Prosegue in:
Predica della domenica (2)
Poiché capita a molti di noi, temo, di raccomandare le nostre attività
preferite per presunzione più che per affetto verso gli altri, di modo che a
volte, proprio mentre indichiamo la via da intraprendere, per essere ammirati
ci piace sottolineare l’impervietà invece di districarla, donde può nascere una
naturale diffidenza verso la nostra raccomandazione nelle menti di chi non
abbia ancora percepito alcun valore nell’oggetto che lodiamo; e poiché,
inoltre, gli uomini di questo secolo intendono la parola utilità in uno strano
modo, o almeno (perché la parola fu spesso intesa così fin dal principio del
mondo) dato che di questi tempi essi agiscono assai più frequentemente in
accordo a questo suo senso più limitato, conferendogli maggior peso pratico ed
autorità: sarà bene che in apertura io definisca con esattezza qual genere di
utilità io intenda attribuire all’arte, e in particolare alle discipline
artistiche interessate a quelle impressioni di bellezza esteriore, di cui il
presente saggio intende scoprire la natura.
Cioè a dire, che a ogni creatura è eminentemente utile ciò che la ponga
in condizione di adempiere con giustizia e con pienezza le funzioni cui l’ha
destinato il Creatore. Pertanto, affinché possiamo determinare che cosa sia
principalmente utile all’uomo, è innanzitutto necessario determinare a quale
uso sia destinato l’uomo stesso.
L’uso e la funzione dell’uomo (e chi non mi concede questo farà meglio
a fermarsi qui, perché mi propongo di tener fermo per sempre quanto segue)
sono: di essere testimonio della gloria di Dio e di aumentare quella gloria per
mezzo della sua obbedienza ragionevole e della felicità che ne risulta.
Ciò che ci mette in condizione di adempiere questa funzione è, nel
senso puro e primo della parola, utile per noi: eminentemente, pertanto, ciò
che illustri più splendidamente ai nostri occhi la gloria di Dio. Le cose ci
aiutano soltanto a esistere, invece, sono utili (soltanto) in un senso
secondario e meschino; o piuttosto, se considerate di per sé, sono utili e
peggio, perché sarebbe meglio per noi non esistere, piuttosto che colpevolmente
fallire gli scopi della nostra esistenza.
Eppure in quest’epoca meccanica la gente, quando parla col cuore, parla
come se soltanto terre e case e cibo e indumenti fossero utili, e come se
visione, pensiero e ammirazione fossero cosa senza profitto, così che gli
uomini, battezzatisi insolentemente ‘utilitaristi’, potendolo trasformerebbero
se stessi e la propria razza in ortaggi, uomini che pensano, se questo può
dirsi pensare, che la carne ammannita nel piatto sia più della vita, e
l’indumento più del corpo che riveste, che considerano la terra una stalla, e i
suoi frutti mangime; vignaioli e agricoltori, che amano il grano che macinano e
i grappoli che torchiano più dei giardini angelici sui pendii dell’Eden; gente
che segando il legno e attingendo l’acqua, pensa che sia per dar loro legno da
segare e acqua da attingere che le foreste di pini coprono le montagne come
l’ombra di Dio, e i grandi fiumi fluiscono come la Sua eternità.
E così piomba su di noi la sventura del predicatore, che sebbene Dio
abbia ‘fatto tutto bello, a suo tempo, e anche l’idea dell’eternità abbia posto
nel cuore dell’uomo, egli però non riesce a rendersi conto e ragione, dal
principio alla fine, dell’opera che Dio ha compiuto’.
Questa maledizione di Nabucodonosor, che manda gli uomini alla
mangiatoia come buoi, pare seguire fin troppo da vicino l’eccesso o il
prolungarsi delle potenze delle nazioni, e della pace. Nelle angustie e nelle
lotte per l’esistenza, nella loro infanzia e impotenza, perfino nella loro
disorganizzazione le nazioni nutrono più alte speranze e più nobili passioni.
(Prosegue....)
(Prosegue....)
Nessun commento:
Posta un commento