CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
30 MAGGIO 1924

lunedì 6 gennaio 2020

LA SACRA TERRA (6)












































Precedenti capitoli:

Il racconto del Pino (4/5)

Il racconto del cedro (3/1)


Prosegue in:
























"Il mondo scompare! 


E' questa la nostra pace" (7)


...Ed ancora nei...















Desideri di Ippolito... (6 Gennaio...) (8)






































….Mano a mano che saliamo, l’orizzonte davanti comincia a farsi ipnotico. I nevai che brillano nella fenditura della valle sembrano una montagna isolata (in realtà fanno parte di una catena) e portano un’ondata d’emozione…

Quando piantiamo le tende sotto il passo Nārāla, l’aspettativa è alle stelle poiché questa gola a oltre 4500 metri d’altitudine è l’ultima barriera che ci separa dal Tibet. Ora scende una pioggerella fredda. Mi stendo nella tenda in attesa che smetta e intanto immagino la vista dalla sommità del Nārāla, domani. Il presagio di cambiamento che le frontiere portano con sé, quasi una rivelazione sussurrata, è amplificato in quest’aria rarefatta dall’aura ultraterrena che ancora si irradia dal Tibet.

Ogni mito dovrebbe essere stato spazzato via ormai da un pezzo dal paese depredato, lo so!




Tuttavia, sotto quest’ultimo passo imponente si percepisce ancora il bagliore residuo di una terra che respira un’aria unica, accessibile attraverso un varco mistico tra le montagne e una breccia nel tempo.

Apro la cartina per vedere quanto siamo vicini.

La pioggia picchietta come grandine sul tetto della tenda. Anche sulla larga scala della cartina, la frontiera dista solo pochi millimetri.

La sensazione di entrare in una Terra Sacra non è solo una prerogativa dei viaggiatori, ma ha ossessionato gli stessi tibetani.

Per secoli, anche loro hanno immaginato una Terra Sacra invisibile o lontana e irraggiungibile. l’ubicazione precisa di questo regno di Shambhala è incerta, ma si dice che si trovi da qualche parte a nord del Kailash, cinto da vette innevate invalicabili. Secondo gli yogin, arrivarci richiede un viaggio di tre mesi oltre il monte, ma la via è così sfuggente che i pellegrini si ritrovano a vagare senza speranza. Alcuni credono addirittura che Shambhala si trovi in un’altra dimensione, come al di là di un cunicolo spazio-temporale galattico, e che vi si acceda solo attraverso porte di ghiaccio situate nell’Himalaya.




A forma di fiore di loto a otto petali dai quali si irradiano regni secondari, da due millenni e mezzo Shambhala è governata da una dinastia di re devoti che risiedono in un palazzo fatto di gioielli, come al centro di uno sfarzoso mandala. Qui parole come ‘nemico’ o ‘guerra’ sono sconosciute. Il re fondatore ricevette gli insegnamenti dal Buddha in persona, e una volta che i suoi sudditi si fecero più disinteressati, il paese divenne invisibile agli uomini. I suoi governanti tuttavia continuano a vegliare sul mondo umano, e tra quattrocento anni, quando quel mondo sprofonderà nella rovina, l’ultimo re uscirà dal suo santuario per redimere gli uomini e instaurare una nuova età dell’oro.

In Occidente, già prima della creazione letteraria di Shangri-la ci si baloccava con l’idea che Shambhala esistesse come entità geografica. Nell’Ottocento lo studioso ungherese de Körös sosteneva di averla localizzata grazie ai suoi calcoli astronomici, e nei tardi anni venti del XX secolo, il russo Nicholas Roerich intraprese una spedizione lunga e seria tutta dedicata alla ricerca di Shambhala. Le origini del mito potrebbero risalire al ricordo di una patria perduta, forse il regno di Zhang Zhung intorno al Kailash, sconfitto in guerra nell’VIII secolo. Ma più probabilmente fu importato in Tibet dall’India due secoli e mezzo più tardi, nel testo sacro noto come Kālacakra Tantra che descrive il percorso di meditazione verso Shambhala.




Tale insegnamento, a lungo prezioso per il buddhismo tibetano, ha oggi maturato una promessa struggente. Per alcuni, la devastazione cinese della madrepatria è un presagio della salvezza imminente. Il Dalai lama, che crede nella reale esistenza di una Shambhala nascosta, ha dato spesso l’iniziazione al Kālacakra in pubblico chiamando a raccolta le anime verso un paradiso con significati diversi. Per coloro che hanno occhi purificati, Shambhala esiste sulla terra, mentre gli iniziati al tantrismo la raggiungono con la meditazione. Altri ancora la immaginano come un impero del futuro che sorgerà nel 2425, quando l’esercito apportatore di pace dell’ultimo re irromperà nel mondo dal suo santuario tra le montagne.

Nel frattempo, altri luoghi sacri pervadono il paese.

Si dice che gli ingressi segreti a questi beyul (o valli segrete) siano stati descritti da Padmasambhava in testi nascosti detti ‘tesori’, e saranno rivelati in tempi di pericolo. Alcuni beyul sono già stati scoperti e occupati da comunità in attesa nelle più remote zone himalayane. All’occhio del profano, non sono che tranquille vallate, ma per l’iniziato risplendono di potenziale mistico.




Dopo l’invasione cinese, sembra che certi lama abbiano accompagnato i loro discepoli nelle zone desertiche in cerca di questi beyul seguendo le astruse indicazioni contenute nei Testi Sacri.

Alcuni persero la speranza e rinunciarono, ma altri, si vocifera, passarono attraverso le pareti rocciose e le cascate e sparirono per sempre in una dimensione al di là del tempo umano.

Per un’ora, al tramonto, un vento freddo soffia polvere su per la valle e nelle nostre tende. la pioggia è diminuita. l’ultimo affluente è passato sotto di noi per andare a spegnersi a ovest, e tra i pendii spogli è comparsa all’improvviso una distesa verde chiamata ‘Prati di Sipsip’, disseminata di rocce isolate. La neve sciolta solca l’erba in gelidi rivoletti mentre il Nārāla sopra di noi è nero di nubi. Nel crepuscolo scendo verso un grosso macigno arenatosi nella valle. L’aria è ferma, purificata.

Gli ultimi canti degli uccelli si sono smorzati.




Solo un fringuello semi addomesticato con la parte inferiore delle ali bianca mi si alza in volo da sotto i piedi, e farfalle nere cercano nutrimento sulla polvere. In tutto il giorno, le uniche piante che ho notato sono le logore ginestre che tappezzano i pendii riparati, e un cisto color corallo che brillava isolato. Ora dopo ora, ha preso piede un’erosione incolore. Adesso però sotto i piedi si stende un velo di fiori delicati che non conosco, e gli arbusti che rasentano il terreno sono costellati di fiori giallo limone. È facile capire perché i primi botanici sul campo – uomini come Kingdon-Ward e George Sherriff –avessero sviluppato un’ossessione per queste improvvise eruzioni splendenti nel nulla e rischiassero la vita per andare a caccia della Primula eburnea o del papavero azzurro.

È come la primavera nella tundra artica. Dalle montagne spoglie, gli occhi cadono di colpo su questo parquet floreale dall’aria fragile. Anemoni bianchi spuntano tra la sterpaglia, e nidi di boccioli di un rosa intenso si schiudono.

Quando raggiungo il macigno, sta calando la notte.

Antico e solitario, esso sovrasta la valle con la sua mole. Sulla sua superficie scorgo incisioni consunte, e qualcuno nella solitudine di questo luogo ha scritto Om mani padme hum con un gessetto azzurro sulla faccia che dà a nord. Ma i Buddha scolpiti sono quasi scomparsi. Questi fluttuano sui loro troni di loto con le mani a coppa o sollevate o svanite. Devono essere stati incisi qui per consacrare la natura selvaggia prebuddhista – i passi brulicano di spiriti pagani – ma le mani levate in segno di benedizione ormai si distinguono a stento, e le teste aureolate si sono ritirate nella pietra.




Poi, a 4500 metri, dove l’orizzonte è punteggiato di tumuli di pietre e di bandiere, raggiungiamo la cima del passo Thalladong e facciamo una sosta stupefacente. Lo sguardo spazia su una terra di stranezza planetaria. Sotto di noi, in una mezzaluna di silenzio insondabile, un enorme lago s’incurva, vuoto, perdendosi alla vista. È completamente immobile. Nell’arida liscezza dell’altopiano, emana una dura purezza, come certe sculture primitive, e il suo colore – un violento blu pavone – è quasi spaventoso.

Non vi sono uccelli né arbusti scossi dal vento che producano suoni. E nella limpida quiete in alto sopra di noi, fluttuante su rilievi pedemontani così sbiaditi da farlo apparire isolato nel cielo, risplende il cono del monte Kailash.

In quest’istante mozzafiato, i pellegrini scoppiano in pianti e preghiere.

Persino i nostri trekker consumati scendono dai land Cruiser per ammirare lo spettacolo. Sembrano non esserci altri colori al mondo se non il marrone essenziale della terra, il bianco della neve e la lucentezza del cielo riflesso. Tutto il resto è evaporato. La parete sud del Kailash presenta una scanalatura che crea l’illusione di una lunga scala verticale, come per consentire agli Spiriti di salire in cima.

Essa splende a ottanta chilometri di distanza in una solitudine ultraterrena.




Priva di ogni vita, l’intera regione potrebbe essere il residuo di una preistoria sacra, priva della complicazione umana. Siamo entrati nella Terra Santa. Tuttavia la sacralità del lago è ambigua. Viene chiamato Rakshastal, il lago dei demoni, ed è popolato da spiriti carnivori induisti. Un unico monastero, distrutto dalla Rivoluzione culturale, non ne ha mai toccato le sponde. I pellegrini lo evitano. La sua mezzaluna nell’immaginario è più scura e minacciosa del vicino lago sacro di Manasarovar, il cui cerchio riflette il sole. Si dice che sia flagellato dai venti e da lastroni di ghiaccio galleggianti, e che sorga sopra montagne sommerse.

Le sue acque un tempo erano uno scuro veleno.

Ma un pesce dorato che, nuotando, uscì accidentalmente dal Manasarovar, scavò un canale fino al Rakshastal attraverso il quale il lago bagnato dal sole si riversò nel lago nero, redimendolo. Sicché, per l’iniziato, le acque lunari del Rakshastal diventano il complemento oscuro – e il compimento psichico – del Manasarovar. Scendiamo dolcemente dal passo, e per uno sterile istante l’acqua scompare alla vista. Ma pochi minuti dopo, un altro ago di blu – più scuro del precedente – appare a est: è il Manasarovar, verso il quale siamo diretti.




Quando superiamo un alberghetto indù, per un attimo ho l’allarmante sensazione che, persino in questo isolamento, il lago più santo del mondo – sacro a un quinto del genere umano – potrebbe soffrire di inquinamento o ospitare costruzioni sulle sue sponde. Poi il suo specchio si apre davanti a noi, incontaminato. le acque si spalancano con la stessa incommensurabile intensità del Rakshastal, ma il blu pavone si è trasformato in un pozzo di puro cobalto, contornato da montagne innevate che lo dominano da un orizzonte all’altro.

A oltre 4500 metri si estende il più alto lago d’acqua dolce di queste dimensioni del mondo. Cinquecento chilometri quadrati d’acqua splendono tra le nevi, e i pochi pellegrini che effettuano un giro intorno al lago devono camminare per più di ottantacinque chilometri. Nessuna presenza di vita ne turba le acque mentre ci avviciniamo. Solo la brezza ne ara la superficie qui e là creando dei solchi, come se vi fossero passate un minuto prima navi invisibili. In realtà nessuna barca può navigare sul lago, e nessuno può pescare nelle sue acque.

Vi fu un tempo in cui perfino la caccia era sconosciuta in questo territorio sacro.












Nessun commento:

Posta un commento