Precedenti capitoli:
Ave a Te Giulio Cesare (che i savi poco t'intendono....) (74)
Prosegue in:
Il Caos Primordiale: ovvero Triperuno (76)
Bramoso di vedere di
parte in parte
Il mondo, l’ho girato in
ogni via,
Ponendo a rischio
ogn’hor la vita mia
Sopra l’onde del mar,
fra velel e sarte.
E di quel, che Natura
non comparte
A queste bande, ho fatto
mercantia,
Facendola venir per
lunga via,
Con gran sudor, fatica,
ingegno e arte.
Trascorso ho tutto il
globo de la terra,
E monti, e piani, e
mari, e rivi e fiumi,
E quanto il cielo in sè
rinchiude e serra.
Strane genti ho vedute,
e stran costumi,
E mostri spaventosi, e
fatto guerra
Con orsi e draghi, tra
spelonche e dumi.
Genti che senza lumi
Vivono, ed altri ch’un
sol’ occhio in testa
Tengon, e nudi van per
la foresta.
Altri c’hanno la cresta
E ‘l becco torto, e
cantan come galli,
Altri, dal petto in giù
tutti cavalli.
Altri, che ne le valli
Vivono, altri in caverne
e scure grotte,
Sotto aspri monti con
perpetua notte.
Altri che vanno in
frotte
Pe’ boschi, come serpi
sibilando;
Altri, che come can
vanno latrando.
Altri vanno ululando
Qual nottole, civette o
barbagianni,
Altri, che al mondo sol
vivono cinque anni.
Altri, che senza panni
Stanno sepolti vivi
nell’arene,
nel sito ardente
dell’aprica Siene.
Ho viste le Sirene,
Il can trifauce, l’Orca
e la Chimera,
Ed ho fatto a le braccia
con Megera.
Con la Sfinge una sera
Stetti, e mangiai un
serpe a bolardello,
E mi diede da ber tosco
e mapello.
Ho veduto l’avello
Dov’è rinchiuso il corpo
di Medusa,
E i serpi horrendi, ch’a
portar era usa.
Lo spirto di Lanfusa
Vidi una sera in groppa
d’un montone,
Scorrer per aria sopra
il mar Leone.
E con Demogorgone
Stei più d’un hora un
giorno a parlamento,
Poi arrivai a l’isola
del vento.
Ma d’indi, in un
momento,
Soffiato indietro fui,
con tal ruina,
Ch’io fui portato a
l’isola di Alcina.
Vist’ho di Fallerina
L’horto, a là dove
incantato brando
Le tolse (suo mal grado)
il fiero Orlando.
E così costeggiando
Veduto ho la riviera,
ove Medea
Fuggendo il padre, il
frate morto havea.
Ne la selva Grinea
Veduto ho l’ombre de’
poeti, e molti
Ne riconobbi per quei
luochi folti.
E per paesi incolti
Girando, vidi il crin de
la Fortuna,
E gli Arcadi più antichi
de la Luna.
Parnaso, ove s’aduna
Il choro de le Muse, e
‘l sacro fonte
Dove s’honora il padre
di Fetonte.
Veduto ho l’alto monte
D’Atlante, e de l’Egira
tutto il lido,
Dove già un tempo
s’adorò Cupido.
Ho visto Papho, e Gnido,
Ed il paese dove nacque
Bacco,
E la grotta dove i buoi
nascose Cacco.
Ho veduto Lampsacco,
Dove sacrificare
anticamente
Soleva a Priapo l’asin
quella gente.
Ho veduto il tridente
Di Nettuno, ed insieme
il loco ho visto
Dove già in orsa si
cangiò Callisto.
Anco il paese tristo
Dove Corone si mutò in
cornacchia,
Talo in perdice, che
sovente gracchia.
Vedut’ho su una macchia
Il crudo Terreo in upupa
converso,
E Filomena far dolente
verso.
Itis andar disperso,
In forma di fiagiano, ed
il thesoro
Di Mida, e u’ Dafne si
cangiò in alloro.
Veduto ho il pomo d’oro
Che ‘l pastor frigio
diede a Citharea,
Onde ne nacque poi
guerra sì rea.
De la selva Neemea
Ho veduto il leon fiero
e tremendo,
E ‘l porco Calidonio
aspro ed horrendo.
L’altissimo e stupendo
Cavallo di Sinone ho
visto ancora,
Ed albergato in casa de
l’Aurora.
Il vaso di Pandora
Ho veduto, e la cetra di
Anfione,
Tutta stemprata, e ‘l
corno di Tritone.
Ho veduto il tizzone
Di Meleagro, e i pomi
d’Atalanta,
E Mirrha convertita in dura
pianta.
Di Circe tutta quanta
L’isola ho vista, e dove
il saggio Ulisse
Ne l’occhio al fier
Ciclope il ferro affisse.
La lancia che trafisse
Cigno, qual si vestì di
bianche piume,
E di morir cantando è
suo costume.
Del mal rettor del lume
Il carro vidi tutto
fracassato,
E lo scoglio in cui
Licha fu cangiato.
Narciso tramutato
In fiore ho visto, e
dove in freddo humore
Bibli cangiossi per
incesto amore.
Adon mutato in fiore,
Ati in pino, Aci in
fiume e Batto in sasso,
E dove Nesso fu di vita
casso.
Veduto ho il cane e il
lasso
Di Paride, con cui solea
talhotta
Per le selve cacciar le
fiere in frotta.
Il loco, ove a la lotta
Fece il feroce Alcide e
‘l forte Anteo,
E ‘l folgore ch’uccise
Capaneo.
La nave che già feo
Tiphi, per gire a
l’isola di Colco,
E ‘l campo ove Giason
fece il bifolco.
Ancor, l’aratro e ‘l
solco
Che fece Cadmo, e i
denti del serpente,
E dove Scilla il padre
fe’ dolente.
Veduto ho parimente
D’Icaro l’ali tutte
spennacchiate
Per non seguir del padre
le pedate.
E le ricche contrate
Ho visto, ov’eran gli
horti d’Alcinoo,
E dove Hercol tre’ il
corno ad Acheloo.
Là dove Perithoo
Fe’ la gran pugna col
crudel Centauro,
E di Pasiphe ho visto il
Minotauro.
E dove in pioggia d’auro
In grembo a Danae Giove
si converse,
E dove in mar Leandro si
sommerse.
E
la sorella d’Herse.
Cangiata in sasso, ed ho
vista la pelle
Del monton, che portò
già Friso ed Helle.
E dove le sorelle
Di Fetonte già fero
amaro pianto,
Che ‘l re de’ fiumi poi
ornaron tanto.
Vist’ho di Radamanto
Il palazzo, e quel d’Eaco
e di Minosse,
E ove Tiresia in femmina
cangiosse.
Son stato su le fosse
De l’intricato e scuro
Labirinto,
E vist’ho dove in fior
si fe’ Giacinto.
Veduto ho tutto il cinto
De l’horto hesperio, u’
sono i pomi d’oro,
E ‘l drago horrendo
posto in guardia loro.
Veduto ho dive in toro
Giove cangiossi, in ripa
a la marina,
Quand’Europa fe’ dolce
rapina.
Ho vista la fucina
Del zoppo fabbro, dove a
ogni stagione
Battono i magli Bronte e
Piragmone.
Vedute ho d’Atteone
Le corna, e gli horti ne
l’aria sospesi
D’Adonide, e di lor gran
cose intesi.
E pure in quei paesi
Gli ministri del sonno
ho visto in tanto,
Quai sono Morfeos,
Fabetore e Fanto.
La selva d’Eromanto
Ho vista tutta, e gli
arbori del sole,
E là v’è Amone il
Daramanto cole.
L’alta superba mole
Del Colosso di Rhodi, e
d’Hippocrene
Il chiaro fonte, e ‘l
gran studio d’Athene.
E quanto gira e tiene
Di Menfi il muro, e la
città di Pilo,
E tutte le piramidi del
Nilo.
Ho ancor veduto il filo
Col qual del labirinto
uscì Theseo,
E ‘l dolce plettro del famoso
Orfeo.
Ho visto Briareo,
Il crudel Diomede, e ‘l
fier Busiri,
Tantalo, Lichaon, e
l’arco d’Iri.
Veduto ho fra gli Assiri
Un teatro, c’havea mille
e trecento
Colonne, e tutto d’oro
il pavimento.
E se ben mi rammento,
Veduto ho il tempio di
famoso grido
Ch’a Giuno eresse la
regina Dido.
Son stato dove il nido
Fa la Fenice, e visto
ove s’accende
Quando nel rogo nuova
vita prende.
Son stato ove non
splende
Il sole, e u’ son
l’acque ogn’hor gelate,
E dove si sta sotto
perpetua estate.
L’isole Fortunate
Ho viste, e gli
Arimaspi, e tutti i liti
De’ barbari crudeli e
gli empi sciti.
Vist’ho gli Ermafroditi
I Caleidensi, gli
Astomi, gli Achei,
gli Artabati, i Cureti
gli Arinfei.
I ricchi Nabathei,
Gli Panfiglij ingegnosi
e i Battriani,
Gli Derbici, gli
Corcirei, gl’Hircani
Che fan mangiare a i
cani
I lor defonti, e visto
ho i sospettosi
Bitinij, e i Boeti
furiosi.
Veduto ho gli schivosi
Budini, che si pascon di
pedocchi,
E i Cauci, che sol vivon
di ranocchi.
Ho veduto con gli occhi
Gli Agresti, Paramesidi
e i Pandori,
Che prima son bianchi, e
poi doventan mori.
I Marsi domatori
Di serpenti, e gli
scopedi, che stanno
Al sole, e con un piede
ombra si fanno.
L’hinospital Britanno
Ho visto, e il Medio
gran cavalcatore,
E ‘l Mando, di locuste
mangiatore.
Ancho il saettatore
Leuco, col lusitano
invidioso,
Ed il Lacedemonio
bellicoso.
Il vago e delitioso
Ionico ho visto, e ‘l
Lido taverniero
Col falso Megarete e
mpio e severo.
Il Taprobano altiero
Ho visto, col Mosineco
spietato,
E ‘l Parian gentile e delicato.
Ancora il fortunato
Lothofago ho veduto, con
l’audace
E fiero Sogdio, e ‘l
smemorato Thrace.
Il Tartaro rapace,
Il Numida spietato ed il
Norico
Di fero ricco, e di
militia amico.
Il Cilicio nimico
Del riposo, e di furto
così vago,
E quante gemme ha in sen
Pattolo e ‘l Tago.
Vist’ho un antropofago,
E le spelonche in cavi
sassi, e duri
De’ Trogloditi intrepidi
e sicuri.
Ho visto i laghi oscuri
Di Stige, di Cocito e
Caronte,
L’horrenda Cimbra e
l’onde di Acheronte.
Averno, e Flegetonte,
L’augel di Titio, e ‘l
seggio di Plutone,
E la ruota rigirata da
Issione.
Ed in conclusione,
Girato ho questa sfera
d’ogn’intorno,
Sin dove nasce, e dove
muore il giorno.
Al fine ogni contorno
Havendo visto, e
ricercato tutto
Il mondo, hora con
spasso, hora con lutto,
Per trar qualche
costrutto
Del gran viaggio e de la
lunga via,
E non haver gettato il
tempo via,
Di varia mercantia
Son ritornato carico,
secondo
Le profession de l’arti,
che pel mondo
Si fanno atondo, atondo.
E di Spagna ho condotti
de’ metalli,
E d’Eolia finissimi
christalli,
Ho condotto cavalli
Di Polonia, Moscovia e
di Croatia,
E del miglio ho portato
di Sarmatia.
De l’oro di Dalmatia,
Cotoni fini e rari di
Soria,
Crini di Lidia e nitro
d’Albania,
E de la Schiavonia,
Assai schiavine, e pece
di Noricia,
E pepe e zafferano di
Cilicia.
Porpore di Fenicia,
Tappeti rari e fin di
Babilonia,
E de l’allume ancor di
Macedonia.
E de la Paflagonia
Del bosso, e
d’Alessandria assai spalliere,
E d’Attica ho condotto
de le cere.
Portato ho delle vere
Perle d’Oceano, e di
Levante
Muschio, e di Creta
frezze non so quante.
De l’isola del Zante
E di Candia ho condotto
ottimi vini,
E di Fiandra assai panni
buoni e fini.
Gemme da li confini
Di Taprobana, e Lane di
Miletto,
E di Numidia marmo
bianco e schietto.
Di Sparta un bossoletto
D’alabastro ho portato,
e de le rose
Di Pesto, molto grate e
odorose.
E frutte saporose
Di Mauritania, ed ho
portato fiori
Di Papho, e de l’Arabia
mille odori.
Di più sorte colori
Uccelli ho ancor
condotti in ste contrade
Da l’isole Felici, ovver
Beate.
Polvi soavi e grate
Tolto ove stava
l’amorosa dea,
E balsamo ho portato di
Giudea.
E fin di Galilea,
Palme, e cedri di
Libano, e fagiani
Di Scitia, e di Sicilia
molti grani.
Di Francia vari cani,
E mele d’Hibra, e pigne
di Licea,
E incenso, colto a
l’isola Sabea.
De la selva Neemea
Strani animali e vari di
Corinto,
Di Palestina gomma e
terebinto.
E fin dal labirinto
Di Dedalo ho condotti in
ste confine
Alti cipressi, e piante
pellegrine.
Mirra dalle colline
Trogloditi ho tolta, e
avorio fino
D’India ho portate, e
conche di Lucrino.
E smeraldi, vicino
Eritrea tolti, e tratti
in queste strade,
E d’Africa ho condotte
molte biade.
Ambri in gran quantitade
Ho qua portati, tolti in
Etiopia,
E d’Assiria bambagio in
molta copia.
E con mia industria
propria
Di Nebride ho condotte
molte pelle,
Vasi di terra ed altre
cose belle.
Di Pithecusa, e quelle
Guidate in queste parti,
e oglio chiaro
Di Vanaso, e d’Armenia
amomo raro.
Condotto ho de l’acciaro
Di Damasco, e per far
maggior profitto,
Ho portato de l’herbe
fin d’Egitto.
D’Arcadia il cammin
dritto
Pigliando, ho latticinij
qua portati,
E frutti molto cari e
delicati.
E poscia ricercati
Ho i siti de l’Italia
similmente,
spendendo de’ miei soldi
il rimanente.
E tolto ho primamente
Sproni di Reggio, e aghi
di Milano,
Raso lucchese e vetri da
Murano.
Carta da Fabriano,
Velluto di tre peli
genovese,
Tela cremasca e sarza
cremonese.
Velluto ferrarese,
Tagliato ad opra in
varie fogge belle,
E maschare da Modona, e
rotelle.
D’Urbin varie scodelle
Di terra, nobilmente
figurate,
E di Bitonto, olive al
gusto grate.
Corone profumate
Di Roma, e stringhe,
borse e saponetti,
Di Napoli, odoriferi e
perfetti.
E forbici, e stuzzetti,
Di Brescia, lavorati a
la zimina,
E seta di Montalto, rara
e fina.
Di Nardò bambagina,
broccato e raffa fina di
Fiorenza,
E piatti lavorati di
Faenza.
Theriaca d’eccellenza
Fatta a Tortona, e
specie venetiane,
Berrette veronesi e
padovane.
Calzette mantovane,
Di seta bianche, nere,
rosse e gialle,
E lame fine, fatte a
Saravalle.
Del Regno, assai cavalle
Di buona razza ho tolte,
e assai stalloni,
Per far corsieri a tutta
prova buoni.
Così in tutti i cantoni
Ov’io son stato, e in
ogni parte e loco,
Di quel che qua non
nasce ho tolto un poco.
Sperando in tempo poco
Sopra tal merci far
guadagno tale,
Se la spesa non rode il
capitale,
In breve, esser uguale
A qual si voglia pratico
mercante,
C’hoggi cavalchi il
Ponente e il Levante.
E perché dopo tante
Fatiche, a la mia patria
salvo e sano
Son gionto, di paese sì
lontano,
Faccio palese e piano
A chi ha bisogna di tal
mercantia,
Se vuol trovarmi a la
bottega mia
Venghi dritto a la via
De’ Malcontenti, e batta
a le mie porte,
Ch’io sto a l’insegna de
la Poca Sorte.
IL FINE
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