mercoledì 25 aprile 2012
25 APRILE: IN ATTESA DEL SECONDO FRONTE
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La nostra prima immagine della Francia, dal guardacoste americano adibito al
trasporto di truppe con cui stavamo attraversando la Manica, fu illuminata da-
gli scoppi delle granate antiaeree che esplodevano nella notte sulla Normandia.
Era da poco passata l'una del giorno 'D', e i paracadutisti in quel momento sta-
vano cominciando a toccare terra, mentre i loro aerei venivano investiti da una
pioggia di granate incandescenti e di proiettili grossi come uova.
Un aereo cadde, poi ne cadde un'altro, poi un altro ancora: dalla nostra nave
si potevano vedere benissimo, e i soldati se ne stavano ritti in piedi nel buio,
scuri in volti e addolorati.
Il guardia coste gettò l'ancora a una ventina di chilometri da terra, e all'alba,
dopo un terrificante bombardamento navale e aereo delle spiagge, ci trasferim-
mo sui mezzi da sbarco, che sprofondavano nel ventre delle onde e poi veni-
vano lanciati due o tre metri in alto sulle creste dei flutti.
Dovevamo saltare da una scaletta sdrucciolevole alla copertura di un bocca-
porto, sporco di grasso: era un salto da calcolare con estrema cura.
A destra e a sinistra, davanti e dietro a noi, si ripeteva a perdita d'occhio la
stessa scena: una quantità crescente di navi stracolme di uomini e di materiali
attendevano pazientemente di essere scaricate.
Il mare pullulava di piccole imbarcazioni, che facevano la spola avanti e indie-
tro e si raggruppavano vicino alle murate delle grosse navi. Intanto, il cielo
sopra di noi era coperto da veri e propri strati di aerei, uno sopra l'altro.
Superammo le navi da guerra che bombardavano la costa, e scorgemmo le
colonne d'acqua sollevate dalle granate nemiche che cercavano di colpirle.
La spiaggia stava diventando un inferno: il fumo che ne saliva sembrava quasi
solido, e vampate roventi di luce bianca o arancione si accendevano qua e là.
Poi la guerra colpì proprio davanti a noi, con una tremenda zampata.
Ci fu un grande scoppio, che scagliò fumo grigio e acque bianche a decine di
metri di altezza. Nel centro dell'esplosione, un dragamine colpito a morte spro-
fondò con la prua e rimase lì inclinato, perdendo il suo petrolio a grandi fiotti,
come fosse il sangue di un'arteria tagliata.
Poi si raddrizzò e giacque immobile, emettendo le grandi bolle d'aria delle na-
vi che muoiono. Ci fermammo per raccogliere i superstiti, e raggiungemmo per
primi quelli che erano stati lanciati più lontano dall'esplosione: erano tutti morti.
- Lasciate perdere i morti, raccogliete i vivi,
urlava il tenente John Tipson.
Poi cominciammo a udire delle grida:
- Aiuto! Aiuto!;
provenivano da tutte le direzioni, e in quell'immenso mondo di acque parevano
voci esili e infantili.
Qualcuno implorò:
- Vi prego, aiutatemi!
un grido patetico che ci fece trasalire.
John Tipson era un ragazzo grande e grosso che aveva giocato a rugby con i
'Lions' di Detroit. La sua forza si dimostrò assai utile in quella circostanza.
Bagnati com'erano e con tutto quello che avevano addosso, i soldati che erano
finiti in acqua arrivavano a pesare anche 140 chili: eppure John, tenendosi con
una mano al mezzo di sbarco, allungava l'altro braccio e li tirava su con un col-
po solo.
Ne ripescammo sei, due dei quali perfettamente illesi; ma raccogliemmo solo i
vivi, lasciando i morti alla deriva, come relitti, nel mare indifferente. Vedemmo
un uomo completamente nudo: l'esplosione gli aveva strappato tutto di dosso,
comprese le calze e le scarpe, e il suo corpo pareva coperto di staffilate, come
se fosse stato battuto con un gatto a nove code.
Sulla prima spiaggia in cui sbarcammo, l'aria era pulita, dolce, marina.
Grandi stormi di gabbiani calarono su di noi, protestando contro l'invasione a-
mericana con una cascata continua di note acute. Quel paesaggio nudo aveva
una forza, una bellezza selvaggia e ventosa: ma la morte era in agguato ovunque.
I tedeschi avevano minato tutta la spiaggia, centimetro per centimetro.
I nostri soldati erano riusciti a sminare solo alcuni stretti passaggi, e l'operazione
era costata 17 feriti e un morto. Su quelle piste dovevano camminare, dormire,
mangiare e lavorare: camminando, mettevano un piede davanti all'altro con pre-
cauzione; per dormire, si preparavano una fila di pietre a destra e una a sinistra
per impedirsi di rotolare durante il sonno.
Noi sbarcammo nel primo pomeriggio: il vento stava calando, e dappertutto si
liberavano nuvole di fumo grigio e nero, sospese nella brezza ormai debole.
Quel fumo proveniva dagli aerei abbattuti che bruciavano, dalle mine che i re-
parti di demolizione facevano esplodere, dai cannoni americani e dalle granate
tedesche: la terra stessa sembrava ardere.
Dal mare proveniva un flusso continuo di soldati, che subito si mettevano al la-
voro: scavavano, martellavano, guidavano scavatrici o autocarri, organizzavano,
davano ordini, controllavano, sparavano e si facevano sparare addosso.
Intanto, fra i boati dell'artiglieria e le scariche di mitragliatrice, fra i sibili e gli scop-
pi delle granate, si poteva distinguere il paziente ticchettio delle macchine da sci-
vere, e il trillo dei telefoni: suoni così familiari e quotidiani.
Scorsi dei prigionieri tedeschi che scendevano verso la spiaggia su un lato di una
strada, mentre le nostre truppe d'assalto andavano nell'altra direzione, sull'altro
lato. Gli Americani avevano lo strano sguardo intento degli uomini che stanno per
andare a combattere, ma era bello vederli marciare.
- Dove stai andando?
domandai a uno di loro.
- Non lo so,
rispose.
- Seguo quelli che sono davanti a me.
Anche i soldati davanti a lui seguivano quelli che erano più avanti ancora, e alla
fine arrivai all'uomo che era in testa alla colonna.
- Sto seguendo l'altra colonna,
mi disse.
Scoppiammo a ridere tutti e due, ma il suo era un riso allegro, soddisfatto.
- Vede,
mi spiegò,
- non è stupido come sembra. Qui tutti abbiamo la stesa idea, e perciò basta che
seguiamo chi ci sta davanti per arrivare dove c'è qualcosa da fare.
Basta seguire la colonna....
(Ira Wolfert, Un giorno in Normandia)
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