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Il Caos Primordiale (76)
Prosegue in:
Qual'è oggi la funzione della Poesia? (78)
….Momento solenne nella Storia della spiritualità occidentale quello in
cui nascono le letterature nuove… ed ora al momento in cui le letterature nuove
nascono, le lingue volgari hanno già una Storia ormai plurisecolare, anche come
lingue scritte: ma è la Storia che non conta o poco conta nella Storia della
cultura, in quanto riguarda unicamente o prevalentemente la vita pratica.
Da esigenze pratiche, cioè, e con fini puramente utilitari nasce l’uso
del volgare nelle scritture, o comunque, come mezzo di comunicazione e di
scambio fra le classi colte e le plebee (tra il clero e i fedeli, tra
funzionari dello stato ed i sudditi ecc.) quando tra la lingua della cultura e
le lingue dell’uso famigliare e corrente s’apre un solco che già ai tempi di S.
Agostino è ampio; e sempre più approfondisce e s’allarga nei secoli successivi
sì che il latino ‘classico’ diviene incomprensibile ai non iniziati alla
scuola. Comunicare con il volgo, allora, non si può si può se non usando le
lingue, appunto volgari: ed è dell’ 813 il capitolare carolingio che impone ai
vescovi di usare il latino rustico nella predicazione: e con l’espressione
generica ‘latino rustico’ si designavano le diverse parlate che, ormai, nel
secolo IX hanno acquisito una loro autonomia.
Già nel IX secolo il latino del volgo è francese nelle Gallie del Nord,
provenzale nell’Aquitania, ladino nell’arco della cerchia alpina; e via
dicendo. E anche prima della disposizione del capitolare carolingio, il
magistero dei vescovi non poteva esercitarsi efficacemente se non mediate l’uso
delle parlate dei volghi: e abbiamo in questo senso qualche testimonianza
abbastanza precisa, che non occorre qui riferire e discutere. Di appena un
trentennio posteriore al capitolare è il primo documento del latino rustico di
Gallia: che è, dunque, nella prima metà del nono secolo, ormai ‘francese’: il
celebre ‘Giuramento di Strasburgo’ che Nitardo ha registrato nella sua ‘Storia
dei figli di Ludovico il Pio’. Nitardo ci ha conservato le formule romanze e
germaniche, dei giuramenti prestati da Luigi il Germanico e da Carlo il Calvo
nella piana di Strasburgo il 14 febbraio 842, in cospetto degli
eserciti: nel volgare romanzo di Gallia son preferiti il giuramento di Luigi il
Germanico e le dichiarazioni dei soldati di Carlo il Calvo; in tedesco sono
pronunciati il giuramento di Carlo il Calvo e la dichiarazione dei soldati di
Luigi il Germanico. Per farsi intendere, dunque, dai soldati francesi e
germanici, i due sovrani (che possiedono, ovviamente, sia il volgare francese
che quello tedesco) usano, ciascuno, la parlata dei soldati dell’altro. E per
lo scrupolo cancelleresco di Nitardo, che ha voluto registrare con precisione i
giuramenti nella loro formula autentica, ci è, dunque, rivelata la struttura e la
forma del latino volgare di Gallia, cioè del francese, nel nono
secolo; così come lo scrupolo dei notari, che hanno registrato nella loro
forma autentica le testimonianze rese davanti ai giudici di Teano e di Capua, ci
è rivelata la struttura del latino volgare dell’Italia centro-meridionale del
decimo secolo.
Invece per ciò che concerne al disciplinamento e all’affinamento delle
parlate volgari validamente ha contribuito, senza dubbio, l’uso che, per il
disposto del capitolare dell’813, han dovuto farne i vescovi
nell’omiletica: senza dubbio i vescovi, abituati a scrivere secondo grammatica,
traducendo, sia pure contemporaneamente, in volgare il latino delle loro
omelie, dovevano sentire viva la suggestione dei modelli del discorso latino; e
al volgare quei moduli, più o meno consapevolmente, trasferivano, ponendo
ordine all’incomposta e sregolata loquela dell’uso popolare e corrente. D’altra
parte non solo all’omiletica è limitato l’impiego clericale dei volgari: e la
documentazione che possediamo è, in
questo senso, molto eloquente.
E’ del decimo secolo il primo documento autentico di versione
volgare di un’omelia latina, quindi assai presto i chierici si son preoccupati
non solo di predicare in volgare al popolo la parola di Dio, ma anche di
allestire in volgare canti, inni, preghiere che servissero alla pratica
religiosa del popolo; nonché di volgarizzare testi di pietà e di edificazione…
Nell’undicesimo secolo troviamo tutta una tradizione tecnica
volgare francese da cui dipendono e a cui, qualche volta, esplicitamente si
richiamano i verseggiatori provenzali e italiani; ed è una tradizione che
appare distinta ormai – non indipendente – da quella strettamente clericale; e della quale si sentono partecipi
sia i chierici (il poeta provenzale di S. Fede), sia altri che chierici non
sono, se pure col mondo della cultura clericale mostrano evidenti relazioni. Lo
schema metrico del Gormont (un testo che è posteriore alla S. Fede) ci
riporta, insomma, ad una tradizione tecnica assai arcaica, rispetto alla quale
la formula della lassa di decasillabi monoassonanziati o monorimi, che è
del Roland e delle canzoni di gesta composte a imitazione del Roland
stesso, potrebbe apparire una innovazione. Si può a ragione pensare che la
tradizione tecnica ‘francese’ documentata dal Gormont o dalla S. Fede muova da
quel momento in cui, come affermava il D’Ovidio, la versificazione romanza
elaborata in officine clericali poté ‘uscire dalle mani dei chierici’; che si
tratti, cioè, di svolgimenti delle esperienze e dei tentativi dei chierici realizzati
in ambiente non indipendente, ma diverso da quello clericale.
Senonché, le fonti imperiosamente ci impongono di riconoscere che non
solo clericale è la tradizione dell’uso, in certa misura, letterario dei
volgari anteriore all’avvento delle letterature romanze vere e proprie; che non
solo ad opera di chierici si attua quel processo di regolamentazione e di
affinamento del volgare, cui accennavamo; ma anche ad opera di uomini che esercitano,
possiamo dire, la professione di divertire con la Poesia e con la musica, i
popoli; e sono gli uomini che si designano col termine di ‘Giullari’. Ma nelle fonti più antiche, gli ‘joculatores’
sono per lo più indicati coi termini ‘mimi’, ‘scurrae’, ‘histriones’,
‘thymelici’; e la considerazione attenta di questi termini ha consentito ad
Edmond Faral di poter dimostrare in modo inoppugnabile che la giulleria
medievale è l’erede e la continuatrice della mimica e dell’istrionismo romani.
I giullari sono, essenzialmente, ‘attori’; che non recitano, naturalmente,
commedie o drammi veri e propri, ma interpretano un’azione scenica con la danza
figurata (pantomima), o realizzano semplici ed elementari bozzetti dialogati o
anche monologhi che richiedono una recitazione declamata e, a un tempo,
atteggiata.
….La satira che quindi sarebbe stata arma
terribile in mano a questi Poeti di piazza al quale il popolo prestava così
volentieri orecchio, ai quali la stampa cominciava a dare parte della propria
meravigliosa vitalità, la satira vera, mordace ed audace, non era per queste povere
anime di rassegnati ai quali il regime pontificio e spagnolo aveva reciso ogni
strumento di virilità. Si contentavano di parodie, specialmente dell’Orlando
Furioso allora tanto in voga, e se tal volta l’istinto satirico fa capolino,
morde chi non può far paura (e l’aguzzino presenzia la limitata vista giammai
in nome e per conto del Regale [quanto del] Crocefisso solo e per soddisfar la
materia per altro a lui sconosciuta, giacché sovente l’inquisitore vittima
della propria limitata - atea- natura). Il
dialetto bolognese lodato da Dante ma da lui però stimato assai lontano da
quell’ideale di volgare illustre che egli vagheggiava, è ascritto dal Biondelli
alla categoria dei dialetti Gallo Italici da lui studiati…
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