CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
30 MAGGIO 1924

giovedì 2 gennaio 2020

ALLA RICERCA DELL' 'IMMACOLATA' (e più certa) RICCHEZZA DI VITA (51) & (1)




















Precedenti capitoli:

Il boccone breve l'Arte Infinita  (49/50)

Prosegue in:


Preparare un fuoco (o più degno focolare...) (52)  &




















Il mondo alla rovescia (53)  &


Il mondo alla 'roversa' (3)  &






















Il racconto del cedro (3)

















Qualsivoglia Verità circa l’odierno vivere nel costante conflitto, così come la Natura nell’uomo - oppure dell’uomo - forse avremmo espresso ed enunciato ancor meglio il concetto, deve (rap)presentare un proprio velo una fitta Nebbia alzarsi e avvinghiare l’alba dalla lenta morsa del gelo avvolgere la comprensione di ogni Elemento per maledirlo oppure per taluni ispirati benedirlo, ed in cui, ognuno costretto nell’istinto dettare specifica differenza in ciò che nominato Evoluto – almeno così dovrebbe essere se solo fosse compresa la Teoria non meno l’Immacolata via da un mito procedere verso codesto nebbioso velo… Cosicché pregarlo e ammirarlo nell’originaria propria specifica superiore Natura, elevarsi cioè, dall’umida materia cui una diversa Anima (Mundi) avvolgere la coltre ottenebrata e preclusa a qualsivoglia Pensiero da un’Umida Natura - donde - almeno così dicono - tutto deriva… Certo è che siamo regrediti in questo nuovo Inverno, scusate Secolare avvento, in cui l’Immacolata annunciare una particolare quanto mitica nuova venuta in quanto ci sono sempre per questa via i cercatori d’oro della vita pur non riuscendo a coglierne né il  mito, e fors’anche, neppur il semplice disegno in essa contenuto quale magnifica simmetria da un fiocco ad un abete precipitare e grondare vita o il suo contrario in questa nuova Febbre alla ricerca del fuoco: forse perché è solo questione di freddo e gelo - non so’ - si stanno preparando al caldo di un Inferno risorto a celebrare anche quello; comunque dicevo; il problema è come liberare il Tempio per accendere un fuoco avendo confuso l’uno e l’altro [Temp(i)o nella geografia di questo infausto freddo] forse il problema di codesto gelido Inverno è proprio il prometeico Fuoco donde tutto ciò che ne deriva nell’umida Regione dell’uomo perso nel fitto del bosco… cercare il proprio ed altrui oro, ed ove, un remoto e non lontano medesimo Tempo orsi lupi e zar padroni di simmetrico mistero…: oro colmare l’aspirazione per una miglior anima in assenza & difetto del vero Spirito con cui fiutare la Vita. Perciò quali bestie assise al rifugio di una Natura dispensare il segreto Verbo nell’immacolata sua bellezza, assistiamo in questi giorni alla grande partenza, non meno di ciò che avverrà dopo, e pure l’abbiamo detto, per chi ha orecchie per comprenderne il vero Senso, giacché tutto mutato dall’origine del Creato, e cercare di nominare - o ancor peggio - fondare nuovi altari non meno di capitali in difesa del Tempio è pur un cercare l’oro non avendo per nulla compreso i rigidi rigori dell’Inverno, e altresì estraneo all’equilibrio della Natura compresa l’umana… mi par ovvio ed anche sottinteso. Onde per cui noi ferie bestie di codesto Bosco Sacro assistiamo alla nuova partenza di chi il vero oro non riconosceva aspirando solo alla facile ricchezza, oddio non vuol essere un’offesa, ma Straniero per mia difettevole natura diffido di codesti nuovi avventurieri proprio in ragione di questa… Ed allora vado ad annunciare un febbre antica che sa’ di precipitosa ricchezza nei difficili sacrifici di questa… per chi sta accendendo, in verità e per il vero, nell’umido della materia…. un nuovo Fuoco… di un Inverno incompreso nella lunga e difficile Natura… specchio di un Dio che in essa crea e dispensa vera e certa ricchezza e mai sia detto il contrario nell’Apocalisse di chi estraneo ad ogni Anima-Mundi dettar veloce parola in difetto del Pensiero… in questo gelido Inverno… che sa’ di guerra…

(il curatore del blog… ancora in vita…) 







                    ALLA RICERCA DELL’ ‘IMMACOLATA’ RICCHEZZA DELLA VITA


…Fredda e grigia, spaventosamente fredda e grigia si preannunciava la giornata in cui l’uomo abbandonò la pista principale dello Yukon per arrampicarsi sull’alto argine di terra, dove una pista appena segnata e poco battuta portava verso Est, attraverso la folta boscaglia di abeti.

Era un argine ripido, e arrivato in cima egli si fermò a riprendere fiato, con la scusa, di fronte a se stesso, di guardare l’ora.

Erano le nove.

Non c’era sole, né promessa di sole, sebbene non ci fosse neppure una nuvola in cielo. Era una giornata limpida, eppure sembrava che un impalpabile sudario gravasse sulla faccia delle cose, una sottile tristezza che rendeva cupo il cielo, e ciò era dovuto all'assenza di sole. Ma questo non preoccupò l’uomo: era abituato alla mancanza di sole. Da giorni e giorni ormai non lo vedeva più e sapeva che ancora altri ne dovevano passare prima che l’astro ridente facesse capolino a Sud, al di sopra dell’orizzonte, per scomparire poi immediatamente alla vista.





L’uomo lanciò un'occhiata indietro, alla via che aveva percorso.

Lo Yukon, largo circa un chilometro e mezzo in quel punto, era sepolto sotto un metro di ghiaccio, il quale era a sua volta ricoperto da altrettanta neve. Era tutto bianco candido, lievemente ondulato nei punti in cui si erano formate placche ghiacciate. A Nord e a Sud, fin dove l’occhio poteva giungere, si estendeva un bagliore immacolato, interrotto soltanto da una sottile linea scura che verso Sud serpeggiava intorno a un’isola di abeti e verso Nord scompariva dietro un’altra abetaia.

Questa linea scura era la pista, la pista principale, che portava, dopo settecentocinquanta chilometri, giù a sud al passo Chilcoot e all’acqua salata; e, a Nord, dopo novanta chilometri, a Dawson, e continuando per altri millecinquecento, a Nulato, per finire a St. Michael, sul Mare di Bering, dopo altri ottocento. Ma tutto ciò, la misteriosa, sfuggente sagoma della pista, il cielo senza sole, il freddo terribile e la stranezza quasi soprannaturale dell’atmosfera, non facevano nessuna impressione all’uomo. E non perché egli vi fosse oramai abituato: era un nuovo arrivato, un ‘chechaquo’, e questo era il suo primo inverno.

Il fatto è che era privo di immaginazione.

Era sveglio e pronto nelle cose della vita, ma soltanto nelle cose, non ne percepiva i profondi significati.







45 sotto zero sono 45 al di sotto del punto di congelamento e ciò lo colpiva perché gli faceva sentire freddo e gli dava un senso di malessere, punto e basta. Non lo portava a meditare sulla sua fragilità di creatura legata alle condizioni termiche e sulla fragilità dell’uomo in generale, capace di vivere soltanto entro limiti angusti di caldo e di freddo; e successivamente a congetturare sull’immortalità e il posto dell’uomo nell’universo.

45 sotto zero significavano una morsa di freddo che faceva male, e da cui bisognava proteggersi usando guantoni da neve, copriorecchie, mocassini caldi e calze pesanti. Che potessero significare anche qualcos’altro era un pensiero che non lo sfiorava neppure. Nel voltarsi per proseguire, sputò con aria pensosa. Ci fu un secco crepitio, quasi esplosivo, che lo sorprese. Sputò di nuovo. E di nuovo, a mezz’aria, prima di cadere sulla neve, lo sputo crepitò. Sapeva che a 45 sotto zero gli sputi si congelavano al contatto della neve, ma questa volta il fatto era successo in aria. Senz’altro erano più di 45 sotto zero: quanto di più, non sapeva.

Ma poco gli importava del gelo.

Era diretto a una vecchia miniera sul braccio sinistro dell’Henderson Creek, dove già si trovavano i suoi compagni. Essi vi erano arrivati attraversando la regione dell’Indian Creek, mentre lui aveva fatto un’ampia deviazione per vedere se in primavera sarebbe stato possibile ricavare legname dalle isole dello Yukon. Contava di arrivare al campo per le sei; un po’ dopo il buio, è vero, ma i ragazzi erano già lì, ci sarebbe stato il fuoco acceso, e una minestra calda pronta. Per quanto riguardava il pranzo, tastò con la mano un rigonfio della giacca. Lo teneva sotto la camicia, avvolto in un fazzoletto contro la nuda pelle. Era l’unico modo di impedire che le gallette si congelassero. Sorrise compiaciuto pensando alle gallette, tagliate nel mezzo, inzuppate nel grasso del lardo e imbottite con una generosa porzione di pancetta. Si immerse tra gli abeti maestosi.

La pista era quasi invisibile.





Una trentina di centimetri di neve erano caduti da quando vi era passata l’ultima slitta, ed egli si rallegrò di essere a piedi e senza bagagli. In effetti, non aveva con sé niente altro che la colazione avvolta nel fazzoletto. Tuttavia era stupito del freddo. Faceva davvero freddo, decise, strofinandosi il naso e gli zigomi addormentati con la mano guantata. Le folte basette, e tutti i peli del volto, non bastavano a proteggere gli sporgenti zigomi e l’avido naso che si protendeva aggressivo nell’aria diaccia.

Alle calcagna dell’uomo trotterellava un cane, un grosso eschimese indigeno dal manto grigio, il vero cane lupo, che non mostrava nessuna differenza, né nell’aspetto né nel temperamento da suo fratello, il lupo selvaggio. L’animale era prostrato dal freddo terribile. Sapeva che non era tempo di viaggiare. Il suo istinto gliela diceva più lunga che non all’uomo il suo raziocinio. In realtà non era soltanto più freddo di 45 sotto zero, era più freddo di 50, di 55 sotto zero, erano 60 sotto zero.

Il cane non sapeva nulla di termometri. Con ogni probabilità non c’era nel suo cervello una chiara consapevolezza di una condizione di estremo freddo, come c’era invece nella mente dell’uomo. Ma la bestia aveva l’istinto. Provava una sensazione vaga, ma sinistra che la rendeva mogia, la faceva trotterellare furtiva alle calcagna del padrone, e seguire avidamente ogni suo minimo gesto fuori dell’ordinario come se si aspettasse che egli si rifugiasse in un accampamento o cercasse qualche riparo e si facesse un fuoco.
Il cane aveva conosciuto il fuoco e lo desiderava, oppure avrebbe voluto scavarsi un buco nella neve in cui raggomitolarsi per non disperdere il calore del proprio corpo. La congelata umidità del respiro gli si era depositata sul pelo sotto forma di impalpabile pulviscolo di gelo, e particolarmente le mascelle, il muso e le ciglia erano imbiancati dal suo respiro cristallino.
Anche la barba e i baffi rossi dell’uomo erano gelati, ma formavano una vera e propria massa di ghiaccio che aumentava ad ogni respiro caldo umido che egli esalava. Inoltre, l’uomo masticava tabacco, e la museruola di ghiaccio gli serrava le labbra in tal modo che egli non riusciva a pulirsi il mento quando doveva sputare, col risultato che una barba cristallina del colore e della consistenza dell’ambra gli prolungava il mento. Se fosse caduto si sarebbe spezzata, come vetro, in minuscoli frammenti. Ma egli non si curava dell’escrescenza. Era il pegno che tutti i masticatori di tabacco pagavano in quel paese, e già si era trovato altre due volte in circostanze analoghe. Il freddo non era così intenso come stavolta, lo sapeva bene, ma dal termometro ad alcol al Sistymile sapeva che in quelle occasioni si era trovato a 45 e a 50 sotto zero.




Continuò a marciare attraverso le piatte distese di boschi per parecchi chilometri, attraversò un’ampia pianura; poi scese lungo un argine sul letto gelato di un fiumiciattolo. Era questo lo Henderson Creek, che, come sapeva, distava 15 chilometri dalla biforcazione.

Guardò l’ora: erano le dieci.

Faceva 5 chilometri all’ora, e calcolò che sarebbe arrivato al bivio alle dodici e mezzo. Decise di celebrare l’avvenimento pranzando lì. Il cane ricominciò a trotterellargli alle calcagna, la coda pendula per lo sconforto, quando l’uomo riprese il cammino lungo il letto del torrente. Il solco della vecchia pista da slitte era chiaramente visibile, ma quasi due spanne di neve ricoprivano le tracce degli ultimi viaggiatori. Da un mese nessuno aveva più percorso quel silente ruscello. L’uomo proseguì la marcia, regolare.

Pensare non era il suo forte, e in quel particolare momento non aveva nulla a cui pensare tranne che avrebbe fatto colazione al bivio e che alle sei si sarebbe trovato al campo coi compagni. Non aveva nessuno con cui parlare, ma quand’anche ci fosse stato, parlare sarebbe stato impossibile a causa della museruola di ghiaccio che gli serrava la bocca. Continuò quindi a masticare tabacco col risultato che la barba ambrata divenne sempre più lunga. Di quando in quando gli si riaffacciava il pensiero che faceva veramente freddo e che mai aveva provato un freddo simile. Camminando si strofinava naso e zigomi col dorso della mano guantata, automaticamente, cambiando mano di tanto in tanto. Ma con tutto lo strofinio, non appena cessava, gli zigomi si intorpidivano, e l’istante successivo era la punta del naso a intorpidirsi. Sicuramente gli si sarebbero congelate le guance; lo sapeva, ed ebbe un moto di rimpianto per non essersi messo un coprinaso del tipo che portava Bud in queste occasioni. Ma non importava molto, dopo tutto. Le guance intirizzite fanno solo leggermente male, non sono un inconveniente grave.





Per quanto la sua mente fosse sgombra di pensieri, aveva un acuto spirito di osservazione, e non gli sfuggivano i mutamenti del ruscello, le anse, le curve, e badava sempre bene a dove metteva i piedi. Una volta, giunto ad una curva, scartò bruscamente, come un cavallo impaurito, e arretrò un bel pezzo dal punto in cui stava camminando, lungo la pista. Sapeva che il ruscello era congelato fino in fondo - non poteva esserci acqua in quell’inverno artico -, ma sapeva altresì che c’erano delle sorgenti che sgorgavano dalle pendici delle colline e scorrevano tra il manto di neve e lo strato di ghiaccio che ricopriva il fiume. Sapeva che neanche le morse di gelo più acute congelano queste sorgenti, e conosceva il pericolo che rappresentavano. Erano vere e proprie trappole. Nascondevano sotto la neve pozze di acqua che potevano essere profonde da poche dita a un metro. Talvolta erano ricoperte da una crosta di ghiaccio spessa qualche centimetro, a sua volta ricoperta di neve. Talvolta strati di acqua si alternavano a croste di ghiaccio cosicché quando uno cominciava ad affondare continuava a sprofondare da un pezzo, bagnandosi talora fino alla cintola. Per questo aveva fatto uno scarto repentino. Aveva sentito il terreno cedere sotto i piedi e udito lo scricchiolio di una crosta di ghiaccio nascosta dalla neve. E bagnarsi i piedi a quella temperatura rappresentava un pericolo oltre che un fastidio. Come minimo significava ritardare, perché sarebbe stato costretto a fermarsi per farsi un fuoco e, protetto da questo, mettersi a piedi nudi fintantoché si asciugassero calzerotti e mocassini. Si fermò per osservare il letto e le sponde del fiume, e stabilì che il fiotto della sorgente veniva da destra. Rimase un po’ a riflettere strofinandosi naso e guance, poi piegò a sinistra, camminando con circospezione e saggiando il suolo ad ogni passo.




Una volta scampato il pericolo, masticò un nuovo morso di tabacco e riprese la sua andatura. Nel corso delle due ore successive si imbatté in varie altre trappole di questo tipo. Di solito la neve che celava le pozze aveva un aspetto affossato e granuloso, che faceva presagire il pericolo. Una volta la scampò per poco; un’altra, fiutando il pericolo, obbligò il cane a precederlo. Il cane era riluttante; rimase dietro l’uomo finché questi non lo costrinse a spingersi in avanti, e poi attraversò frettolosamente la superficie liscia e immacolata. D’improvviso sprofondò, questa cedette, il cane fece uno scarto e si rifugiò su terreni più sicuri. Si era bagnato le zampe anteriori, e quasi istantaneamente l’acqua si trasformò in ghiaccio. Tentò prontamente di leccarselo via, poi si sedette nella neve e cominciò a mordicchiarsi le incrostazioni che si erano formate tra le dita. Era un gesto istintivo: lasciarle avrebbe significato piaghe sulle zampe. Non lo sapeva, obbediva soltanto al misterioso suggerimento che gli veniva dai più remoti recessi del suo essere. L’uomo però sapeva, avendo esperienza in materia, e si tolse il guanto dalla mano destra per aiutarlo a staccare i ghiaccioli. Non espose le dita per più di un minuto, e rimase stupito dalla rapidità con cui si intorpidirono: faceva proprio freddo. Si rimise in fretta il guanto e si picchiò la mano, selvaggiamente, contro il petto.





Alle dodici il giorno ebbe il suo momento di massima luminosità. Eppure il sole era ancora troppo a Sud, nella sua traiettoria invernale, per illuminare l’orizzonte. La rotondità della terra gli impediva di illuminare lo Henderson Creek, dove l’uomo camminava a mezzogiorno sotto un cielo limpido senza proiettare ombra. Alle dodici e mezza in punto arrivò alla biforcazione del fiume. Era soddisfatto della propria velocità. Se manteneva quel ritmo, alle sei sarebbe senz’altro stato fra i compagni. Si sbottonò giacca e camicia e tirò fuori la colazione. Non ci impiegò più di pochi secondi, eppure bastarono ad intorpidirgli le dita di una mano. Invece di rimettersi subito il guanto batté forte le dita una dozzina di volte contro la gamba. Poi si sedette a mangiare su un tronco coperto di neve. Il dolore pungente che aveva seguito il battere le dita contro la gamba cessò così rapidamente che si spaventò. Non aveva neppure avuto il tempo di mettersi un bocca una galletta. Batté ancora ripetutamente le dita e le rinfilò nel guanto, e si tolse l’altro nel tentativo di mettersi a mangiare. Provò ad addentare un boccone, ma la museruola di ghiaccio glielo impedì. Aveva dimenticato di farsi un fuoco per scioglierla. Sorrise della propria stoltezza, e mentre sorrideva sentì un rapido torpore afferrare le dita scoperte. Si accorse altresì che il dolore pungente che aveva provato ai piedi sedendosi stava già scomparendo. Si domandò se le dita fossero calde o intorpidite. Provò a muoverle nei mocassini, e decise che erano intorpidite. Si rimise il guanto in fretta e balzò in piedi vagamente impaurito. Saltellò su e giù finché non risentì ai piedi l’acuto dolore.





Faceva davvero freddo, pensò.

L’uomo che veniva dal Sulphur Creek diceva la verità, quando gli aveva raccontato a che punto poteva arrivare il freddo da quelle parti. E pensare che gli aveva riso in faccia! Ciò mostrava che non bisogna essere troppo sicuri delle cose. Faceva proprio un freddo cane, non c’era dubbio. Si mise a camminare su e giù pestando i piedi e sgranchendosi le braccia, finché, rassicurato, non sentì ritornarvi del calore. Allora tirò fuori dei fiammiferi e si accinse a preparare un bel fuoco. Prese la legna da ardere nel sottobosco, dove le piene della primavera precedente avevano ammucchiato delle riserve di ramoscelli stagionati. Da un modesto fuocherello iniziale, lavorando con grandi precauzioni, riuscì ad ottenere un fuoco gagliardo, che gli sciolse il ghiaccio dal volto e al cui tepore poté mangiare le gallette. Per un momento il gelo che lo circondava fu sopraffatto. Anche il cane godeva di quel fuoco, e vi si era steso a una giusta distanza, abbastanza vicino da prendere calore senza scottarsi. Terminata la colazione, l’uomo si riempì la pipa e si concesse una bella fumata. Poi si rinfilò i guanti, si sistemò accuratamente i paraorecchi e, con gran disappunto del cane che non riusciva a staccarsi dal fuoco, si accinse ad imboccare la pista del ruscello diretta verso sinistra.

Quest’uomo non sapeva cos’era il freddo.

Proveniva da una stirpe che ignorava il freddo, il freddo vero, il freddo che si prova a 60 dal punto di congelamento. Ma il cane lo conosceva, i suoi antenati se ne intendevano di freddo, e gli avevano tramandato la loro esperienza. E sapeva che non era bene andarsene in giro con un freddo simile. Era piuttosto il momento di accovacciarsi in un buco nella neve e attendere che una coltre di nuvole si frapponesse come una tenda a sbarrare la via del freddo. Ma non esisteva una vera intimità tra il cane e l’uomo. 




Il primo non era che lo schiavo da fatica dell’altro, non conosceva altre carezze che quelle della frusta o altri suo L’uomo prese a masticare tabacco, e si ricominciò a formare la barba ambrata, mentre il vapore del respiro gli imbiancò rapidamente baffi, ciglia e sopracciglia. Non sembrava che ci fossero molte sorgenti sul ramo di sinistra dello Henderson, e per mezz’ora non vide nessun segno premonitore. E poi accadde. In un punto dove non c’era assolutamente nulla di strano, dove la neve soffice e compatta sembrava promettere un solido fondale, l’uomo sprofondò. Non di molto. Si bagnò solo fino a mezza gamba, prima di rimettere piede su una crosta sicura. Furente, imprecò contro la sua mala sorte. Aveva sperato di essere al campo coi compagni per le sei e questo incidente lo avrebbe fatto ritardare di un’ora, perché gli toccava accendere un fuoco per far asciugare calze e scarpe. Sapeva che questo era assolutamente indispensabile, con una temperatura così bassa. Invece di proseguire sulla pista, si inerpicò sull’argine del fiume. In cima, attorno ai tronchi dei piccoli abeti, si era raccolto un vero deposito di legna secca, ammucchiatavi dalle piene - stecchi e ramoscelli soprattutto, ma anche quantità più massicce di rami stagionati ed erbacce secche dell’anno prima..... 













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