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Circa la bellezza delle forme (2/1)
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Qual è l’oggetto
d’arte?
Se la
realtà colpisse direttamente i nostri sensi e la nostra coscienza; se potessimo
entrare in comunicazione immediata con le cose e tra di noi, credo che l’arte
sarebbe inutile, o meglio che saremmo tutti artisti, perché le nostre anime
allora vibrerebbero continuamente all’unisono con la natura.
I nostri
occhi, aiutati dalla nostra memoria, ritagliavano nello spazio e fissavano nel
tempo immagini inimitabili. Il nostro sguardo coglieva di sfuggita, scolpiti
nel marmo vivo del corpo umano, pezzi di statuaria belli come quelli dell’antichità.
Sentiremmo cantare nel profondo delle nostre anime come musica, a volte
allegra, più spesso lamentosa, sempre originale, la melodia ininterrotta della
nostra vita interiore.
Tutto questo è intorno a noi, tutto questo è in noi, eppure niente di tutto questo è percepito distintamente da noi. Tra noi e la natura - che dico? - tra noi e la nostra coscienza si interpone un velo, un velo spesso per l’uomo comune, un velo sottile, quasi trasparente, per l’artista e il poeta.
Quale fato
ha tessuto questo velo?
È
necessario vivere e la vita richiede che comprendiamo le cose relativamente ai
nostri bisogni. Vivere consiste nell’agire. Vivere è ricevere dagli oggetti
solo l’impressione utile per rispondere ad essa con le opportune reazioni; le
altre impressioni devono cancellarsi o venire a noi solo confusamente. Guardo e
credo di vedere, ascolto e credo di sentire, studio me stesso e credo di leggere
fino in fondo al cuore. Ma ciò che vedo e ciò che sento dal mondo esterno è
semplicemente ciò che i miei sensi ne ricavano per illuminare la mia condotta;
quello che so di me stesso è ciò che scorre in superficie, ciò che prende parte
all’azione. I miei sensi e la mia coscienza mi danno solo una semplificazione
pratica della realtà.
Quindi, che sia pittura, scultura, poesia o musica, l’arte non ha altro scopo che dissipare i simboli praticamente utili, le generalità convenzionalmente e socialmente accettate, insomma tutto ciò che per noi maschera la realtà, per portarci faccia a faccia con la realtà stessa.
È un
malinteso su questo punto che ha dato origine al dibattito tra realismo e
idealismo nell’arte. L’arte è certamente solo una visione più diretta della
realtà. Ma questa purezza di percezione implica una rottura con le convenzioni
utili, un disinteresse innato e specialmente localizzato del senso o della
coscienza, insomma una certa immaterialità della vita
che è ciò che è sempre stato chiamato idealismo.
Quindi
si potrebbe dire senza minimamente giocare sul senso delle parole, che il
realismo è nell’opera quando l’idealismo è nell’anima….
Ci sono cose che solo l’intelligenza è in grado di cercare ma che, da sola, non troverà mai. Queste cose solo l’istinto può trovare, ma non le cercherà mai.
L’intelligenza
e l’istinto sono rivolti in direzioni opposte, la prima verso la materia
inerte, la seconda verso la vita.
L’intelligenza
per mezzo della scienza, che è il suo lavoro, ci consegnerà sempre più
completamente il segreto delle operazioni fisiche. Gira intorno alla vita,
prendendone dall’esterno il maggior numero possibile di visioni, attirandola in
se stessa invece di entrarvi. Ma è all’interiorità
stessa della vita che l’intuizione conduce - e per intuizione intendo l’istinto
che è diventato disinteressato, autocosciente, capace di riflettere sul suo
oggetto e di ingrandirlo indefinitamente.
Vediamo che l’intelletto, così abile nel trattare con l’inerte, è goffo nel momento in cui tocca i vivi. Che voglia curare la vita del corpo o la vita della mente, procede con il rigore, la rigidità e la brutalità di uno strumento non concepito per tale uso. La storia dell’igiene o della pedagogia ci insegna molto in questa materia.
I nostri
ricordi, in un dato momento, formano un insieme solido, una piramide, per così
dire, il cui punto è inserito precisamente nella nostra azione presente. Ma
dietro i ricordi che interessano le nostre occupazioni e si rivelano per mezzo
di essa, ce ne sono altri, migliaia di altri,
immagazzinati sotto la scena illuminata dalla coscienza.
Sì, credo
davvero che tutta la nostra vita passata sia lì, conservata anche nei minimi
dettagli, e che non dimentichiamo nulla, e che tutto ciò che abbiamo sentito,
percepito, pensato, voluto, dal primo risveglio della nostra coscienza,
sopravviva indistruttibile. Ma i ricordi che sono conservati in queste oscure
profondità sono lì nello stato di fantasmi invisibili. Aspirano, forse, alla
luce, ma non cercano neppure di raggiungerla, sanno che è impossibile e che io,
in quanto essere vivente e agente, vi anelo (in uno strato remoto della nostra coscienza genetica… dirà in seguito
Jung…).
Corrono
insieme alla porta che è stata lasciata socchiusa.
Tutti
vogliono passare.
Ma non
possono;
Ce ne sono
troppi.
Tra le
moltitudini che sono chiamate, quale sarà scelto? Non è difficile da dire.
Un tempo, quando ero sveglio, i ricordi che si facevano strada erano quelli che potevano implicare pretese di relazione con la situazione attuale, con ciò che vedevo e sentivo intorno a me. Ora sono immagini più vaghe che occupano la mia vista, suoni più indecisi che colpiscono il mio orecchio, tocchi più indistinti che si distribuiscono sulla superficie del mio corpo, ma ci sono anche le sensazioni più numerose che provengono dalle parti più profonde dell’organismo.
Dunque, tra
i ricordi fantasma che aspirano a riempirsi di colore, di sonorità, insomma di
materialità, gli unici che riescono sono quelli che possono assimilarsi al colore-polvere che noi percepiamo, le
sensazioni esterne ed interne che catturiamo, ecc., e che inoltre rispondono al
tono efficace della nostra sensibilità generale.
Quando si effettua questa unione tra la memoria e la sensazione, abbiamo un sogno, ma ci sono anche le sensazioni più numerose che nascono dalle parti più profonde dell’organismo.
(H.
Bergson)
L’uomo era in grado di valutare approssimativamente il tempo molto prima che fosse innalzato uno gnomone, e molto prima del lento fluire della sabbia - o polvere - all’interno di una clessidra, di un cristallo…
…Prima,
cioè, che avesse inizio la sua vera e propria misurazione.
Come gli
animali e le piante, anche l’uomo possedeva infatti la naturale capacità di orientarsi
nel tempo. Il sorgere e il tramontare delle costellazioni, le quali attraverso
i loro numerosi passaggi determinano i cicli di luce e ombra, inverno ed estate,
bassa e alta marea, non si limitano a costituire le basi del calcolo del tempo
da parte dell’uomo, ma lo inglobano, lo avvolgono come un alveo.
Tutti gli altri
esseri viventi, e perfino la materia inanimata, si orientano in base
all’orologio cosmico.
Non dobbiamo però dimenticare che esso indica il tempo in virtù della rotazione del quadrante. La terra trasforma in misura del tempo ciò che, se noi ce ne staccassimo, altro non sarebbe che spazio e rifrazione inalterabile, luce mortale.
Come un grande
mulino cosmico essa macina per noi la ricchezza dell’universo. È questo che la
rende ai nostri occhi terra natia: ciascuno di noi trova la propria vera legge
entro il suo ordinamento. Su questa prossimità riposano segni originari, quasi
inconsapevoli, della percezione del tempo: formatisi nella selvatichezza, essi vanno
poi sfuocandosi via via fino a perdersi nelle nostre città.
Anche dal semplice punto di vista atmosferico ogni ora ha un suo carattere inconfondibile, una sua particolare lucentezza: coloro che sanno osservare la natura conservano forse ancora il dono di riconoscere le ore senza dover ricorrere agli orologi.
In natura
ci sono tanti altri segni del tempo, che l’uomo percepisce in quanto si
ripresentano periodicamente, che gli diventano familiari, e tali rimangono
finché egli, nella sua vita, vi fa riferimento.
Questo
evocare i cicli della vita contribuisce a creare l’incanto della poesia. Essa riconduce
nelle profondità della terra natia, che la semplice dimensione spaziale non è in
grado di offrirci. Le immagini si susseguono l’una all’altra come l’attacco dei
violini in un’orchestra; attraverso segni imponderabili conducono al cuore dei
minuti, delle ore, delle stagioni.
Spesso questi segni sono talmente impercettibili che al lettore, forse allo stesso autore della poesia, resta celata la loro natura temporale. Essi derivano da una coscienza originaria dell’ordine temporale che contraddistingue il poeta. Egli la condivide con l’antichissima condizione del cacciatore e del pescatore, che si accostano alla preda orientandosi con riferimenti non puramente spaziali.
La traccia esibisce
sempre segnali anche temporali.
Pur svolgendosi gran parte della nostra esistenza in uno stato di veglia, è tuttavia nel tempo del sogno, in uno stato di piacere inconscio, che noi partecipiamo alla selvatichezza. Sdraiati nelle dune, sopra di noi vediamo passare le nuvole e agitarsi gli steli d’erba. Dalla spiaggia giunge fino a noi il ritmo cadenzato dei frangenti. E manciate di bianca sabbia continuano a scorrere nei piccoli avvallamenti, quasi fossero sussulti della pelliccia di un grande animale.
(E. Junger)
Mentre stiamo per addormentarci scorgiamo un barlume di ‘vita’ proiettata dal cielo che lenta ci osserva… uno diverso dall’altro sembrano ridere della nostra breve poesia, della nostra vita rinchiusa e costretta. Tutto nel Nulla precipitato nella graduale gravità della crosta, non meno della grande ricchezza riflessa nella bellezza, può questa Arte della Natura.
(Giuliano)
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