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Prosegue con i due...
che furono rivisti in cima
….L’uccisione
dei lupi va naturalmente ben oltre il controllo dei predatori. I cacciatori di
taglie uccidono per i soldi, i trapper per le pelli, gli scienziati per i dati,
gli appassionati di caccia grossa per il trofeo. In questi casi le ragioni
addotte sono difficilmente sostenibili, eppure molte persone non vedono proprio
nulla di sbagliato in tali attività.
Anzi,
questo è il modo in cui trattiamo comunemente i predatori, inclusi orsi, linci
e puma. Ma il lupo è in sostanza diverso, poiché la storia del suo sterminio
mostra un autocontrollo decisamente inferiore e una perversione assai
superiore. Sono numerosi coloro che non ammazzavano i lupi tout court, ma li
torturavano. Li bruciavano vivi, strappavano loro le mascelle, tagliavano loro
i tendini d’Achille, li facevano inseguire dai cani. Li avvelenavano con
stricnina, arsenico e cianuro su scala così vasta che milioni di altri animali
come procioni, mustele dai piedi neri, volpi rosse, corvi imperiali, falchi
dalla coda rossa, aquile, citelli e ghiottoni morirono accidentalmente di
conseguenza. All’apice della febbre sterminatrice, avvelenarono persino se stessi
e bruciarono i propri possedimenti boschivi nel tentativo di sbarazzarsi dei
rifugi dei lupi.
Negli Stati Uniti, nel periodo compreso tra il 1865 e il 1885, gli allevatori di bestiame uccidevano i lupi con dedizione quasi patologica. Nel ventesimo secolo uno sport diffuso consisteva nell’affiancarsi ai lupi a bordo di aeroplani o motoslitte e abbatterli a colpi di fucile. Nel Minnesota degli anni Settanta la gente soffocava al laccio i lupi nordamericani per manifestare il proprio disprezzo a chi aveva dichiarato il lupo un animale in via d'estinzione.
Questo non
è un controllo dei predatori e si spinge oltre la casuale crudeltà che i
sociologi affermano manifestarsi tra le persone sotto stress o dove non esiste
la percezione della responsabilità. È l’espressione violenta di un presupposto
terribile: che l’uomo abbia il diritto di uccidere altri esseri viventi non per
le loro azioni ma per le azioni che temiamo possano intraprendere. Ho quasi
scritto ‘o per nessuna ragione’, ma di ragioni ce ne sono sempre.
L’uccisione
dei lupi ha a che fare con una paura fondata sulla superstizione.
Storicamente
la spinta più manifesta, e quella che meglio spiega l’eccesso dello sterminio,
è un tipo di paura: la teriofobia.
La paura delle bestie. La paura delle bestie come creature irrazionali,
violente e insaziabili. La paura della proiezione della bestia che è in noi.
Quei giorni
sono passati. C’è ben poco da guadagnare nell’additare lo ‘sport’ aereo della
caccia al lupo (attività vietata negli Stati Uniti da legge federale) o nell’inveire
contro l’industria della carne per gli eccessi dei suoi fondatori, ma esiste
qualcosa da ricavare, comprendendo dove la paura e l’odio hanno avuto origine e
da dove proviene l’unico aspetto che, insieme alla crudeltà verso l’animale,
colloca la caccia al lupo al di fuori delle altre attività venatorie, vale a
dire la sua ‘rettitudine’.
L’odio alligna le sue radici nella religione: il lupo era il Diavolo travestito. E tali radici sono secolari: i lupi uccidevano il bestiame e rendevano gli uomini poveri.
A un
livello più generale atteneva, da un punto di vista storico, ai sentimenti
provati nei confronti della wilderness,
ossia della natura incontaminata, integra e non ancora domata dall’uomo. Quando
gli uomini parlavano del primo aspetto, generalmente si riferivano al secondo.
Celebrare la wilderness voleva dire
celebrare, il lupo; alla stessa stregua, porre fine alla wilderness, e a tutto ciò che rappresentava, significava volere la
testa del lupo.
Nel cercare
di comprendere la nostra avversione riguardo la natura selvaggia, lo storico
Roderick Nash ha individuato antecedenti religiosi e secolari. In Beowulf, per
esempio, si trova un’espressione della wilderness
secolare (cioè laica, non religiosa) costituita da foreste disabitate, una
regione le cui fredde e umide profondità, con le sue paludi miasmatiche e i
suoi dirupi battuti dal vento, ospitano creature orribili predatrici dell’uomo.
Col
maturare dell’uomo civilizzato e con la misurazione dei suoi progressi in base
all’assoggettamento della natura, sia abbattendo alberi per le fattorie sia
livellando le menti pagane per far posto alle idee cristiane, uccidere i lupi
divenne un atto emblematico, un modo di scagliarsi contro quell’enorme e
rudimentale ostacolo: la wilderness.
L’uomo
dimostrava la sua forza prodigiosa e la sua fedeltà a Dio uccidendo i lupi. Pur
esemplificando considerevolmente, si può dire che non esista grande differenza
tra ciò che spingeva i missionari cristiani a incendiare i boschi inglesi per
privare i druidi di un luogo di preghiera e le ragioni che inducevano nel 1928
i residenti dell’Arkansas a bruciare migliaia di ettari della Ouachita National
Forest per negare un rifugio ai lupi.
Nell’America del diciottesimo secolo, Cotton Mather e altri ministri puritani predicavano contro la natura incontaminata come se questa fosse un insulto al Signore, una sfida all’uomo, il quale distruggendola dava prova del suo convincimento religioso. Mather e altri incitavano i coloni a trasformare la ‘wilderness ululante’ in un ‘campo fertile’. Nel 1756 John Adams scrisse che quando i coloni arrivarono in America, l’intero continente era un unica e lugubre wilderness, il covo di lupi, orsi e uomini selvaggi. Ora sono state tagliate le foreste, la terra è coperta di campi di mais, di alberi carichi di frutti e delle magnifiche abitazioni di gente razionale e civilizzata.
Contemporaneamente,
in Europa, il soggiogamento e l’ordinamento di terre incolte e trasandate aveva
raggiunto la sua esagerata apoteosi con l'eccessiva pulizia dei giardini di
Versailles.
La spinta
ad addomesticare la natura in America non ha mai mollato la presa.
Nei primi anni del 1840 l’uomo dei carri coperti ‘aprì la via dell’ovest’, seguito a ruota dal fattore, che ripulì i campi, e dal taglialegna, che ‘diede luce alle paludi’. Cent’anni dopo la lugubre wilderness di Adams, i baroni delle ferrovie e quelli del bestiame parlavano di Destino Manifesto e di diritti e doveri dell’uomo come amministratore di Dio per ‘fare qualcosa della terra’.
E dove ne
fecero città, campi e pascoli, non c’era spazio per il lupo.
Il lupo
divenne il simbolo di ciò che andava eliminato, il ricordo delle origini
primitive e selvatiche dell’uomo, il residuo della sua natura bestiale che
costituiva l’unico freno a fare dell’America il più grande impero sulla faccia
della terra. Il lupo rappresentava ‘un persecutore feroce e vampiresco’, come
lo chiamò Roger Williams, di tutto ciò che di nobile albergava nell'uomo.
Theodore Roosevelt, con la mano sulla Bibbia e l’occhio agli uomini d’affari,
parlò con toni gravi della predazione lupina nel suo ranch del Nord Dakota,
della minaccia al progresso rappresentata dal lupo. Lo chiamò ‘la bestia dell’abbandono
e della desolazione’.
L’immagine della wilderness come caos figurativo nel quale l’uomo dovette portare l’ordine, era fermamente radicata in Occidente, benché fosse legata in modo stretto a un’idea contraddittoria: quella della natura come asilo sacro, come grandeur gigantesca, maestosa e capace di smuovere l’animo.
Nell’esperienza
dell’Esodo l’uomo cercava deliberatamente la wilderness per sfuggire alla società peccatrice. Chi era oppresso
dalla vita cittadina cercava la comunione con la natura nella campagna. La
celebrazione della natura da parte dei poeti romantici come Wordsworth e
Shelley, i paesaggi di Thomas Moran, Albert Bierstad e della Hudson River
School, il buon selvaggio di Rousseau e gli ultimi scritti di John Muir e Hanry
David Thoreau, si inscrivevano tutti in questa tradizione.
La base
conflittuale tra questi due gruppi appare chiara se ricordiamo che mentre
uomini come Bierstadt e Karl Bodmer mettevano in mostra le primigenie bellezze
americane nelle vetrine europee, i pionieri americani maledicevano quella stessa
wilderness come simbolo delle loro
fatiche e ridicolizzavano il manieroso signorotto che la lodava pur vivendo tra
gli agi di una città Europea. In
Democrazia in America, Tocqueville scrisse: ‘In Europa la gente fa un gran
parlare delle regioni selvagge americane, ma gli americani stessi non ci
pensano mai; sono insensibili alle meraviglie di un mondo inanimato. I loro
occhi sono infiammati da altre vedute; marciano attraverso queste regioni
selvagge e ripuliscono paludi, deviano il corso dei fiumi…’.
Il sentimento dei pionieri riguardo la natura incontaminata era ostile e utilitaristico. Roderick Nash scrive: ‘Nella recita morale dell’espansione a ovest, la wilderness era il cattivo e il pioniere, come un eroe, ne pregustava la distruzione. La trasformazione della wilderness in civilizzazione fu la ricompensa per i suoi sacrifici, la definizione del suo raggiungimento e la fonte del suo orgoglio’.
Questa
eredità spiega in parte come mai un residente dell’Alaska contemporanea, pur
essendo appena arrivato nella città di Fairbanks, sente di potersi beffare
delle opinioni degli estranei. Lui è ai margini della wilderness ed è parte di una mentalità che diresse le ferrovie a
ovest e secondo la quale chi apprezzava i lupi era ‘troppo debole’ per
sopravvivere nelle regioni impervie.
È facile
criticare l’uomo occidentale per la distruzione su vasta scala del lupo e
dimenticare l’ambito in cui essa fu attuata. Gli uomini da me conosciuti che
prima o dopo uccisero lupi per mestiere non erano barbari.
Alcuni erano uomini amabili, perfino umili, mentre altri erano insicuri e irresponsabili. Ma la differenza era questa: coloro che uccisero per più di alcuni anni non nutrivano illusioni su tale attività e provavano qualche rimorso; coloro che ci provarono solo per qualche tempo sembravano tutti posseduti dall’idea di combattere qualcosa di ostile all’uomo, di condurre una lotta estremamente giusta.
In un
articolo di Field and Stream del 1955 intitolato ‘Uccidere nell’Artico
a volo radente’, un cacciatore aereo di nome Jay Hammond, in seguito
governatore dell’Alaska, scrisse che se non si fosse trovato lì con fucile e
aereo nei primi anni Cinquanta ad ammazzare trecento lupi al mese, gli
eschimesi sarebbero di certo morti di fame. Non importa che eschimesi, caribù e
lupi avessero convissuto per mille anni prima dell’avvento dell’aeroplano e del
fucile. In modo analogo, un trapper del Minnesota mi mostrò con fierezza le
trappole illegali usate per uccidere i lupi nordamericani e disse che se non
avesse continuato ad abbatterli avrebbero spazzato via il suo bestiame. Si
considerava un uomo dalle conoscenze superiori, rispetto ai biologi ‘superistruiti’,
che aveva il coraggio di opporsi a loro quando nemmeno i suoi vicini lo
facevano.
Mi disse: ‘Un uomo deve proteggere la sua terra dai lupi anche quando la legge è in errore’. (La legge federale perseguiva come crimine l’uccisione dei lupi.) Erano in molti ad ammirare la schiettezza e l’audacia di quell’individuo, ma la sua visione di proprietà terriera, di allevamento e di minaccia lupina era quella di un uomo vecchio di cent’anni, che sogna una fattoria di frontiera nel Minnesota più selvaggio. Una visione che appartiene al passato.
Ripulire il
territorio. Da questa semplice convinzione era nata una guerra contro i lupi
che negli Stati Uniti culminò alla fine del diciannovesimo secolo. Ma le
origini di quell’atteggiamento sono più antiche e complesse.
Ma dato che i lupi mangiavano i cadaveri sui campi di battaglia ed erano visti più spesso nella suggestiva luce dell’alba e del crepuscolo, erano temuti non solo in quanto predatori di bestiame ma come pericoli fisici e metafisici. Il folklore fece del lupo una creatura posseduta. Aleggiava un gran mistero intorno al lupo e su di esso si sviluppò un favoloso teatro di immagini.
Era il
Diavolo, dalla lingua rossa, il fiato sulfureo e gli occhi gialli; era il lupo
mannaro, cannibale umano; era la lussuria, l’avidità e la violenza che l’uomo
vedeva in sé. E come Ahab, l’uomo inseguì quella balena bianca.
Lasciate
che cominci con qualcosa di concreto….
[PROSEGUE CON IL CAPITOLO COMPLETO]
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