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Fughe confini e deliri... (11/2)
Prosegue con...:
Ceda lo Passo... (14)
Anche in formato PDF fotoblog... (in uso per tutti i nuovi praticanti)
Che cos’è
il Tang-kar la?
E’ un passo
fra il Tibet e il Sikkim, nell’Imàlaia orientale, alto poco meno di 5000 metri...
Ebbene,
cosa c’è di straordinario? Giovanotto pensate che la rivista è una cosa seria;
non veniteci a raccontare di queste bazzecole quando abbiamo pareti di sesto
grado per la testa...
Scusate,
scusate... volevo appunto dire che non ci sono difficoltà alpinistiche...
E allora
andatevene con Dio, lasciateci al nostro lavoro...
Ma ci sono
difficoltà politiche... Ascoltate, voi non conoscete i sesti gradi che vanno
chiodati con permessi e staffati con contropermessi; il Tibet è tutto un sesto
grado.
Va bene, va
bene; così siete riuscito a spuntarla con questo strapiombo diplomatico del
Tanghar-la?
Sissignore,
grazie ad una vecchia amicizia col maharagia del Sikkim...
Be’ be’ non
c’è bisogno di vantarsi tanto. Quando partiste?
Il 25
luglio di quest’anno, da Yatung, un villaggio a circa 3000 metri, nel Tibet.
Naturalmente
non eravate solo, vero?
No, avevo
cinque tibetani con me. Il più anziano era Tam-cho (La Nobile Fede) di 53 anni.
Piccolo di statura ma evidentemente assai forte ancora. Infinitamente più
civile degli altri; salutava con rispetto, sorrideva e s’inchinava; anche nel
Tibet i giovani sono rozzi, non conoscono più le maniere...
E voi,
scusate, siete vecchio?
Non proprio
ancora; infatti sono rozzo e non conosco molto le maniere...
Si vede, si
vede; continuate...
Tam-cho
portava i capelli lunghi riuniti in due trecce avvolte intorno al capo. Vestiva
completamente alla tibetana. Calzari di cencio con suole di cuoio (hlam),
zimarra di lana (chuba), camicia bianca di cotone; all’orecchio sinistro
portava un grosso orecchino circolare (along), alla vita un pugnale (tri). Si
notava subito ch’era pio, perché aveva un rosario (phreng-pa) avvolto intorno al
polso ed un piccolo scrigno alla vita (detto kau) con una minuscola statuetta
del Guru-Rimpoche...
Di chi?
Del santo
che introdusse il buddismo nel Tibet nell’VIII secolo della nostra era.
Va bene,
continuate...
Gli chiesi
se appartenesse alla setta Nima-pa, la quale venera particolarmente il Guru; mi
rispose di sì. Sembrò felicissimo che lo straniero s’interessasse alla sua
religione... Gli altri lo chiamavano apha, papà, ed anch’io finii per fare
altrettanto.
Gli altri
com’erano? Siate pure più stringato.
In ordine d’età
seguiva Si-thar, 30 anni: un giovane alto, forte, dai tratti abbastanza fini.
Coi capelli lunghi. Sapeva leggere un poco e scrivere; era stato da ragazzo in
un gompà...
Un cosa?
Un
monastero. Nelle vesti di lui, quasi totalmente tibetane, cominciava ad
infiltrarsi un elemento straniero; le scarpe. Poi c’erano i giovani. Ten-zin di
27 anni; Tsi-rindi 24 e Dorje di 18 (figlio di Tamchó). Ten-zin aveva ancora i
capelli lunghi (e trecce), gli altri se li erano tagliati conforme alle nuove
mode. Interessante a notarsi: passando dal più vecchio al più giovane, il
vestito tibetano, dalla purezza in Tamchó, soffriva una prima contaminazione in
Si-thar (scarpe americane), una assai maggiore in Ten-zin (scarpe americane,
fasce, maglietta da G. I.) per restar del tutto spodestato sui corpi dei
giovanissimi, che portavano degli orribili avanzi indo-gurka-americani. Tutti
sino all’ultimo (Dorje) avevano però degli amuleti; segno ch’è più facile
cambiar di moda che di fede, e che la sartoria è più labile della cosmologia.
Insomma voi
sareste un tradizionalista?
Se lo permettete...
Ci
consiglieremo con la presidenza... Continuate.
Yatung è un
paesotto di 450 abitanti circa, costruito al confluire di due valli, una che
sale verso Lhasa, e l’altra, assai meno frequentata, che si perde contro la
muraglia ghiacciata del Pauhun-ri, un colosso di 7000 metri poco più a nord.
Prendemmo la valle meno frequentata, detta Kam-phu. Il paesaggio era alpestre, i
fianchi delle montagne in parte scoperti e rocciosi, in parte afforestati ad
abeti o larici. Il tempo era incerto, ma qualche occhio di sole baciava la
valle.
Giovanotto,
gli occhi non baciano; meno immagini e più sostanza...
Va bene.
Dopo un chilometro la valle si divideva di nuovo in due; abbandonammo il corso
principale del fiume e risalimmo il Tank-kar-chu (Fiume del piano bianco. Il
sentiero era stretto, saliva, scendeva, traversava piccole paludi nella foresta,
scavalcava immensi tronchi d’albero abbattuti da chissà quali terribili
tempeste, sfiorava il torrente o s’inerpicava per un fianco della valle ad
evitare strapiombi di roccia; era tipico di tutti i sentieri in questa parte
dell’Imalaia. I ponti erano buoni, solidi, costruiti da poco con grosse travi
profumate d’abete squadrate con l’ascia.
Ricordi
particolari nessuno?
Sissignore,
uno, le fragole. Deliziose! Ed in tale abbondanza! Ne mangiai delle migliaia e
poi le monache...
Come,
mangiate monache voi?
No, volevo
dire che poi incontrai due monache...
Giovani,
carine? Dite su, qualche particolare...
La più
giovane poteva avere 50 anni, e la più pulita non s’era certo lavata dopo la
fine del secolo scorso. Comunque due simpatiche donnette piene di buoni
consigli per la strada da farsi, riguardo alle erbe velenose da evitare, e
sulla maniera di salvarsi l’anima. Venivano dal, e tornavano al, Chumbi Ri-tra,
un piccolo eremitaggio non lontano da Yatung. Conoscevano benissimo il mio
amico lama Chó-Pel, un mingherlino asceta tutto sorrisi che non ero mai
riuscito a fotografare bene mentre mangiava il riso nella sua coppa formata da
una calotta di cranio umano.
Abitudini
strane i vostri amici!
Un modo
come un altro per ricordare a se stessi che tutto passa, eccetera. Ben presto
il tempo si guastò. Ebbe inizio una pioggia. La foresta divenne
impressionantemente cupa. Ero andato avanti. Mi fermai sotto un albero dalle
radici come serpi o tentacoli intorno a dei pietroni coperti di licheni;
bellissimo. Passò molto tempo senza che i portatori si facessero vivi. Che avessi
sbagliato strada? Finalmente comparve Si-thar tutto ansimante: ‘Sahib piove,
non ci sono più ripari per altre dieci miglia, siamo stanchi, abbiamo trovato
un’ottima capanna...’. La solita storia! Bisognerebbe sempre fare i patti prima
e ben chiari. I portatori sono pagati a giornata, tendono dunque a frazionare
il tragitto in un numero fantastico di ‘giornate’; sarebbero felici di andare
come lumache. Comunque non mi restò che cedere. Del resto pioveva in maniera
disgustosa ed ero già tutto bagnato. Trovai i portatori rifugiati in una capanna...
Parlate
brevemente della capanna. Ma ricordatevi che siamo qui peraltro; vogliamo sesti
gradi, non capanne. Capito?
Sissignore.
Scusatemi. La capanna era una capanna. Quella classica da cuore e muro di sassi
sconnessi; tetto in rozze travi di legno. Venne acceso un fuoco; ebbe inizio il
patire degli occhi. Cenai con i portatori e come loro. Tè tibetano(acqua
bollente, tè, burro, sale, soda, il tutto emulsionato), e tsampà (farina d’orzo
rostita) con burro...
Siete
disgustoso, basta.
Va bene.
Dopo cena Si-Thar, l’allegro ed il menestrello della compagnia, tirò fuori una
bottiglia di arak (distillato dalla birra di orzo) e bevemmo. Cantammo anche.
Poi mi feci insegnare i nomi tibetani di non so quante cose, della cucina, del
vestiario, delle cose di casa. Infine parlammo della gente di Yatung. Il tempo
passava piano piano. Gran risate quando si nominavano certe ragazze. La Memà?
Facile ma brutta. La Drolmà? Carina ma così smorfiosa... Solo Tam-cho, la
Nobile Fede, stava in un angolo col rosario in mano ripetendo Om mani pad me
hum, sdegnando queste chiacchiere...
Com’era la pioggia?
Commendevolmente
persistente; silenziosamente instancabile.
Come fu il
tramonto?
Non ci fu
tramonto. Il mondo s’incupì piano piano e ci trovammo nel ventre della notte.
E il giorno
dopo?
Il 26
luglio si affacciò sulla terra con sole e sereno. Partii avanti gli altri. ‘Stia
attento agli orsi’, mi raccomandò Tam-chó. A proposito Tam-cho fu il primo a
svegliarsi, il più solerte, il più ordinato, il più tutto. Una perla; non
diceva neppure: ‘ai miei tempi’!
Descriveteci
il sentiero e la valle.
La valle
per un tratto fu piana; si traversavano delle piccole paludi fra gli abeti
smisurati; dovetti levarmi le scarpe e camminare scalzo; l’acqua era gelida e
affondavo spesso fino a mezza gamba. Non lontano il torrente scrosciava
selvaggio.
Cosa vi
ricorda un torrente?
La vita
umana! Sorgente, nascita; un tenero rivo tra fiori e prati; l’infanzia. Poi le
acque si fanno forza, crescono e si precipitano a valle; è la gioventù felice e
gagliarda, ira e voluttà di danze nello scintillio del sole. Sposalizi rumorosi
con gli affluenti. Intanto grado a grado il pendio si fa meno forte; il
torrente diviene fiume; il giovane si trasforma in uomo. Adesso il corso è più
regolare; di pazzo si fa possente, da bello si fa fertile alle terre ed alle industrie;
è la maturità serena e posata, conquistatrice; non più la gioia e la fantasia
della fuga, dello sghiribizzo, della bellezza in quanto tale, ma lavoro e
scopo. Infine, impercettibilmente, la foce. Tristezze lagunari della vecchiaia,
e dolcezze lagunari della vecchiaia. Il riconfondersi con le acque
originarie...
Basta col
torrente. Parlateci della foresta. A cosa vi fa pensare una foresta?
Ai popoli,
naturalmente! Ecco la folla degli alberi nel sole, nella gioia del vento, nelle
tristezze della nebbia, nei silenzi adamantini dell’alba. La foresta è come un
popolo in tutto quello che, di questo popolo, vive alle chiarezze del giorno:
la selva degli uomini, le cattedrali degli architetti e dei matematici, le
flotte dei navigatori, i canti dei poeti, le visioni dei pittori... Ma dovunque
c’è un bosco, nascosta e profonda sottoterra, in una perenne notte silenziosa, avete
mai pensato che vive la foresta inversa? La foresta inversa delle radici; selva
di rami capofitti che nessun vento muove mai, che nessun sole fa brillare, che non
conosce lo splendore della neve o il canto degli uccelli, gli echi dei boscaioli
o i gridi dei bambini; foresta sepolta, misteriosa, immobile, che cresce
lentamente facendosi strada, come una miriade di serpi, fra sasso e sasso; fra
zolla e zolla: eppure foresta della linfa, delle origini, della vita. E così
nei popoli, la foresta inversa, per sempre celata agli occhi, potente, oscura e
terribile, degli impulsi primordiali, delle tradizioni ataviche, delle di speranti
voglie che non salgono alla coscienza ma condizionano gli atti, scatenano le
guerre, urgono cose atroci. O spingono a sacrifici ed eroismi bellissimi e
folli...
Va bene.
Qui stiamo divagando. Torni al sentiero lungo il Tangkarchu.
Sissignore.
Il sentiero mi conduceva tra visioni stupende nella gioia dei primi raggi di
sole. Abeti immensi, sottobosco di rododendri arborei. Luoghi da Sigfrido, da
Indra. Tra i rami pendevano licheni come lunghissime barbe verdoline. Signore, debbo
parlare per un momento dei licheni. Uno spettacolo divino! La rugiada s’era
fermata silenziosa nella notte su quei veli ed ogni pianta era ingioiellata d’effimere
collane, di tremuli diademi, di queste perle nate da un raggio di sole... Foresta
fatata. Foresta buona. Luogo augusto e solenne, pieno di poesia e dolcezza.
Terra da incontri, da addii, da consessi leggendari; vita da celebrarsi in
poemi epici. Iliade o Mahabharata. Pregai tanto che mi potesse apparire una
fata; a cosa potevano servire tutte quelle collane, se no?
Bene,
bene... Non cercate di commuoverci con fanciullaggini. Incontraste qualcuno?
Sissignore. Un brutto
incontro. In un tratto dove il sentiero era più stretto e correva lungo un
picco fra il monte e il torrente, apparvero due grossi tibetani che scendevano
a valle con dei carichi sulle spalle: appena mi videro sguainarono i loro coltellacci
butanesi lunghi quaranta centimetri. Non avevo pistola, solo un coltello uguale
ai loro (ma avrei saputo maneggiarlo?). Il momento fu antipatico. Erano
malintenzionati o avevano semplicemente paura di me, dello straniero in quelle
parti fuori mano? Non restava che la diplomazia. ‘Buongiorno — dissi —, dove si
va per questo sentiero? C’è ancora molto fino alla tenda dei nomadi? I miei
portatori stanno arrivando e sono stanchi, dove possono riposarsi?’.
(Foto & contributi dalla Spedizione del Duca di Spoleto il quale mi ha allietato della sua nobile compagnia per sì vasta immensa Geografia rinata... giacché ora la Via ingombra di... teschi e ossa se pur principiare da vivi ugual medesimo passo... Ceda lo passo or dunque così come si era soliti nel vero Tempo andato non vorremmo andar per titolati titoli e nobili dimenticati? Ammiri contempli la bellezza andata e persa...)
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