CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
30 MAGGIO 1924

domenica 25 aprile 2021

DAL PASSO RALLENTATO AL RIAVVOLGIMENTO VELOCE (12)

 










Precedenti capitoli d'una breve antologia...:


Del fu' spugna senza più River (11/1)


Prosegue con una...:


Eterna fame di luce (13/4)









Frequento le Alpi da cinquant’anni ho visto cose che nessuno mai...       

 

Non per merito naturalmente, e neanche per scelta. Per caso. Sono semplicemente nato sotto la bomba del progresso, il boom, quando tutto sembrava possibile e nessuno immaginava che cosa sarebbe stato del nostro piccolo mondo.

 

Il futuro era fantascienza.

 

L’accelerazione climatica ed economica era talmente imprevista e imprevedibile che oggi stentiamo a raccapezzarci, perché ci è mancato il tempo di metabolizzare il cambiamento. Nessun’altra generazione della storia ha assistito a una trasformazione così impetuosa e fuori misura. Saliamo in montagna, sulle Alpi.




 In cinquant’anni il film è scappato dal passo rallentato al riavvolgimento veloce.

 

Veniamo al riassunto delle puntate precedenti:

 

cinquant’anni fa le Alpi di tremila metri erano bianche di neve, adesso sono grigie e stempiate. La Terra ha la febbre e i ghiacciai la misurano. Con un ulteriore aumento di temperatura di due gradi – promettono i glaciologi – nel 2050 ci resteranno forse dei ricordi di ghiaccio a quattromila metri. Sotto avremo le foto d’epoca. Il paesaggio innevato che lucidava gli occhi dei viaggiatori romantici sarà uno scenario mediterraneo. Cinquant’anni fa cominciava l’ultimo capitolo dell’emigrazione montanara denunciata da Revelli, ma la civiltà alpina era ancora perfettamente impressa nelle abitazioni, nella cultura e nel paesaggio.




Adesso abbiamo cimiteri di case contadine e la vegetazione si è mangiata ogni altra forma di vita: terrazzamenti, campi, pascoli, memorie. Comanda il verde. Le Alpi hanno cambiato colore con l’avanzata della foresta e la ritirata della neve.

 

Cinquant’anni fa l’industria dello sci era una promessa di divertimento e benessere per tutti, adesso lo sci è diventato uno sport elitario e contro natura, le piste di discesa s’imbiancano a colpi di cannone e i poveri pagano la neve finta dei ricchi.

 

Cinquant’anni fa il turismo portava la città in montagna, adesso i proprietari dei monolocali li ridarebbero indietro perché quasi nessuno vuole più svegliarsi in un guscio di cemento.




Il viaggiatore che parte per la montagna lo fa perché cerca la montagna, diceva Amé Gorret prima che i condomini salissero a duemila metri.

 

Cinquant’anni fa la Val Maira e la Valpelline erano le cenerentole delle Alpi occidentali, adesso i turisti esigenti prenotano l’emozione del silenzio in Val Maira e in Valpelline. Uno dei B&B più ricercati è l’Alpe Rebelle di Bionaz: vuol dire alpe ribelle, per chi non sa il francese. L’abbé Gorret si troverebbe benissimo.

 

Cinquant’anni fa una gita in montagna era un viaggio incerto, adesso si parte sapendo che tempo fa e che maltempo farà. Possiamo chiamare l’elicottero in ogni momento: ‘Sono stanco, venitemi a prendere’. Si muore come prima ma incolpando la montagna assassina, perché il patinato mondo della safety and security non prevede zone d’ombra. L’unica avventura prevista è quella sicura, cioè un controsenso.




Cinquant’anni fa qualcuno sognava l’Europa unita e nel sogno immaginava di aprire la frontiera alpina alle merci e alle persone; adesso c’è chi vorrebbe richiuderla con recinti e muri, per impedire il passaggio di chi ha bisogno e viene da molto lontano.

 

L’elenco delle mutazioni alpine potrebbe continuare per molte pagine, però mi fermo qui e formulo la domanda: che cosa ci resta dell’alpe ribelle?

 

È solo una bella favola del passato o si può ipotizzare una sceneggiatura per il futuro?

 

Per rispondere servono ancora due scatti: uno zoom sulle Alpi e un grandangolo sulla pianura.




La prima fotografia ci dice che le Alpi sono una ruga della superficie terrestre, anche se a noi sembrano altissime. Le Alpi sono un concentrato di mondo. Basta mezz’ora di automobile per salire dalle ultime case di una qualsiasi valle all’anticamera dei ghiacciai, o di quel che ne rimane: da Ceresole Reale al Colle del Nivolet, dall’altipiano di Goms al Grimselpass, dalle terme di Bormio al Passo dello Stelvio.

 

Quella distratta mezz’ora al volante corrisponde – sul piano orizzontale – ai mille chilometri che separano i paesaggi antropizzati dell’Europa centro-meridionale dalle distese gelate della tundra artica.




La seconda fotografia ci dice che le Alpi svettano sempre su un mare di smog, ma non basta più tuffarsi in quel mare per trovare un posto fisso e uno stipendio garantito. Le fabbriche chiudono e il precariato è dappertutto, in centro e in periferia. L’equazione città-lavoro e montagna-svago si è fatta sempre più imperfetta. C’è chi scende in pianura per emanciparsi dal passato e chi sale in montagna a inventarsi un futuro.

 

Chi sale è il nuovo montanaro che ha scelto di abitare le terre alte, e il salire è già azione ribelle di per sé perché sovverte le leggi della fisica. Montanaro o alpinista che sia, chi sfida la gravità va sempre in direzione contraria. Inoltre il nuovo montanaro porta linfa vitale perché ha deciso liberamente di vivere in un ambiente difficile, spinto da una motivazione etica ed ecologica.




È montanaro per vocazione, non per nascita o condanna. Probabilmente sarà l’unico abitante delle Alpi di domani. I nuovi montanari sono molto critici verso la macchina del consumo e molto affascinati dai controvalori della montagna: la lentezza, l’immaterialità, il silenzio, la vita comunitaria, i ritmi naturali. Spesso sono più conservatori dei vecchi montanari perché difendono quei valori, li cercano, li rinnovano.

 

Certi principi di antica forgia, debitamente attualizzati, diventano antidoti alla civiltà utilitarista, individualista e condannata allo spreco. Avanzano risposte scomode alla prosa insostenibile del mondo. Altro che rimpianti!

 

La lentezza e il risparmio sono frecce lanciate nel futuro.




Anche se lo stereotipo le vorrebbe isolate e arcaiche, un posto per vecchi, le Alpi sono montagne giovani e oggetto di giovani desideri. Due o tre secoli, non di più. I pionieri che le hanno popolate erano giovani come gli alpinisti che le hanno esplorate e scalate. Perfino i soldati che persero la speranza e la vita sulle Alpi nel Quindici-diciotto erano ragazzi di vent’anni. È su quei giovani che dei vecchi hanno costruito il mito dell’Alpe eroica, della morte giusta, della distruzione legalizzata, ed è su altri giovani che altri vecchi hanno cucito il vestito della montagna da consumare.

 

Gli unici aggettivi capaci di futuro sopra i mille metri d’altezza sono giovane e nuovo, infatti gli scenari della ribellione appartengono già ai nuovi abitanti.

 

I valligiani Doc hanno rinunciato da tempo all’indignazione e allo stupore, mostrandosi cittadini compiacenti e consumatori ubbidienti. Intanto tutto si mescola e ogni cosa si confonde. Vecchio e nuovo, indigeno e forestiero, montanaro e cittadino, autentico e falso sono opposizioni destinate a dissolversi come neve al sole.




 Il mondo al tempo di internet è piccolo come una scatola di cioccolatini e le persone si spostano più freneticamente delle palline del flipper. Nessuno è più condannato a vivere dove viene al mondo, semmai a partire, sperimentare e scegliere. Siamo tutti montanari; tutti cittadini; tutti sulla stessa barca. Montagna e città, le Alpi e Venezia, appartengono solo a chi le rispetta.

 

Montanari non si nasce, si diventa.

 

Idoneità e autentificazione non passano dal certificato di residenza ma dalle nostre scelte e dalle nostre visioni, dal coraggio di sognare e fare. Ogni ambiente pone problemi diversi, naturalmente. Chi vive sulle Alpi ha bisogno di servizi urbani, dalla banda larga alla scuola per i bambini; chi vive in città ha bisogno di aria e acqua pulite, due benedizioni che scendono dalla montagna. L’interscambio è evidente, di solito a vantaggio della città, ma la montagna ha un vantaggio: anticipa le novità.




Le terre più isolate, ripide ed estreme sono degli acceleratori di cambiamento, un’infallibile cartina di tornasole per leggere e interpretare le trasformazioni in arrivo. L’allarme scende dalle Alpi. Quasi tutti i fenomeni naturali che interessano le valli e le pianure – frane, squilibri idrogeologici, alluvioni, siccità – hanno origine sulle montagne, che informano le terre basse sul loro destino.

 

Lo storico dell’Ottocento Jules Michelet scrive che

 

i ghiacciai sono un termometro formidabile su cui occorre sia sempre puntato l’occhio del mondo intero, del mondo morale come del mondo politico,

 

…e che

 

il destino che verrà, la sorte dell’Europa, i tempi di pace e i bruschi cataclismi che rovesciano gli imperi e travolgono le dinastie si leggono sulla fronte del Monte Bianco.




 Sciogliendosi, i ghiacciai ci scongiurano di frenare, ripensare, correggere il modello di sviluppo, perché sono a rischio le riserve d’acqua e vacillano le certezze dell’umanità. Essendo piccole e fragili, le Alpi sopportano solo cose leggere e delicate. Come dimostra la parabola discendente delle superstizioni dello sci totale, le montagne respingono gli agglomerati a misura di pianura.

 

Questo dovrebbe indurci a sperimentare almeno nelle valli il più lento più profondo più dolce vanamente auspicato da Alexander Langer, a cominciare dal turismo che è il primo incontro tra città e montagna.




 Sulle Alpi è più evidente che altrove che un turismo responsabile è l’opposto del turismo di massa. Il turismo dolce consiste nel valorizzare le differenze e le peculiarità di ogni luogo, dal dialetto alla cucina, dai colori agli odori, dai paesaggi agli assaggi; consiste nello scambio di culture esterne e interne; consiste nel graduale inserimento del visitatore nella realtà locale, rispettandone i tempi, i riti, gli usi, perfino le imperfezioni.

 

Il turismo intensivo, al contrario, segue modelli di promozione e sviluppo applicabili dalle Alpi a Dubai, dove si può sciare anche in mezzo al deserto. L’ambiente non fa alcuna differenza, la neve è artificiale e la montagna è solo un bel piano inclinato.

 

Come ogni industria pesante il turismo di massa ha bisogno di crescere continuamente per non morire. A dispetto della crisi economica, del costo dell’energia, del riscaldamento globale, dell’invecchiamento della popolazione, e anche della crisi culturale del vecchio modo consumista e passivo di fare montagna, l’industria del turismo è costretta a investire ininterrottamente in nuovi impianti, nuovi cannoni, nuove offerte e nuove attrazioni, mangiandosi una bella fetta di finanziamenti pubblici.




Gli esperimenti degli ultimi cinquant’anni ci insegnano con la chiarezza dell’aria di montagna che il turismo dolce e l’agricoltura pulita, sweet and slow, sono l’unico futuro possibile per le Alpi, a patto che le Alpi non si arrendano al penoso ruolo di periferia urbana, di parco giochi della Vecchia Europa o di semplice impedimento geografico. Una gibbosità della terra da attraversare in galleria o a palpebre abbassate, come facevano i pavidi viaggiatori del Settecento sugli antichi valichi del Grand Tour.

 

Sono stati gli artisti romantici ad aprire le tendine delle carrozze e allungare lo sguardo ribelle, per accorgersi di quanto fosse bello il disordine alpino e quanta gioia scaturisse dal paesaggio indocile. Le Alpi rompevano le regole dell’armonia classica; erano il grido trasgressivo della geologia contro la natura conformista delle pianure; chi amava le montagne praticava una disubbidienza geografica e culturale.

 

E se fosse ancora il senso della montagna?

 

Se rimanesse quello il messaggio?




Sono cambiati i tempi, i linguaggi e le generazioni, abbiamo riempito molti vuoti e dissipato troppa bellezza, ma ci restano quelle creste profilate come domande nel cielo. Schiaffi di pietra alla società liquida. Ostinatamente provocanti, disobbedienti anche al nostro disincanto. Se non ci parlano di cose alte, se non ci esortano una volta ancora ad alzare gli occhi e aprire la mente per guardare oltre, allora le Alpi non esistono.

 

(E. Camanni, Una coperta di neve)








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