e numerato, se pur
convinto del cambio di ‘scena’, in
realtà indossare medesimi costumi dal primo all’ultimo suo ‘atto’.
Ben rilegato ed impaginato…
L’Esule come il medesimo che scrive, incarna
un medesimo Tempo rappresentato e
giammai mutato, il grande palcoscenico che andrà a calcare con la vasta platea
talvolta digiuna circa la vera Storia,
comporre l’immutato non più inscenato ma la deviata natura di cui l’uomo.
Alla fine
della mia difficile e perigliosa Vita
ne meditati la piccola statura!
Se pur gli interpretati diversi sussiste sempre medesima condizione o illogica natura contrastata; ed un ‘interprete’ dell’Ideale il quale ‘indossa’ - e non più da provato ‘attore’ -, il Dramma rappresentato ed incarnato quale forma di più elevata Natura la qual impone l’Opera inscenata, e non certo per proprio Egoismo affine alla ricchezza come ebbi a meditare, ma l’altrui corrotto privato egoistico delirio contrario ad ogni Natura trascesa ed interpretata dall’ideale umano.
Un tempo
antico avremmo potuto contraddistinguerlo con la Tragedia, nel quale si cercava di indicare ed interpretare al
meglio la Tirannia detta.
In siffatto
vasto Teatro ove il proscritto
incontrato nella medesima ugual mattina avviarsi al compimento della Tragedia in ogni Impero rappresentata, i
valori del Tempo posto con le proprie rappresentazioni suddiviso
in ‘atti’, indossati (giammai possiamo dire mascherati) con ‘costumi’ in vasti panorami per al
meglio raffigurare le ‘scene’
rappresentate, ed altresì accompagnate da un orchestra sontuosa; medesime, statene certi attenti
osservatori nonché prolissi custodi della Storia
ivi rappresentata!
Dacché quel
che ne risalta, oltre la mancanza di originalità ed intelletto, anche un
apparente cambio di costumi ove la ‘Scena’
non riesce a mutare la Dottrina per sempre inscenata.
I monologhi di talune amletiche pretese poco comprese nella Follia rappresentata e tenuta ben reclusa per ciò cui intravede il regnante assiso al doppio spettacolo offerto dalla Compagnia: la Tragedia interpretata smaschera l’inganno e non più l’eterna pazzia per sempre imputata in siffatto Teatro.
Il Teatro sì vasto ed impareggiabile in
sontuosa rappresentazione, là ove regna ogni grande o piccolo Impero con il suo monarca o tiranno ben
assiso al proprio secolare palchetto specchiarsi nell’Opera offerta, se sia uno Zar o un gerarca di partito regna più
fitto mistero con cui accompagna l’inchino di proclami volti alla vasta platea
che lo applaude ringraziandolo dell’immutata
Scena; se ci fate caso, pur la Sinfonia unica impareggiabile con note
di Libertà per ognuno, o Rivoluzionarie alternate da fanfare con
grandi schiere di violini Controrivoluzionari;
medesima in siffatto Teatro ove
difficilmente potete scorgere il ‘povero’
Ideale di cui vi raccontavo in un mio ‘Manoscritto
imprigionato’, il quale prende coscienza d’ogni falsa natura ivi e per
sempre rappresentata.
Non men che ingannata!
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