Precedenti capitoli d'una breve antologia...:
Del fu' spugna senza più River (11/1)
Prosegue con una...:
Frequento le Alpi da cinquant’anni ho
visto cose che nessuno mai...
Non per
merito naturalmente, e neanche per scelta. Per caso. Sono semplicemente nato
sotto la bomba del progresso, il boom, quando tutto sembrava possibile e
nessuno immaginava che cosa sarebbe stato del nostro piccolo mondo.
Il futuro
era fantascienza.
L’accelerazione
climatica ed economica era talmente imprevista e imprevedibile che oggi
stentiamo a raccapezzarci, perché ci è mancato il tempo di metabolizzare il
cambiamento. Nessun’altra generazione della storia ha assistito a una
trasformazione così impetuosa e fuori misura. Saliamo in montagna, sulle Alpi.
Veniamo al
riassunto delle puntate precedenti:
cinquant’anni
fa le Alpi di tremila metri erano bianche di neve, adesso sono grigie e
stempiate. La Terra ha la febbre e i ghiacciai la misurano. Con un ulteriore
aumento di temperatura di due gradi – promettono i glaciologi – nel 2050 ci
resteranno forse dei ricordi di ghiaccio a quattromila metri. Sotto avremo le
foto d’epoca. Il paesaggio innevato che lucidava gli occhi dei viaggiatori
romantici sarà uno scenario mediterraneo. Cinquant’anni
fa cominciava l’ultimo capitolo dell’emigrazione montanara denunciata da
Revelli, ma la civiltà alpina era ancora perfettamente impressa nelle
abitazioni, nella cultura e nel paesaggio.
Adesso abbiamo cimiteri di case contadine e la vegetazione si è mangiata ogni altra forma di vita: terrazzamenti, campi, pascoli, memorie. Comanda il verde. Le Alpi hanno cambiato colore con l’avanzata della foresta e la ritirata della neve.
Cinquant’anni
fa
l’industria dello sci era una promessa di divertimento e benessere per tutti,
adesso lo sci è diventato uno sport elitario e contro natura, le piste di
discesa s’imbiancano a colpi di cannone e i poveri pagano la neve finta dei
ricchi.
Cinquant’anni
fa il
turismo portava la città in montagna, adesso i proprietari dei monolocali li
ridarebbero indietro perché quasi nessuno vuole più svegliarsi in un guscio di
cemento.
Il viaggiatore che parte per la montagna lo fa perché cerca la montagna, diceva Amé Gorret prima che i condomini salissero a duemila metri.
Cinquant’anni
fa la Val
Maira e la Valpelline erano le cenerentole delle Alpi occidentali, adesso i
turisti esigenti prenotano l’emozione del silenzio in Val Maira e in
Valpelline. Uno dei B&B più ricercati è l’Alpe Rebelle di Bionaz: vuol dire
alpe ribelle, per chi non sa il francese. L’abbé Gorret si troverebbe benissimo.
Cinquant’anni
fa una gita
in montagna era un viaggio incerto, adesso si parte sapendo che tempo fa e che
maltempo farà. Possiamo chiamare l’elicottero in ogni momento: ‘Sono stanco,
venitemi a prendere’. Si muore come prima ma incolpando la montagna assassina,
perché il patinato mondo della safety and security non prevede zone d’ombra.
L’unica avventura prevista è quella sicura, cioè un controsenso.
Cinquant’anni fa qualcuno sognava l’Europa unita e nel sogno immaginava di aprire la frontiera alpina alle merci e alle persone; adesso c’è chi vorrebbe richiuderla con recinti e muri, per impedire il passaggio di chi ha bisogno e viene da molto lontano.
L’elenco
delle mutazioni alpine potrebbe continuare per molte pagine, però mi fermo qui
e formulo la domanda: che cosa ci resta dell’alpe
ribelle?
È solo una
bella favola del passato o si può ipotizzare una sceneggiatura per il futuro?
Per
rispondere servono ancora due scatti: uno zoom sulle Alpi e un grandangolo
sulla pianura.
La prima fotografia ci dice che le Alpi sono una ruga della superficie terrestre, anche se a noi sembrano altissime. Le Alpi sono un concentrato di mondo. Basta mezz’ora di automobile per salire dalle ultime case di una qualsiasi valle all’anticamera dei ghiacciai, o di quel che ne rimane: da Ceresole Reale al Colle del Nivolet, dall’altipiano di Goms al Grimselpass, dalle terme di Bormio al Passo dello Stelvio.
Quella
distratta mezz’ora al volante corrisponde – sul piano orizzontale – ai mille
chilometri che separano i paesaggi antropizzati dell’Europa centro-meridionale
dalle distese gelate della tundra artica.
La seconda fotografia ci dice che le Alpi svettano sempre su un mare di smog, ma non basta più tuffarsi in quel mare per trovare un posto fisso e uno stipendio garantito. Le fabbriche chiudono e il precariato è dappertutto, in centro e in periferia. L’equazione città-lavoro e montagna-svago si è fatta sempre più imperfetta. C’è chi scende in pianura per emanciparsi dal passato e chi sale in montagna a inventarsi un futuro.
Chi sale è
il nuovo montanaro che ha scelto di abitare le terre alte, e il salire è già azione
ribelle di per sé perché sovverte le leggi della fisica. Montanaro o alpinista
che sia, chi sfida la gravità va sempre in direzione contraria. Inoltre il
nuovo montanaro porta linfa vitale perché ha deciso liberamente di vivere in un
ambiente difficile, spinto da una motivazione etica ed ecologica.
È montanaro per vocazione, non per nascita o condanna. Probabilmente sarà l’unico abitante delle Alpi di domani. I nuovi montanari sono molto critici verso la macchina del consumo e molto affascinati dai controvalori della montagna: la lentezza, l’immaterialità, il silenzio, la vita comunitaria, i ritmi naturali. Spesso sono più conservatori dei vecchi montanari perché difendono quei valori, li cercano, li rinnovano.
Certi
principi di antica forgia, debitamente attualizzati, diventano antidoti alla civiltà
utilitarista, individualista e condannata allo spreco. Avanzano risposte scomode
alla prosa insostenibile del mondo. Altro che rimpianti!
La lentezza
e il risparmio sono frecce lanciate nel futuro.
Anche se lo stereotipo le vorrebbe isolate e arcaiche, un posto per vecchi, le Alpi sono montagne giovani e oggetto di giovani desideri. Due o tre secoli, non di più. I pionieri che le hanno popolate erano giovani come gli alpinisti che le hanno esplorate e scalate. Perfino i soldati che persero la speranza e la vita sulle Alpi nel Quindici-diciotto erano ragazzi di vent’anni. È su quei giovani che dei vecchi hanno costruito il mito dell’Alpe eroica, della morte giusta, della distruzione legalizzata, ed è su altri giovani che altri vecchi hanno cucito il vestito della montagna da consumare.
Gli unici
aggettivi capaci di futuro sopra i mille metri d’altezza sono giovane e nuovo,
infatti gli scenari della ribellione appartengono già ai nuovi abitanti.
I valligiani Doc hanno rinunciato da
tempo all’indignazione e allo stupore, mostrandosi cittadini compiacenti e
consumatori ubbidienti. Intanto tutto si mescola e ogni cosa si confonde.
Vecchio e nuovo, indigeno e forestiero, montanaro e cittadino, autentico e falso
sono opposizioni destinate a dissolversi come neve al sole.
Montanari
non si nasce, si diventa.
Idoneità e
autentificazione non passano dal certificato di residenza ma dalle nostre
scelte e dalle nostre visioni, dal coraggio di sognare e fare. Ogni ambiente
pone problemi diversi, naturalmente. Chi vive sulle Alpi ha bisogno di servizi
urbani, dalla banda larga alla scuola per i bambini; chi vive in città ha
bisogno di aria e acqua pulite, due benedizioni che scendono dalla montagna.
L’interscambio è evidente, di solito a vantaggio della città, ma la montagna ha un vantaggio: anticipa le novità.
Le terre più isolate, ripide ed estreme sono degli acceleratori di cambiamento, un’infallibile cartina di tornasole per leggere e interpretare le trasformazioni in arrivo. L’allarme scende dalle Alpi. Quasi tutti i fenomeni naturali che interessano le valli e le pianure – frane, squilibri idrogeologici, alluvioni, siccità – hanno origine sulle montagne, che informano le terre basse sul loro destino.
Lo storico
dell’Ottocento Jules Michelet scrive
che
i ghiacciai sono un termometro formidabile su cui
occorre sia sempre puntato l’occhio del mondo intero, del mondo morale come del
mondo politico,
…e che
il destino che verrà, la sorte dell’Europa, i
tempi di pace e i bruschi cataclismi che rovesciano gli imperi e travolgono le
dinastie si leggono sulla fronte del Monte Bianco.
Questo
dovrebbe indurci a sperimentare almeno nelle valli il più lento più profondo
più dolce vanamente auspicato da Alexander
Langer, a cominciare dal turismo che è il primo incontro tra città e
montagna.
Il turismo
intensivo, al contrario, segue modelli di promozione e sviluppo applicabili
dalle Alpi a Dubai, dove si può sciare anche in mezzo al deserto. L’ambiente
non fa alcuna differenza, la neve è artificiale e la montagna è solo un bel
piano inclinato.
Come ogni
industria pesante il turismo di massa ha bisogno di crescere continuamente per
non morire. A dispetto della crisi economica, del costo dell’energia, del
riscaldamento globale, dell’invecchiamento della popolazione, e anche della
crisi culturale del vecchio modo consumista e passivo di fare montagna,
l’industria del turismo è costretta a investire ininterrottamente in nuovi
impianti, nuovi cannoni, nuove offerte e nuove attrazioni, mangiandosi una
bella fetta di finanziamenti pubblici.
Gli esperimenti degli ultimi cinquant’anni ci insegnano con la chiarezza dell’aria di montagna che il turismo dolce e l’agricoltura pulita, sweet and slow, sono l’unico futuro possibile per le Alpi, a patto che le Alpi non si arrendano al penoso ruolo di periferia urbana, di parco giochi della Vecchia Europa o di semplice impedimento geografico. Una gibbosità della terra da attraversare in galleria o a palpebre abbassate, come facevano i pavidi viaggiatori del Settecento sugli antichi valichi del Grand Tour.
Sono stati
gli artisti romantici ad aprire le tendine delle carrozze e allungare lo
sguardo ribelle, per accorgersi di quanto fosse bello il disordine alpino e quanta
gioia scaturisse dal paesaggio indocile. Le Alpi rompevano le regole dell’armonia
classica; erano il grido trasgressivo della geologia contro la natura conformista
delle pianure; chi amava le montagne praticava una disubbidienza geografica e
culturale.
E se fosse
ancora il senso della montagna?
Se
rimanesse quello il messaggio?
Sono cambiati i tempi, i linguaggi e le generazioni, abbiamo riempito molti vuoti e dissipato troppa bellezza, ma ci restano quelle creste profilate come domande nel cielo. Schiaffi di pietra alla società liquida. Ostinatamente provocanti, disobbedienti anche al nostro disincanto. Se non ci parlano di cose alte, se non ci esortano una volta ancora ad alzare gli occhi e aprire la mente per guardare oltre, allora le Alpi non esistono.
(E. Camanni, Una coperta di neve)
Nessun commento:
Posta un commento