CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

venerdì 10 gennaio 2020

I NOSTRI PASSI (con La Nobile Fede) (13)








































Precedenti capitoli fra...:

Fughe confini e deliri... (11/2)

Prosegue con...:

Ceda lo Passo... (14)


















Anche in formato PDF fotoblog...  (in uso per tutti i nuovi praticanti)













Che cos’è il Tang-kar la?

E’ un passo fra il Tibet e il Sikkim, nell’Imàlaia orientale, alto poco meno di 5000 metri...

Ebbene, cosa c’è di straordinario? Giovanotto pensate che la rivista è una cosa seria; non veniteci a raccontare di queste bazzecole quando abbiamo pareti di sesto grado per la testa...

Scusate, scusate... volevo appunto dire che non ci sono difficoltà alpinistiche...

E allora andatevene con Dio, lasciateci al nostro lavoro...




Ma ci sono difficoltà politiche... Ascoltate, voi non conoscete i sesti gradi che vanno chiodati con permessi e staffati con contropermessi; il Tibet è tutto un sesto grado.

Va bene, va bene; così siete riuscito a spuntarla con questo strapiombo diplomatico del Tanghar-la?

Sissignore, grazie ad una vecchia amicizia col maharagia del Sikkim...

Be’ be’ non c’è bisogno di vantarsi tanto. Quando partiste?

Il 25 luglio di quest’anno, da Yatung, un villaggio a circa 3000 metri, nel Tibet.

Naturalmente non eravate solo, vero?




No, avevo cinque tibetani con me. Il più anziano era Tam-cho (La Nobile Fede) di 53 anni. Piccolo di statura ma evidentemente assai forte ancora. Infinitamente più civile degli altri; salutava con rispetto, sorrideva e s’inchinava; anche nel Tibet i giovani sono rozzi, non conoscono più le maniere...

E voi, scusate, siete vecchio?

Non proprio ancora; infatti sono rozzo e non conosco molto le maniere...

Si vede, si vede; continuate...

Tam-cho portava i capelli lunghi riuniti in due trecce avvolte intorno al capo. Vestiva completamente alla tibetana. Calzari di cencio con suole di cuoio (hlam), zimarra di lana (chuba), camicia bianca di cotone; all’orecchio sinistro portava un grosso orecchino circolare (along), alla vita un pugnale (tri). Si notava subito ch’era pio, perché aveva un rosario (phreng-pa) avvolto intorno al polso ed un piccolo scrigno alla vita (detto kau) con una minuscola statuetta del Guru-Rimpoche...




Di chi?

Del santo che introdusse il buddismo nel Tibet nell’VIII secolo della nostra era.

Va bene, continuate...

Gli chiesi se appartenesse alla setta Nima-pa, la quale venera particolarmente il Guru; mi rispose di sì. Sembrò felicissimo che lo straniero s’interessasse alla sua religione... Gli altri lo chiamavano apha, papà, ed anch’io finii per fare altrettanto.

Gli altri com’erano? Siate pure più stringato.

In ordine d’età seguiva Si-thar, 30 anni: un giovane alto, forte, dai tratti abbastanza fini. Coi capelli lunghi. Sapeva leggere un poco e scrivere; era stato da ragazzo in un gompà...




Un cosa?

Un monastero. Nelle vesti di lui, quasi totalmente tibetane, cominciava ad infiltrarsi un elemento straniero; le scarpe. Poi c’erano i giovani. Ten-zin di 27 anni; Tsi-rindi 24 e Dorje di 18 (figlio di Tamchó). Ten-zin aveva ancora i capelli lunghi (e trecce), gli altri se li erano tagliati conforme alle nuove mode. Interessante a notarsi: passando dal più vecchio al più giovane, il vestito tibetano, dalla purezza in Tamchó, soffriva una prima contaminazione in Si-thar (scarpe americane), una assai maggiore in Ten-zin (scarpe americane, fasce, maglietta da G. I.) per restar del tutto spodestato sui corpi dei giovanissimi, che portavano degli orribili avanzi indo-gurka-americani. Tutti sino all’ultimo (Dorje) avevano però degli amuleti; segno ch’è più facile cambiar di moda che di fede, e che la sartoria è più labile della cosmologia.

Insomma voi sareste un tradizionalista?

Se lo permettete...

Ci consiglieremo con la presidenza... Continuate.




Yatung è un paesotto di 450 abitanti circa, costruito al confluire di due valli, una che sale verso Lhasa, e l’altra, assai meno frequentata, che si perde contro la muraglia ghiacciata del Pauhun-ri, un colosso di 7000 metri poco più a nord. Prendemmo la valle meno frequentata, detta Kam-phu. Il paesaggio era alpestre, i fianchi delle montagne in parte scoperti e rocciosi, in parte afforestati ad abeti o larici. Il tempo era incerto, ma qualche occhio di sole baciava la valle.

Giovanotto, gli occhi non baciano; meno immagini e più sostanza...

Va bene. Dopo un chilometro la valle si divideva di nuovo in due; abbandonammo il corso principale del fiume e risalimmo il Tank-kar-chu (Fiume del piano bianco. Il sentiero era stretto, saliva, scendeva, traversava piccole paludi nella foresta, scavalcava immensi tronchi d’albero abbattuti da chissà quali terribili tempeste, sfiorava il torrente o s’inerpicava per un fianco della valle ad evitare strapiombi di roccia; era tipico di tutti i sentieri in questa parte dell’Imalaia. I ponti erano buoni, solidi, costruiti da poco con grosse travi profumate d’abete squadrate con l’ascia.

Ricordi particolari nessuno?




Sissignore, uno, le fragole. Deliziose! Ed in tale abbondanza! Ne mangiai delle migliaia e poi le monache...

Come, mangiate monache voi?

No, volevo dire che poi incontrai due monache...

Giovani, carine? Dite su, qualche particolare...

La più giovane poteva avere 50 anni, e la più pulita non s’era certo lavata dopo la fine del secolo scorso. Comunque due simpatiche donnette piene di buoni consigli per la strada da farsi, riguardo alle erbe velenose da evitare, e sulla maniera di salvarsi l’anima. Venivano dal, e tornavano al, Chumbi Ri-tra, un piccolo eremitaggio non lontano da Yatung. Conoscevano benissimo il mio amico lama Chó-Pel, un mingherlino asceta tutto sorrisi che non ero mai riuscito a fotografare bene mentre mangiava il riso nella sua coppa formata da una calotta di cranio umano.

Abitudini strane i vostri amici!




Un modo come un altro per ricordare a se stessi che tutto passa, eccetera. Ben presto il tempo si guastò. Ebbe inizio una pioggia. La foresta divenne impressionantemente cupa. Ero andato avanti. Mi fermai sotto un albero dalle radici come serpi o tentacoli intorno a dei pietroni coperti di licheni; bellissimo. Passò molto tempo senza che i portatori si facessero vivi. Che avessi sbagliato strada? Finalmente comparve Si-thar tutto ansimante: ‘Sahib piove, non ci sono più ripari per altre dieci miglia, siamo stanchi, abbiamo trovato un’ottima capanna...’. La solita storia! Bisognerebbe sempre fare i patti prima e ben chiari. I portatori sono pagati a giornata, tendono dunque a frazionare il tragitto in un numero fantastico di ‘giornate’; sarebbero felici di andare come lumache. Comunque non mi restò che cedere. Del resto pioveva in maniera disgustosa ed ero già tutto bagnato. Trovai i portatori rifugiati in una capanna...

Parlate brevemente della capanna. Ma ricordatevi che siamo qui peraltro; vogliamo sesti gradi, non capanne. Capito?




Sissignore. Scusatemi. La capanna era una capanna. Quella classica da cuore e muro di sassi sconnessi; tetto in rozze travi di legno. Venne acceso un fuoco; ebbe inizio il patire degli occhi. Cenai con i portatori e come loro. Tè tibetano(acqua bollente, tè, burro, sale, soda, il tutto emulsionato), e tsampà (farina d’orzo rostita) con burro...

Siete disgustoso, basta.

Va bene. Dopo cena Si-Thar, l’allegro ed il menestrello della compagnia, tirò fuori una bottiglia di arak (distillato dalla birra di orzo) e bevemmo. Cantammo anche. Poi mi feci insegnare i nomi tibetani di non so quante cose, della cucina, del vestiario, delle cose di casa. Infine parlammo della gente di Yatung. Il tempo passava piano piano. Gran risate quando si nominavano certe ragazze. La Memà? Facile ma brutta. La Drolmà? Carina ma così smorfiosa... Solo Tam-cho, la Nobile Fede, stava in un angolo col rosario in mano ripetendo Om mani pad me hum, sdegnando queste chiacchiere...

Com’era la pioggia?

Commendevolmente persistente; silenziosamente instancabile.




Come fu il tramonto?

Non ci fu tramonto. Il mondo s’incupì piano piano e ci trovammo nel ventre della notte.

E il giorno dopo?

Il 26 luglio si affacciò sulla terra con sole e sereno. Partii avanti gli altri. ‘Stia attento agli orsi’, mi raccomandò Tam-chó. A proposito Tam-cho fu il primo a svegliarsi, il più solerte, il più ordinato, il più tutto. Una perla; non diceva neppure: ‘ai miei tempi’!

Descriveteci il sentiero e la valle.

La valle per un tratto fu piana; si traversavano delle piccole paludi fra gli abeti smisurati; dovetti levarmi le scarpe e camminare scalzo; l’acqua era gelida e affondavo spesso fino a mezza gamba. Non lontano il torrente scrosciava selvaggio.

Cosa vi ricorda un torrente?




La vita umana! Sorgente, nascita; un tenero rivo tra fiori e prati; l’infanzia. Poi le acque si fanno forza, crescono e si precipitano a valle; è la gioventù felice e gagliarda, ira e voluttà di danze nello scintillio del sole. Sposalizi rumorosi con gli affluenti. Intanto grado a grado il pendio si fa meno forte; il torrente diviene fiume; il giovane si trasforma in uomo. Adesso il corso è più regolare; di pazzo si fa possente, da bello si fa fertile alle terre ed alle industrie; è la maturità serena e posata, conquistatrice; non più la gioia e la fantasia della fuga, dello sghiribizzo, della bellezza in quanto tale, ma lavoro e scopo. Infine, impercettibilmente, la foce. Tristezze lagunari della vecchiaia, e dolcezze lagunari della vecchiaia. Il riconfondersi con le acque originarie...

Basta col torrente. Parlateci della foresta. A cosa vi fa pensare una foresta?




Ai popoli, naturalmente! Ecco la folla degli alberi nel sole, nella gioia del vento, nelle tristezze della nebbia, nei silenzi adamantini dell’alba. La foresta è come un popolo in tutto quello che, di questo popolo, vive alle chiarezze del giorno: la selva degli uomini, le cattedrali degli architetti e dei matematici, le flotte dei navigatori, i canti dei poeti, le visioni dei pittori... Ma dovunque c’è un bosco, nascosta e profonda sottoterra, in una perenne notte silenziosa, avete mai pensato che vive la foresta inversa? La foresta inversa delle radici; selva di rami capofitti che nessun vento muove mai, che nessun sole fa brillare, che non conosce lo splendore della neve o il canto degli uccelli, gli echi dei boscaioli o i gridi dei bambini; foresta sepolta, misteriosa, immobile, che cresce lentamente facendosi strada, come una miriade di serpi, fra sasso e sasso; fra zolla e zolla: eppure foresta della linfa, delle origini, della vita. E così nei popoli, la foresta inversa, per sempre celata agli occhi, potente, oscura e terribile, degli impulsi primordiali, delle tradizioni ataviche, delle di speranti voglie che non salgono alla coscienza ma condizionano gli atti, scatenano le guerre, urgono cose atroci. O spingono a sacrifici ed eroismi bellissimi e folli...

Va bene. Qui stiamo divagando. Torni al sentiero lungo il Tangkarchu.




Sissignore. Il sentiero mi conduceva tra visioni stupende nella gioia dei primi raggi di sole. Abeti immensi, sottobosco di rododendri arborei. Luoghi da Sigfrido, da Indra. Tra i rami pendevano licheni come lunghissime barbe verdoline. Signore, debbo parlare per un momento dei licheni. Uno spettacolo divino! La rugiada s’era fermata silenziosa nella notte su quei veli ed ogni pianta era ingioiellata d’effimere collane, di tremuli diademi, di queste perle nate da un raggio di sole... Foresta fatata. Foresta buona. Luogo augusto e solenne, pieno di poesia e dolcezza. Terra da incontri, da addii, da consessi leggendari; vita da celebrarsi in poemi epici. Iliade o Mahabharata. Pregai tanto che mi potesse apparire una fata; a cosa potevano servire tutte quelle collane, se no?

Bene, bene... Non cercate di commuoverci con fanciullaggini. Incontraste qualcuno? 




Sissignore. Un brutto incontro. In un tratto dove il sentiero era più stretto e correva lungo un picco fra il monte e il torrente, apparvero due grossi tibetani che scendevano a valle con dei carichi sulle spalle: appena mi videro sguainarono i loro coltellacci butanesi lunghi quaranta centimetri. Non avevo pistola, solo un coltello uguale ai loro (ma avrei saputo maneggiarlo?). Il momento fu antipatico. Erano malintenzionati o avevano semplicemente paura di me, dello straniero in quelle parti fuori mano? Non restava che la diplomazia. ‘Buongiorno — dissi —, dove si va per questo sentiero? C’è ancora molto fino alla tenda dei nomadi? I miei portatori stanno arrivando e sono stanchi, dove possono riposarsi?’.


(Foto & contributi dalla Spedizione del Duca di Spoleto il quale mi ha allietato della sua nobile compagnia per sì vasta immensa Geografia rinata... giacché ora la Via ingombra di... teschi e ossa se pur principiare da vivi ugual medesimo passo... Ceda lo passo or dunque così come si era soliti nel vero Tempo andato non vorremmo andar per titolati titoli e nobili dimenticati? Ammiri contempli la bellezza andata e persa...)











   

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