Precedenti capitoli:
L'intervista (5/6) &
Il doblone (7/1) &
I molti morti del generale Wolfe...
Prosegue in:
L'altro James (dedicata ad un 'innominato' Eretico) (9/10)
…La
Storia di quella Storia….
....era
cominciata molto tempo prima che Parkman si ponesse a scriverla, all’epoca
della sua infanzia; come per Wolfe, che fin da bambino aveva accettato il suo
destino di figlio di soldato e vanto di sua madre. Parkman si era ribellato
alle aspettative dei suoi genitori, alla soffocante ragionevolezza delle loro
dottrine unitariane, a quella urbanità da mercanti che nel loro ambiente era
sommamente stimata.
Quando le
prime avvisaglie della sua debolezza di costituzione avevano reso consigliabile
l’esposizione terapeutica all’aria aperta, Francis Parkman senior lo aveva
mandato a Medford, presso uno zio che abitava in campagna. Dalla fattoria il
ragazzo scappava sulle colline, perdendosi nel folto dei boschi di cedri,
querce, conifere, dietro gli scoiattoli e alle marmotte. Già allora andava
cercando l’America primigenia, antica forse non quanto le scabre rocce rosse di
origine vulcanica ove si arrampicava, ma fitta di foreste e selvaggia, terra
libera e incontaminata.
La
trovava nel soffice tappeto di muschio e foglie secche, ne avvertiva il profumo
nell’afrore terragno del suo costante generarsi e rigenerarsi. Era stato
allora, ricirdò più tardi, che aveva cominciato a fantasticare di una storia
dell’America che avesse per protagonista la foresta. In seguito gli era venuta
l’idea che la ‘vecchia guerra’ del 1756-63 la cui Storia era stata offuscata
dall’autocompiaciuto rifulgere della Rivoluzione, fosse la vicenda eroica che
cercava.
Si
trattava, in fondo, di una Storia che raccontava lo scontro tra due mondi,
l’uno fondato sulla fede e sull’Autorità (della Bibbia), ma tarlato dal dogma e
dal servilismo, l’altro caratterizzato da forze che scaturivano da una
improvvisazione aggressiva e disordinata.
Francia
ed Inghilterra, cacciatori di pelli e uomini di Chiesa, soldati e marinai,
comandanti militari e funzionari, avvinti nella lotta, gli parevano materia
epica quanto le vicende narrate negli annali della Grecia o di Roma…
…E il
momento culminante dello scontro, sulle Alture di Abramo, era una delle fasi in
cui un universo ormai remoto nei suoi valori e nelle sue virtù era stato
riplasmato in forme più consone alle esigenze degli Imperi moderni.
Wolfe e
Montcalm diventavano allora figure di cavalieri, incarnazioni del dovere non
meno dei diritti derivanti dalla Bibbia il cui principio doveva manifestarsi in
questi mezzi, una Storia in cui destinati entrambi, vincitore e vinto, a
soccombere di fronte ad un mondo che aveva spazzato via tutte quelle fantasie.
Per raccontare quella Storia, pensava Parkman, ci voleva una voce nuova, una
voce intrepidamente americana, affrancata dall’asfittico formalismo della
tradizione britannica.
Nella primavera
del 1846 Parkman partì con un compagno di Harvard, suo parente, Quincy Adams
Shaw: nome che da solo proclamava una genealogia illustre. Dall’Ohio risalirono
in battello fino al ‘trampolino’ di St. Louis. All’inizio, come in Sicilia,
Parkman visse con un senso di liberazione il distacco dal rigido perbenismo
della costa atlantica, ma presto l’atteso incontro epifanico con l’Ovest
svaporò nel sole brutale e nello sconfinato, inquietante spazio vuoto della prateria.
Invece di
sentirsi parte del paesaggio, Parkman ebbe l’impressione di esserne respinto,
minacciato. Il caldo divenne ‘torrido, quasi insopportabile’; le immense
tempeste elettriche che in continuazione si aggiravano all’orizzonte erano
fenomeni sinistri, terrificanti; il nobile bufalo (quando finalmente riuscirono
a vederlo) apparve ‘spettacolo in verità poco attraente, con la criniera ispida
e i resti spelacchiati del mantello invernale che si staccavano a brandelli dal
dorso dell'animale in fuga’; i cactus si contorcevano ‘come serpenti sul ciglio dei burroni’.
Vista non
molto migliore offrivano gli esemplari umani, commercianti di pelli che
vivevano in luride tende ingombre di pellami con flaccide donne indiane. Parkman
ne vide una nascosta nei recessi del suo ‘tepee’, che pareva la personificazione
dell’ingordigia e dell’indolenza. In verità gli indiani delle pianure, lungi
dall’incarnare le virtù di una aristocrazia naturale e dal respingere l’arrogante
e perniciosa intrusione dell’uomo bianco, parvero a Parkman esibire la miseria
dei bianchi in forme ancor più squallide e irrimediabili.
I Pawnee
odiavano i Crow che diffidavano dei Dakota che erano nemici degli Arapahoe: un’interminabile
catena di sopraffazioni in un deserto abbandonato da Dio. Finì ancor prima di
cominciare, dunque, il suo idillio con l’Ovest. Era venuto in cerca delle
sorgenti dell’America e aveva trovato il deserto: anticamera non del paradiso,
ma dell’inferno.
La
delusione quasi lo uccise.
Quando il
racconto raggiunse la pista dell’Oregon i membri della ‘Massachusetts Historical
Society’ ascoltarono un autoritratto che destava orrore e pietà: un uomo avvilito
dall’impotenza, distrutto dall’infermità, divorato dal rimorso, che ciondolava
sulla sella da quanto era debole e dolente. Credeva che il sole lo avesse accecato,
la nausea gli squassava lo stomaco, la febbre gli imperlava la fronte. A Ovest
il miraggio di un Walhalla che costantemente svaniva oltre l’orizzonte, a est
la ritirata, la sconfitta: lui nel mezzo, stranito paralizzato.
Lungo la
pista vide una catasta di vecchi mobili abbandonati: ‘rottami di vetusti tavoli
dai piedi ad artiglio, incerati e tirati a lucido, o di massicce scrivanie di
quercia’, oggetti che un tempo erano migrati dall’Inghilterra nel New England, e
di là erano stati trasportati nell’Ohio o nel Kentucky, e poi trascinati ancora
più a ovest, sotto la spinta di chissà quale illusione, fino al giorno in cui l’amato
cimelio ...era stato gettato via, pezzo di legno disseccato e reso contorto dal
sole impietoso della prateria.
Di tutte le
pagine della ‘Oregon Trail’ nessuna quanto questa immagine fa pensare a un
autoritratto. Perkman tornò a casa in uno stato che alternava repentinamente e
senza motivo momenti di attività maniacale a momenti di completa prostrazione.
Al turbinio selvaggio che s’era impadronito del suo cervello si aggiungeva in
generale disordine del sistema nervoso che mise a dura prova la sua integrità
come mai prima di allora.
Non
riusciva a cavar nulla dalle note della ‘Oregon Trail’. Furono gli amici Shaw e
Charles Eliot Norton a completarne la stesura, sì che l’opera risulta ancora
più cinica, artificiosa e ostile all’Ovest che se l’avesse scritta lui stesso.
Ciò
nonostante un anno dopo, nel 1848, Parkman decise di iniziare la sua attività
di storico con una cronaca indiana: la storia non dei miserabili sopravvissuti
che aveva incontrato all’Ovest, ma dell’ultima grande rivolta di Pontiac contro
le ingerenze anglo-francesi. Con quell’opera avrebbe dimenticato gli incubi
della pianura aperta per rifugiarsi, ancora una volta, nell’intricata, fresca
penombra del bosco cospiratore.
Era il primo
capitolo della sua grande bella epopea della foresta.
I dieci
anni che seguirono furono i migliori e i peggiori della sua vita, gli inizi
dell’attività creativa. L’isteria si mescolava ai mali reali, l’ipocondria e l’insonnia
ai fantasmi della nevrastenia. Un’estate, nel pieno della calura, trovò tre
rospi nel giardino della sua casa a Jamaica Pound, ‘morti arrostiti sotto le
pietre dove avevano cercato scampo’: visse l’incidente con tale immedesimazione
da restarne sconvolto per un pezzo.
I
familiari gli si stringevano attorno, facevano del loro meglio per circondarlo di
cure e proteggerlo da se stesso. Avevano in mente altri destini infelici nella storia
della famiglia. Pure, ben poco di ciò che Francis Parkman scriveva lasciava
intuire un uomo smarrito ai confini dell’insania, in preda alla confusione.
Dettate da lui stesso faticosamente vergate a matita lungo i fili del suo ‘telaio
da scrivere’, le sue pagine erano di solito esaurienti, meditate, eleganti, a
volte beffarde. Nonostante le periodiche discese nell’inferno dell’angoscia,
durante la stesura di ‘The Conspiracy of Pontiac’, Parkman ebbe la sensazione
di essere riuscito a tenere a bada il ‘Nemico’, come chiamava la belva
sconosciuta che si aggirava furtiva nelle foreste della sua mente.
E quando
avvertì che il Nemico stava per circondarlo, truppe fresche accorsero in suo
soccorso. Nel 1850 conobbe e sposò Catherine Scollay Bigelow. L’idillio ebbe
breve durata. Nel 1857 morì il figlioletto di quattro anni. La moglie si spense
l’anno seguente, lasciando un’altra bambina, confinandoli alla deriva tra i
marosi dell’isteria…
(S.
Schama, Le molte morti del generale Wolfe)
Nessun commento:
Posta un commento