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Una notte d’inverno
del 1943, un aereo da trasporto dell’aviazione americana in missione d’approvvigionamento
tra l’India e la Cina s’imbatté in una violenta tempesta tropicale sulle
montagne della Birmania settentrionale. Per i cinque membri dell’equipaggio,
tutti ventenni se non più giovani, fu l’inizio di una straordinaria
disavventura.
L’aereo, un
bombardiere B-24 modificato, era comandato dal tenente Robert Crozier, un
pilota texano già molto esperto pur avendo solo ventitré anni. In quella
tempestosa notte di novembre, lui e il suo equipaggio stavano riportando il
quadrimotore vuoto da Kunming, nel Sud-Ovest della Cina, alla base di Jorhat,
distante ottocento chilometri nell’India settentrionale. Avevano già volato più
di una volta lungo quella rotta, che li portava ad attraversare l’Himalaya
orientale. Agli equipaggi aerei che trasportavano armi e altro equipaggiamento
strategico a Chiang Kai-shek essa era nota da sempre come ‘la Gobba’.
In precedenza, i rifornimenti venivano trasportati via terra attraverso la Birmania, ma la rapida avanzata giapponese lo aveva reso impossibile. Un’alternativa era di passare più a nord, ma ciò implicava la costruzione di una strada che attraversasse l'angolo sudorientale del Tibet. Nonostante le pressioni da parte della Gran Bretagna e le minacce da parte della Cina - nazioni alleate in questo frangente di fronte al comune nemico -, i tibetani si erano opposti con forza all’idea, sostenendo che desideravano rimanere neutrali in un conflitto che non li riguardava.
Nella Prima
guerra mondiale, il Dalai Lama aveva
pregato per una vittoria britannica e messo a disposizione le truppe tibetane.
Ma questa volta Lhasa era decisa a non schierarsi, e furono innalzate preghiere
solo per la fine dei combattimenti tra le grandi potenze. Il ponte aereo tra
India e Cina divenne così un collegamento strategico di vitale importanza fra i
due teatri di guerra.
I problemi
per Crozier e il suo equipaggio erano sorti a settemila metri d’altezza e a
seicento chilometri da Jorhat, dove avrebbero dovuto atterrare. Fino a pochi
minuti prima era una notte tranquilla, con un debole chiaro di luna. All’improvviso
si trovarono in mezzo a una violenta tempesta, e l’aereo iniziò a procedere a
scatti. Fra le spesse nuvole nere non si vedeva più nulla, neppure le luci di
posizione sulle ali dell’aereo. Sebbene non potessero saperlo, l’aereo lottava
con un vento che soffiava in senso contrario a duecento chilometri l’ora e che
un po’ alla volta li stava allontanando dalla rotta. Quando s’accorsero di non
essere nei paraggi di Jorhat all’ora prevista, intuirono che qualcosa era
andato storto, e poco dopo compresero di essersi completamente persi da qualche
parte sopra l’Asia centrale. Il loro incubo era iniziato.
I tentativi di contattare Jorhat non ottennero risposta e presto si scoprì che entrambe le radio erano fuori uso. Anche il carburante stava scendendo a un livello pericolosamente basso. A meno che per miracolo non individuassero le luci di una città, presto non avrebbero avuto altra alternativa che lanciarsi con il paracadute nella notte tempestosa. Poi, all’improvviso, un enorme cono bianco apparve tra le nuvole molto vicino all’aereo. In un attimo si resero conto che era una gigantesca vetta himalayana. Subito ne apparvero altre e Crozier virò in fretta per allontanarsi da questo nuovo e inatteso pericolo. Il B-24 compì un’inversione completa della rotta, evitando così di schiantarsi sulla montagna insieme al suo equipaggio.
C’era
carburante a sufficienza per soli altri quindici minuti di volo. Crozier ordinò
a tutti di allacciare il paracadute e tenersi pronti al lancio da un momento
all’altro. Fu allora che avvenne un miracolo - o ciò che l’equipaggio impaurito
giudicò tale. Il cielo si aprì per pochi istanti e con grande stupore essi
videro brillare debolmente sotto di loro le luci di una città. D’istinto,
Crozier puntò bruscamente il muso dell’aereo verso il basso finché le luci
erano ancora visibili. Egli notò che invece di essere settemila metri sotto di
loro, questa città misteriosa appariva molto più vicina. A meno che l’altimetro
non fosse difettoso, poteva significare soltanto che essa si trovava a 3600
metri sopra il livello del mare.
Scendendo il più in basso possibile, Crozier fece compiere all’aereo un ampio arco intorno alle luci della vallata, tentando disperatamente di scorgere qualche segno di un aeroporto o di una pista d’atterraggio. Ma non c’erano luci di bordo pista ad accoglierli. Si trattava chiaramente di una città priva di aeroporto. La loro ultima speranza era svanita. Non rimaneva che gettarsi col paracadute il più in fretta possibile. Qualche minuto dopo, uno dei motori si mise a tossire e poi si spense, seguito a ruota da un secondo. Mentre l’aereo perdeva quota, aprirono con un calcio il portello posteriore e uno dopo l’altro saltarono nella gelida oscurità. Nel giro di pochi secondi udirono in lontananza un’esplosione sorda, quando l’aereo si schiantò alle pendici di una montagna.
Nel
frattempo, nella città sopra la quale avevano appena volteggiato il rombo dell’aeroplano
aveva gettato nel panico la popolazione, che si era riversata di corsa fuori
dalle case. La
città priva di aeroporto era Lhasa. I suoi abitanti erano stati
rassicurati più volte dai loro sacerdoti che qualsiasi aereo osasse volare
sopra la città santa e guardare dall’alto il Dalai Lama sarebbe finito male. L’aereo
di Crozier era stato il primo a provarci, e tutti avevano sentito lo schianto:
i sacerdoti avevano avuto ragione.
Ma di tutto ciò, Crozier e il suo equipaggio non sapevano nulla, né conoscevano il nome del paese dove, uno per volta, atterrarono indenni tutti e cinque, sul versante di una montagna ottanta chilometri a sud-est di Lhasa. La temperatura esterna era ben al di sotto dello zero, e per non morire assiderati quella notte si avvolsero nei paracadute, non osando allontanarsi nell’oscurità per paura di precipitare in un crepaccio. Avendo appena lasciato l’abitacolo pressurizzato dell’aereo, si ritrovarono anche a respirare a fatica nell’atmosfera rarefatta.
La loro
discesa precipitosa in quella notte di burrasca separò i cinque aviatori, ma
due notti dopo tutti tranne uno si erano ricongiunti sotto il tetto di una
cordiale famiglia tibetana. La mattina seguente, gli abitanti del villaggio
portarono il quinto membro dell’equipaggio su un toboga improvvisato. Soffriva
di leggeri segni di congelamento e non era in grado di camminare. I suoi
colleghi erano frattanto giunti alla conclusione che quell’arido paesaggio
senza alberi e con le vette innevate in lontananza non poteva essere che il Tibet. Come avrebbero trovato la strada
per tornare in India attraverso l’Himalaya era un problema che ancora non riuscivano
neppure a porsi.
Poche ore dopo che la notizia della loro discesa dai cieli irati era passata di bocca in bocca, erano divenuti oggetto di curiosità incredula ma non ostile, e la gente arrivava da lontano solo per osservarli. Con l’aiuto di qualche parola smozzicata di indostano, che uno degli abitanti del villaggio parlava, riuscirono a stabilire una sorta di comunicazione con i loro ospiti. Un messaggero a cavallo fu inviato a Lhasa, che si trovava a tre giorni di distanza, per chiedere istruzioni su come comportarsi con questi invasori stranieri.
Nel
frattempo, tra coloro che erano arrivati al villaggio per osservarli c’era un
pellegrino buddhista proveniente da uno degli stati himalayani più a sud.
Parlava un po’ d’inglese e Crozier lo interrogò sul modo per tornare in India.
Ma il pellegrino lo avvertì che avventurarsi da soli e senza armi sarebbe stato
un vero e proprio suicidio. Qualora non fossero stati uccisi dai banditi, come
peraltro era probabile, sarebbero morti assiderati sui passi dell’Himalaya,
sprovvisti com’erano di bestie da soma e vestiti pesanti. Scosse il capo anche
quando Crozier suggerì che sarebbero potuti scendere lungo il Tsangpo, che
scorreva nei pressi del villaggio, e raggiungere l’India in quel modo.
La cosa si
decise da sé, poiché dalla capitale giunse un funzionario con l’ordine di
scortare l’equipaggio fin lì. Tra i giovani americani e i tibetani era nata una
calorosa amicizia, e la loro partenza fu accompagnata da una certa commozione.
Gli abitanti del villaggio diedero a ciascuno di loro un cappotto di pelliccia,
un paio di stivali foderati di pelliccia e coperte per il viaggio che si
accingevano a compiere in pieno inverno e che li avrebbe portati ad
attraversare un passo ad oltre seimila metri d’altitudine.
Crozier e
il suo equipaggio erano imbarazzati di non avere nulla da dare in cambio tranne
la loro gratitudine. Sapevano fin troppo bene che, se gli abitanti del
villaggio non avessero offerto loro l’ospitalità delle loro case e il calore
dei focolari alimentati dallo sterco di yak, sarebbero quasi certamente morti.
Avevano appreso che il villaggio si chiamava Tsetang; i suoi abitanti si
recarono al completo sulle rive del Tsangpo per assistere alla partenza.
Cantarono canzoni d’addio ai loro strani ospiti e tirarono fuori la lingua in
segno di saluto. Alla ricerca disperata di qualcosa da cantare in risposta, l’unico
motivo che venne in mente ai cinque aviatori fu God Bless America, un’esibizione
che comunque gli abitanti del villaggio ascoltarono rapiti. E così, con le
lacrime agli occhi, si allontanarono a cavallo fra le acclamazioni dei
tibetani, per diventare senza dubbio parte del folklore locale come gli uomini
che erano caduti dal cielo. Ma a Lhasa - presto se ne sarebbero resi conto - li
attendeva una ben diversa accoglienza.
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