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.....Mi avvicinai con il cuore in gola all'immensa porta, ancora chiusa.
Ai lati del cancello c'erano due cucce di cane, ma solo davanti a quella di sinistra
sbraitava un grosso 'dokyi' tibetano. Aveva una coda di yak bianca colorata di
rosso legata attorno al collo che lo faceva sembrare ancora più cattivo.
Balzava in avanti abbaiando furiosamente, ma restava appeso alla corda di crine
di capra. Fui molto felice di guadagnare la tranquillità del giardino al di là della
porta, che si era aperta misteriosamente e silenziosamente.
Mi diressi subito verso la sala di proiezione, ma prima che vi potessi entrare
si aprì dall'interno e mi trovai di fronte al famoso 'Buddha vivente'.
Nonostante la sorpresa, feci un profondo inchino e porsi la mia sciarpa.
Egli la prese con entrambe le mani e mi benedisse toccandomi leggermente la
testa.
Fra la sala vera e propria e la cabina di proiezione avevo costruito un muro di-
visorio, come nei cinema, appunto, pensando che Sua Santità si sarebbe sedu-
to davanti, mentre io avrei preso posto accanto al proiettore. Invece il Dalai
Lama ordinò subito che davanti si sedessero i suoi tre abati personali e il gran
ciambellano, poi mi prese per mano e mi condusse nella cabina di proiezione.
Intanto mi faceva una domanda dietro l'altra, raggiante di gioia.
Sembrava un uomo che avesse riflettuto per anni in solitudine su svariate ques-
tioni e che potendo finalmente parlare con qualcuno volesse tutte le risposte in
una volta sola. Non mi lasciava neppure il tempo di pensare a cosa dire e mi
spingeva verso il proiettore perché facessi parrtire un film che desiderava ve-
dere da tempo.
Si trattava di un documentario sulla capitolazione del Giappone, girato a To-
kio. Il personaggio principale era il generale statunitense Douglas McArthur,
per cui il Dalai Lama aveva una grande ammirazione; il ragazzo si faceva
addirittura chiamare con il nome del generale, per quanto un po' storpiato:
'Varthimitar'.
Dovetti armeggiare in maniera piuttosto maldestra con il proiettore, o almeno
non abbastanza alla svelta per il Dalai Lama, perché Sua Santità mi spinse
impazientemente di lato e sistemò la pellicola, dando mostra di essere molto
più esperto di me.
Mi spiegò che aveva passato tutto l'inverno nel Potala a trafficare con quel-
le macchine; aveva addirittura smontato e rimontato un proiettore intero.
Notai allora per la prima volta che il ragazzo amava andare a fondo delle
cose, senza dare nulla per scontato. Questo fece sì che in seguito mi trovas-
si a passare molte sere a documentarmi su argomenti nuovi o semidimentica-
ti, come un buon padre desideroso di meritare la stima di suo figlio.
Come secondo film, scegliemmo la bobina con qualche scena girata da me
durante la festa di Capodanno. Perfino i contegnosi abati si lasciarono un
po' andare riconoscendo se stessi nelle figure tremolanti sullo schermo.
Il primo piano del ministro che si era appisolato durante la cerimonia susci-
tò grandi risate. Si trattava comunque di risate benevole, perché a tutti lo-
ro era capitato di dover lottare contro il sonno in occasioni simili.
Tuttavia, la voce che il Dalai Lama aveva assistito al momento di debolez-
za del ministro dovette spargersi fra i dignitari, perché da quel giorno ogni
volta che mi vedevano con la cinepresa si mettevano tutti in posa.
.....A Lhasa circolavano voci allarmanti sui piani di invasione cinesi, e il go-
verno diede disposizioni contrastanti: sulle montagne vennero piazzate insegne
di difesa e mulini di preghiera, santuari contro il nemico, mentre nei monasteri
e nelle case la lettura dei testi sacri s'intensificò più che mai; nel frattempo al-
cuni amici nobili si addestravano con vecchie mitragliatrici, si reclutavano sol-
dati e si benedicevano le bandiere di nuovi reggimenti; alcune compagnie
lasciarono Lhasa dirette a est verso il confine cinese, altre andarono a Gyan-
tse, dove si diceva fossero arrivate armi moderne dall'India.
Anch'io allestii un deposito di emergenza sul Mindrutsari, a 5500 metri di
altezza, al riparo di alcuni macigni. Ci misi fra l'altro il revolver che avevo com-
perato al mercato di Lhasa. Era la prima volta che possedevo un'arma, mi parve
opportuno essere prudente.
Il 7 gennaio 1950 riferii la notizia secondo cui la Cina si apprestava a 'liberare'
il Tibet. A Lhasa naturalmente non si capiva da che cosa dovessero essere
liberati i tibetani. La popolazione non aveva idea della minaccia cinese, perché
non c'erano né stampa né radio.
Una volta che ero andato da Richardson a ritirare delle pellicole, il diplomatico
britannico mi aveva suggerito di verificare se esistevano da qualche parte i libri
destinati a una scuola inglese che si era pensato di costruire a Lhasa ai tempi
del tredicesimo Dalai Lama, un'iniziativa poi accantonata per l'opposizione dei
monaci.
Già il giorno successivo potei ritirare al ministero degli Esteri due casse piene
di libri, un tesoro ritrovato troppo tardi.
Per un po' i miei incontri con il Dalai Lama proseguirono indisturbati.
Presi in prestito dall'ambasciata indiana al Deki Lingka un filmato in sedici milli-
metri in cui Laurence Olivier interpretava Enrico IV. Pensai che sarebbe stato
più facile per il giovane Dalai Lama conoscere Shakespeare attraverso un film
che non dai libri.
Feci scorrere due volte la scena in cui il re dice:
- Solo e inquieto giaccia il capo che porta una corona!
Il Dalai Lama capì subito che cosa volevo dirgli attraverso le parole del dram-
maturgo e poeta inglese ....e quali tempi difficili lo attendevano.
I cattivi presagi si susseguirono, raggiungendo il culmine la sera del 15 agosto
1950, quando un violento terremoto scosse la città. Cominciò alle otto in
punto e durò quattro minuti, che sembrarono un'eternità. L'aria si riempì di
tuoni e schianti, tant'è che molte persone credettero di aver visto dei lampi
a sud. Il mattino seguente constatammo soddisfatti che non c'erano stati danni
agli edifici né allo svettante Potala.
Il sisma fu comunque un infausto segnale, anche perché fece cadere il Norbu,
il simbolo della religione tibetana, dalla cima di un obelisco.
Io dissi al Dalai Lama che si era trattato di un terremoto tettonico, spiegabile
in base alla teoria della deriva dei continenti di Wegener. Un po' di tempo
prima gli avevo mostrato un disegno fatto con le matite colorate da mio figlio
Peter all'età di quattro anni e adesso potevo raccontargli che il famoso pro-
fessor Wegener era il nonno di Peter.
Il Dalai Lama trovò insufficiente la mia spiegazione, secondo la quale l'Hima-
laia continuava a sollevarsi per via della deriva dei continenti, e osservò che
il terremoto aveva in sé qualcosa di misterioso che per il momento sfuggiva
alla comprensione di qualsiasi scienziato.
(H. Harrer, La mia sfida al destino)
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