CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
30 MAGGIO 1924

venerdì 15 marzo 2024

JULIUS










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di una Lettera  


Prosegue con il 


disperso








Josef Mazzini viaggiava spesso da solo e molto a piedi. Ma non è che, perché camminava, il mondo gli sembrasse piccolo, anzi, diventava sempre più grande, tanto che alla fine egli scomparve in esso.

 

Mazzini, un camminatore trentaduenne, andò disperso nelle lande glaciali di Spitsbergen nell’inverno artico dell’anno 1981. Si trattò senz’altro di un lutto privato: un disperso, uno in più, nulla di particolare. Ma quando uno scompare senza lasciare resti tangibili, qualcosa che si possa incenerire, inabissare o sotterrare, allora lo si deve prima far lentamente sparire per sempre nelle storie che si iniziano a raccontare su di lui dopo la sua scomparsa.

 

A questi racconti nessuno è sopravvissuto.




Mi ha spesso turbato il fatto che l’inizio nonché la fine di ogni storia, che uno riesca a seguire abbastanza a lungo, a un certo punto si perdano nell’estensione cronologica, ma poiché è sempre impossibile dire tutto quello che c’era da dire e poiché un secolo deve bastare per spiegare un destino, io inizio dal mare e dico: era una limpida e ventosa giornata di marzo dell’anno 1872 sulla costa adriatica. Forse anche allora i gabbiani, simili ad aquiloni di filigrana, si libravano nel vento sopra la banchina e nel cielo blu spaziavano i candidi brandelli di un fronte di nuvole lacerato dalle turbolenze della stagione novella, non lo so.

 

Si racconta comunque che, quel giorno, Carl Weyprecht, un sottotenente di vascello di linea dell’imperial-regia Marina austroungarica, abbia tenuto un discorso davanti alla capitaneria di porto di quella città che gli italiani chiamano Fiume e i suoi abitanti croati Rijeka. Di fronte a uomini di mare e a un pubblico misto raccoltosi nel porto, egli parlò delle minacce dell’estremo nord.




Sono stato a lungo persuaso che durante il discorso di Weyprecht sia cominciata a cadere improvvisa una pioggia primaverile: una pioggia nella cui ebbrezza mitigatrice alcuni dei marinai in ascolto poterono smarrirsi senza sospettare che sarebbero partiti, essendo infatti spaventati dalle immagini evocate dal sottotenente. Weyprecht descriveva un mondo lontano, nel quale un freddo sole estivo orbitava per mesi intorno ai naviganti senza mai tramontare; in autunno, però, cominciava a imbrunire finché su quelle contrade calavano le tenebre della notte polare e un indicibile rigore, che si protraevano ugualmente per parecchi mesi.

 

Weyprecht parlò dell’immensa solitudine di una nave che, serrata nella morsa della banchisa, andava alla deriva in un mare ancora inesplorato, in balia dell’arbitrio delle correnti e delle pressioni glaciali che spaccavano strati di ghiaccio pesanti tonnellate, sollevando e ammassando uno sull’altro innumerevoli blocchi ghiacciati fino ad altezze impressionanti. Una violenza che spesso aveva schiacciato anche i ventri armati delle golette e delle fregate come fossero modellini in compensato.




Il cigolio e lo stridio della risacca del Mare Polare Artico rappresa dai ghiacci poteva talvolta risvegliare, nel navigante che solcava quelle regioni, le angosce più recondite, ma egli doveva comunque rimanere per anni in quel mondo, imprigionato tra muraglie di pack e senz’altro conforto che la propria forza d’animo.

 

Ma ecco che il discorso di Weyprecht prese inaspettatamente una piega che fece apparire tutti gli orrori sotto una luce diversa e che dovette aver perlomeno colpito alcuni marinai al punto da indurli a presentarsi più tardi al signor sottotenente nella capitaneria di porto:

 

La desolante monotonia di un viaggio artico, la noia mortale della notte eterna e la terribile intensità del freddo sono i luoghi comuni, passibili di infinite varianti, con i quali la civiltà è solita compatire i poveri naviganti delle regioni polari. Ma si deve compatire solo colui che, memore dei piaceri abbandonati, non è in grado di resistere, colui che, compiangendo la crudeltà della propria sorte, conta i giorni che ancora lo separano dall’ora del ritorno. Questi fa meglio a rimanersene a casa dove, al tepore della stufa, può lasciarsi solleticare dal vagheggiamento di ignote sofferenze, forse esagerate dall’immaginazione. Per chi invece è interessato al creato e alle sue evoluzioni, l’atrocità del freddo non è tale da non essere sopportabile, né la lunga notte è così lunga da non aver mai fine. La noia, però, la prova solo colui nel quale essa è connaturata e che non è in grado di trovare un’occupazione che distolga lo spirito dall’affliggente vessazione del cupo meditare.




Nel cantiere Teklenborg und Beurmann di Bremerhaven, sotto le sue direttive era stata costruita una nave, concludeva Weyprecht, la Admiral Tegetthoff, una goletta a tre alberi, 220 tonnellate di stazza, dotata di una macchina a vapore ausiliaria e perfettamente attrezzata contro il ghiaccio.

 

La Admiral Tegetthoff sarebbe salpata in giugno facendo rotta su Capo Nord e di lì avrebbe continuato a veleggiare verso tramontana, nell’inesplorato mare a nordest dell’arcipelago russo di Novaja Zemlja. Chi dunque, tra i marinai presenti, fosse sano, non temesse il Mare Glaciale e fosse disposto ad abbandonare ogni consuetudine e affetto per due anni e mezzo era invitato a presentarsi presso la capitaneria di porto per prender parte all’imperial-regia spedizione polare artica austroungarica. Egli, Weyprecht, avrebbe avuto il comando della Admiral Tegetthoff; a terra, però, la suprema autorità sarebbe stata esercitata dal suo collega il tenente Julius Payer.




Mentre le cose sull’Adriatico seguivano così il loro pigro corso, venendo concordati i salari nonché predisposte le partenze, a Vienna un comitato polare composto da esponenti dell’aristocrazia, e primariamente il conte Hans Wilczek che nutriva una forte passione per l’avventura, provvedeva al finanziamento di questa spedizione e intanto il tenente Julius Payer scriveva in Sudtirolo: 

 

Caro Haller, sono lieto di averti finalmente rintracciato e che tu mi abbia così prontamente risposto.

 

Intendo realizzare un viaggio della durata di due anni e mezzo in regioni molto fredde nelle quali non esiste anima viva se non orsi bianchi e dove il sole splende ininterrottamente per diversi mesi per poi scomparire del tutto per altrettanti mesi.

 

Faccio, per l’appunto, una spedizione artica:

 

1. Ti pago, senza ritenuta alcuna, il viaggio da Sankt Leonhard fino a Bremerhaven, dove ci imbarcheremo.

 

2. Tu dovresti entrare in servizio alla fine di maggio, periodo nel quale dovrai giungere a Vienna.

 

3. Dovrai rimanere con me due anni e mezzo.

 

4. Provvederò io stesso al tuo vestiario, alle armi e al vitto e riceverai, oltre a speciali ricompense per particolari prestazioni, un minimo di 1000 fiorini in banconote, parte dei quali potrai già riscuotere alla tua partenza. Caro Haller, ti prego di cercare un altro alpinista: deve essere una persona corretta, affidabile, laboriosa e, per quanto immense possano essere le privazioni, non deve mai perdere l’entusiasmo e la tenacia, deve inoltre essere un buon cacciatore e riceverà quanto te. Al ritorno ti verrà donato anche un bel fucile Lefaucheaux (doppietta e retrocarica).

 

Scrivi quindi subito e cerca in ogni caso un’altra persona della quale tu possa garantire che sia adatta.

 

Dovremo affrontare freddo e perigli, ti spaventa? Ho già felicemente superato due viaggi del genere e ciò che faccio io lo puoi fare anche tu.

 

Il tuo amico Payer 

(Christoph Ransmayr)




 


JULIUS

                      

 

  

Io era già inconsciamente educato al culto dell’Eguaglianza dalle abitudini democratiche dei due miei parenti e dai modi identici che essi usavano col patrizio e col popolano: nell’individuo essi non cercavano evidentemente se non l’uomo e l’onesto. E le aspirazioni alla libertà, ingenite nell’animo mio, s’erano alimentate dei ricordi di un periodo recente, quello delle guerre repubblicane francesi, che suonavano spesso sulle labbra di mio padre…

 

Assieme alle Storie di Livio e di Tacito non meno quelle di Giuliano che il mio maestro di Latino mi faceva tradurre, e della lettura di alcuni vecchi giornali da me trovati semi-nascosti dietro ai libri di medicina paterni, fra i quali ricordo alcuni fascicoli della Chronique du Mois pubblicazione girondina dei primi tempi della Rivoluzione di Francia.

 

Ma l’Idea che v’è un so’ che di guasto nel mio paese contro il quale bisognava lottare, l’Idea cioè che in quella lotta io avrei potuto far la mia parte, non mi balenò sino al giorno che ebbi modo di incontrare dei veri oppositori.

 

O meglio, ora che ricordo uno solo di loro!


 



Per il vero procedeva - e non certo volava sulle note di un più elevato Pensiero, giacché se ciò lo tenta e sprona nel naturale desiderio se pur immobile nella medesima certezza di un cacciatore, o critico, del nuovo antico progresso per sempre assiso nel palchetto concesso sulla vasta platea; dirigersi - come dicevo - verso una più che calcolata cella e non più guerra, penso che questa eterna condizione l’abbia abdicata ai suoi nemici i quali sanno ricavarne giusto margine di profitto in ogni Impero ove si è imprigionati, non più verso l’esilio, ma cella ove ogni Manoscritto vittima della secolar grammatica con cui posto all’Indice di una Storia interdetta.  

 

Ricordo questo esule contrario alla sua patria, si incamminava verso una perigliosa Cima, dacché meditai che anche lui deve avere un amore, lo stesso, per l’Uguaglianza e la Libertà ove sempre minacciata e reclusa.

 

In quel giorno ho meditato che avrebbe potuto scegliere l’esilio, ma costui il quale mi astengo nel nominare, si avviò alla calcolata reclusione per dimostrare che l’Ideale merita ancora Sacrificio.

 

Mi debbo ravvedere circa la paradossale condizione in cui posto dalla mia stretta cella il meditato egoistico Sacrificio, giacché costui avrebbe potuto comodamente contrastare l’avversato principio in ogni patria ove non gradito… il Tiranno…




Non volendo interpretando un paradossale soggetto (& sceneggiatura) con il dovuto abito di Scena grato ad ogni Tiranno… se pur avversato…

 

La condizione amletica del Primo Atto assume dovuta consistenza!

 

Il paradosso della sottile critica la abdichiamo alla rappresentazione storica…    

 

Ma come il sottoscritto - il soggetto facente parte della Memoria deve palesarne l’Ideale che al meglio la contraddistingue nella storia genetica di cui smemorata, e non più rinchiuso nell’egoismo dell’uomo, semmai indicare l’altrui delirio sfociato nel più vile egoismo, con cui ogni Tiranno cinge e confonde l’urgenza del proprio concetto di patria barattata e ancor più confusa al bene (o convenienza) individuale della propria personale ricchezza… nella correttezza della Scena posta…

 

Incaricata dallo sforzo di ogni Compagnia con l’Economia sovrintendere - per inteso e sottinteso - ogni palcoscenico interpretato - quindi - sfarzosamente rappresentato per il bene, almeno così dicono, del beneficio d’ogni singolo spettatore colmare e saziare la vasta platea.




La rappresentazione scenica della stessa richiede non più il libretto digitalizzato estraneo all’Atto, semmai il vecchio libretto in uso ad ogni Teatro ove non solo la grande lirica assume la propria alta espressione…, ma come già espresso, la stessa Scena colmare - in ogni Impero ove rappresentata con le innumerevoli repliche - la grande lacuna di cui la Verità povera e per sempre imprigionata.

 

Costui, dicevo, lo incontrai una mattina, andava a combattere la sua Guerra, senza odio alcuno eccetto la secolare volontà, affine alla mia, di poter indicare al mondo intero il Tiranno.

 

Ho meditato a lungo tal scelta, dacché individuata la patria comune di intenti ho offerto l’umile ricordo, giacché la ricchezza confusa in nome di un falso ideale scritto nell’economia, oggi più che ieri, nonostante le apparenze, regna incontrastata. Possiamo conoscere così i Tiranni, ed indicare ciò che al meglio li contraddistingue e divide ma quantunque unisce.

 

L’Ideale del falso progresso congiunge e mai divide, ed ogni finalità scritta nel presupposto dell’Economia ci suggerisce che la Tirannia mai sconfitta, regna solo la parvenza d’uno specchio deformato e illusorio, conferendo di rimando l’abito ben indossato coprire le nude membra di ugual immutato corpo.

 

L’immutato - in verità e per il vero - medito!




Giacché in quella patria ove l’Esule va combattendo la secolare guerra di un Pensiero per sempre imprigionato, regna altrettanta ugual dittatura donde proviene l’istinto motivato.

 

Dacché ne ho sinceramente meditato la Storia.

 

La Storia - per il vero - di determinati grandi Imperi, i quali, pur le travagliate vicissitudini, comporre Libri e Tomi con vaste Biblioteche custodirne - offenderne - se non addirittura celarne la Memoria ivi custodita; non hanno mai posto dovuta sufficiente attenzione al ragguardevole uso della ‘moda’ - specchiata e riflessa - nel corpo imbalsamato (nonché ibernato) e numerato, se pur convinto del cambio di ‘scena’, in realtà indossare medesimi costumi dal primo all’ultimo suo ‘atto’.

 

Ben rilegato ed impaginato…

 

L’Esule come il medesimo che scrive, incarna un medesimo Tempo rappresentato e giammai mutato, il grande palcoscenico che andrà a calcare con la vasta platea talvolta digiuna circa la vera Storia, comporre l’immutato non più inscenato ma la deviata natura di cui l’uomo.

 

Alla fine della mia difficile e perigliosa Vita ne meditati la piccola statura!




Se pur gli interpretati diversi sussiste sempre medesima condizione o illogica natura contrastata; ed un ‘interprete’ dell’Ideale il quale ‘indossa’ - e non più da provato ‘attore’ -, il Dramma rappresentato ed incarnato quale forma di più elevata Natura la qual impone l’Opera inscenata, e non certo per proprio Egoismo affine alla ricchezza come ebbi a meditare, ma l’altrui corrotto privato egoistico delirio contrario ad ogni Natura trascesa ed interpretata dall’ideale umano.  

 

Un tempo antico avremmo potuto contraddistinguerlo con la Tragedia, nel quale si cercava di indicare ed interpretare al meglio la Tirannia detta.

 

In siffatto vasto Teatro ove il proscritto incontrato nella medesima ugual mattina avviarsi al compimento della Tragedia in ogni Impero rappresentata, i valori del Tempo  posto con le proprie rappresentazioni suddiviso in ‘atti’, indossati (giammai possiamo dire mascherati) con ‘costumi’ in vasti panorami per al meglio raffigurare le ‘scene’ rappresentate, ed altresì accompagnate da un orchestra sontuosa; medesime, statene certi attenti osservatori nonché prolissi custodi della Storia ivi rappresentata!

 

Dacché quel che ne risalta, oltre la mancanza di originalità ed intelletto, anche un apparente cambio di costumi ove la ‘Scena’ non riesce a mutare la Dottrina per sempre inscenata.




I monologhi di talune amletiche pretese poco comprese nella Follia rappresentata e tenuta ben reclusa per ciò cui intravede il regnante assiso al doppio spettacolo offerto dalla Compagnia: la Tragedia interpretata smaschera l’inganno e non più l’eterna pazzia per sempre imputata in siffatto Teatro.     

 

Il Teatro sì vasto ed impareggiabile in sontuosa rappresentazione, là ove regna ogni grande o piccolo Impero con il suo monarca o tiranno ben assiso al proprio secolare palchetto specchiarsi nell’Opera offerta, se sia uno Zar o un gerarca di partito regna più fitto mistero con cui accompagna l’inchino di proclami volti alla vasta platea che lo applaude ringraziandolo dell’immutata Scena; se ci fate caso, pur la Sinfonia unica impareggiabile con note di Libertà per ognuno, o Rivoluzionarie alternate da fanfare con grandi schiere di violini Controrivoluzionari; medesima in siffatto Teatro ove difficilmente potete scorgere il ‘povero’ Ideale di cui vi raccontavo in un mio ‘Manoscritto imprigionato’, il quale prende coscienza d’ogni falsa natura ivi e per sempre rappresentata.

 

Non men che ingannata! 


[PROSEGUE CON IL DISPERSO]








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