CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

mercoledì 14 maggio 2014

VIAGGI ONIRICI (una passeggiata alle Ragged Mountains) (4)




















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Durante l’autunno del 1827, mentre abitavo nei pressi di Chralottesville, in Virginia, feci casualmente la conoscenza del signor Augustus Bedloe.
 Era un giovane non comune sotto ogni punto di vista, e la sua personalità suscitò in me curiosità e interesse vivacissimi; mi riusciva tuttavia impossibile di comprenderlo sia dal punto di vista morale che da quello fisico. Della sua famiglia non fui in grado di ottenere alcuna informazione soddisfacente, né potei mai accertare di dove venisse persino la sua età aveva qualcosa che mi lasciava perplesso in sommo grado.
Certo, appariva giovane – e si faceva anzi quasi un dovere di parlare della sua giovinezza -, però v’erano momenti in cui non avrei affatto esitato a considerarlo centenario. Ma ciò che in lui mi colpiva maggiormente era l’aspetto personale: altissimo di statura, molto magro e curvo, aveva le membra di una lunghezza inverosimile ed esilissime, la fronte larga e bassa, la carnagione assolutamente esangue, la bocca grande e immobile; i denti poi, sebbene sani, erano i più irregolari che abbia mai veduti in bocca umana: il suo sorriso, tuttavia, non era affatto sgradevole, come si potrebbe supporre, anche se non mutava mai; era un sorriso profondamente malinconico, aduggiato da una mestizia uniforme, incessante.




Gli occhi, innaturalmente grandi, erano tondi come gli occhi dei gatti; le pupille stesse si contraevano o si dilatavano a seconda che la luce fosse maggiore o minore, esattamente come accade nei felini: quando era particolarmente emozionato i globi oculari gli diventavano luminosi in un modo quasi incredibile; parevano emettere raggi luminosi di luce non riflessa, ma intrinseca; abitualmente però apparivano opachi, smorti, appannati come potrebbero essere quelli di un cadavere sotterrato da lungo tempo.
Queste singolarità della sua persona sembravano procurargli grande fastidio, ed egli vi alludeva di continuo con una costrizione e con un tono per metà esplicativo e per metà di scusa, che le prime volte mi impressionò assai dolorosamente; mi ci abituai però, ben presto, e il mio imbarazzo non tardò a sparire. Si sarebbe detto che desiderasse lasciar capire, piuttosto che affermare in modo esplicito, come fisicamente non fosse sempre stato quello che era, e che una lunga serie di crisi nervose lo avessero così ridotto da una condizione di prestanza fisica superiore alla normale.




Da molti anni ormai era in cura da un medico, certo Temmpleton, un vecchio di forse settant’anni da lui conosciuto a Saratoga e dalle cui prestazioni aveva ricevuto, o credeva d’aver ricevuto, gran benefici. Ne era seguito che Bedloe, che era persona facoltosa, aveva stipulato un accordo col dottor Templeton, in base al quale quest’ultimo, dietro un generoso compenso annuo, aveva consentito a dedicare il proprio tempo e la propria esperienza medica a quell’unico paziente. Da giovane il medico aveva molto viaggiato, e a Parigi si era convertito alle dottrine di Mesmer; anzi curava ed era riuscito ad alleviare gli acuti spasmi dell’ammalato unicamente grazie ai rimedi di natura magnetica, e il successo di questi aveva logicamente ispirato a Bedloe una notevole fiducia in essi rimedi.
In quanto al dottor Templeton, come tutti gli entusiasti, aveva tentato l’impossibile per convertire totalmente il pupillo, e finalmente era riuscito a convincerlo a sottoporsi a numerosi esperimenti, la cui frequente ripetizione aveva dato risultati che in questi ultimi tempi sono divenuti sì comuni da non destare più o quasi stupore, ma che – nel periodo di cui scrivo – in America erano ancora pochissimo noti. Intendo dire che fra Templeton e Bedloe s’era stabilito a poco a poco un rapporto magnetico spiccatissimo e assai sviluppato: non voglio con ciò affermare che tale rapporto andasse oltre i limiti del semplice potere ipnotico; certo si è che questo potere aveva raggiunto una grande intensità.




Al primo tentativo l’ipnotizzatore era del tutto fallito; al quinto e al sesto la riuscita era stata parziale e assai difficile, ma al dodicesimo era stato coronato dal successo più completo.  Da allora la volontà del paziente era divenuta docile strumento nelle mani del medico tanto che, quando li conobbi io, il sonno veniva provocato istantaneamente a un semplice cenno del magnetizzatore, anche se l’ammalato era ignaro della presenza di questi. Solo ora, nell’anno 1845, in cui miracoli analoghi i verificano ogni giorno a migliaia, oso accennare a questa apparente impossibilità come a un dato di fatto. 
Bedloe possedeva un temperamento sensibilissimo, eccitabile, entusiasta; la sua immaginazione era straordinariamente vigorosa e creativa, e senza dubbio riceveva anche maggior impulso dall’uso abituale della morfina da lui ingerita in grande quantità e senza la quale gli sarebbe stato impossibile vivere. Per solito ne prendeva una fortissima dose subito dopo la prima colazione del mattino, o – meglio – subito dopo aver bevuto una tazza di caffè nerissimo, ché prima del pasto di mezzogiorno non toccava mai cibo; se ne andava poi, tutto solo o in compagnia di un cane, a fare una lunga passeggiata sulla catena di colline selvagge e brulle che si estendono verso ovest e verso Charlottesville e che avevano meritato il nome di Ragged Mountains.




In un giorno opaco, caldo e nebbioso, verso la fine di novembre e durante lo strano interregno delle stagioni che in America viene denominato estate indiana, il signor Bedloe partì come di consueto per le colline. Passò tutto il giorno ed egli non era ancora tornato. Erano quasi le otto di sera e, seriamente preoccupati per la sua prolungata assenza, ci accingevamo a metterci alla sua ricerca quando improvvisamente riapparve tra noi in condizioni di salute non peggiori del solito, ma molto più animato del consueto.
Il resoconto che fece della sua escursione e degli eventi che gli avevano fatto ritardare il ritorno, fu veramente singolare. ‘Ricorderà’, disse, ‘che erano all’incirca le nove del mattino quando ho lasciato Charlottesville. Indirizzai subito i miei passi verso le montagne e alle dieci circa entravo in una gola che era assolutamente nuova per me. Seguivo con grande interesse i tornanti del passo. Lo scenario che presentava da ogni lato, sebbene non potesse definirsi esattamente grandioso aveva un’aria indescrivibile e un aspetto per me delizioso di tetra desolazione. Il luogo solitario sembrava assolutamente vergine.




Mi era impossibile credere che sulle verdi zolle e sulle grigie rocce che stavo calpestando si fosse mai posato il piede umano. L’imboccatura della gola è tanto appartata e di fatto inaccessibile, se non per una serie di fatti accidentali, che non è del tutto impossibile che io fossi il primo ad avventurarmi nei suoi recessi, il primissimo ed il solo esploratore. La spessa, particolare caligine o fumo, che caratterizza l’estate indiana e che ora gravava pesantemente su tutti gli oggetti, serviva senza dubbio ad accentuare l’impressione di vaga indeterminatezza dei loro contorni.
Questa nebbia a me gradita era tuttavia così fitta che non riuscivo a distinguere al di là di una decina di metri il sentiero davanti a me.  Il percorso era eccessivamente sinuoso e il sole non era visibile, così che ben presto persi l’orientamento e non sapevo più in che direzione mi muovevo. Intanto la morfina produceva il suo abituale effetto – quello cioè di conferire un interesse eccezionale a tutto ciò che formava il mondo esterno.  Il tremolio di una foglia, la tinta di un ciuffo d’erba, la forma di un trifoglio, il ronzare di un’ape, il brillìo di una goccia di rugiada, il sospiro del vento, i delicati profumi che arrivavano dal bosco, suscitavano un intero universo di suggestioni – un gioioso eterogeneo seguito di pensieri rapsodici e disordinati.




Perso in essi, continuai per ore a camminare e intanto la nebbia si infittiva intorno a me al punto che alla fine fui costretto a procedere a tentoni. Un indicibile malessere si impadronì di me- una sorta di agitazione nervosa e tremore. Avevo paura di camminare, nel timore di precipitare nel fondo di un abisso. Ricordavo anche le strane storie che venivano raccontate in merito alle Ragged Mountains e alle selvagge e feroci razze di uomini che avrebbero abitato le loro foreste e caverne. Migliaia di pensieri fantastici e vaghi mi opprimevano e mi sconcertavano – fantasticherie tanto più angosciose proprio perché vaghe.
Tutto ad un tratto la mia attenzione fu attratta da un cupo rullare di tamburo. La mia sorpresa fu naturalmente enorme. Un tamburo in quelle colline era un oggetto sconosciuto. Non sarei potuto rimanere più sorpreso se avessi addirittura udito la tromba dell’Arcangelo. Ma ecco una ancora più sorprendente fonte di interesse e di perplessità. Mi giunse un suono sconnesso raschiante o tintinnante, come se venisse da un grosso mazzo di chiavi agitato e nello stesso istante sbucò fuori dietro di me con un urlo un uomo dal volto scuro, seminudo. Mi arrivò così vicino che sentii il suo fiato caldo alitarmi in viso.




Teneva in una mano uno strumento composto da un insieme di anelli d’acciaio e lo scuoteva energicamente mentre correva. Era appena scomparso nella nebbia che, ansimando, si precipitò dietro di lui, con la bocca spalancata e gli occhi fiammeggianti, un’enorme bestia. Non mi posso sbagliare, si trattava proprio di una iena. La visione di questo mostro mi sollevò, invece di aumentare il mio timore – perché mi convinsi di aver sognato e tentai così di scuotermi e di tornare alla mia consapevolezza.

(Prosegue...)

















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