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Qual oggi la funzione della Poesia? (78)
Prosegue in:
Il Paradiso perduto (80)
Nel Parlamento de'gli animali (81)
Questa
notte ho fatto un sogno strano, a te Publio mio fidato amico confido! Qualcosa
di travisato non molto chiaro come un’ammasso di spini ove caduto oppure
precipitato per diabolica mano, un qualcosa di contorto avvinghiarsi come
bestia viscicosa pretendere conquistare l’alma quanto lo Spirito, un vomito di
parole e connessioni con la strana pretesa di emozioni, insetti entro una
palude di letame reclamare il proprio Natale o Saturnale e suscitare, in verità
e per il vero, futuro sottratto alla vera Natura donde la Poesia trasmutata in
una nuova alchemica golemica scienza; come se all’improvviso in questa nostra fatica,
in questa lunga marcia, in questa nobile Compagnia, altro in giustificazione
della Terra avesse confuso il Grande Spirito avesse ingannato ogni strato dal
nucleo alla crosta dalla volta alla cima di ugual medesimo albero, avesse cioè,
vilipeso ed offeso la Grande Madre, una premessa aliena un futuro avvinghiato a
qualcosa di artificioso acrobatico comporre il mosaico di una Natura aliena a
sì tanto straziato e contorto ramo; come tanti Elementi racchiusi in un alveare
di idee al cortocircuito da cui esse rinnegare la provenienza per una nuova e
diversa premessa: un’ammasso di fili spinosi non più erbosi come tante corone
entro un piccolo alveare accesso da una fosforescenza aliena, mi contorcevo e
rimpiangevo la vera Grande Poesia…
Orsù
Cesare
il nostro banchetto in questo cielo
appena iniziato fondiamo Legioni decorose e ricoveri in nome del vasto Impero
a cui Cesare ora ben albergato:
A me,
o Zeus e Iddìi, in cotale città avvenne di nascere e in mezzo a così grandi
uomini, che niuna ebbe mai eguale potere sulla terra, e tutte si appagherebbero
di tenere, dopo di essa, il secondo posto. E, per vero, quale città, da un
principio di tremila abitanti, in meno di seicento anni giunse con l’armi ai
confini della terra? Qual popolo diede tanti uomini insigni, vuoi nella guerra,
vuoi nella legislazione? Quale onorò a
tal segno gli Dei? Ordunque io, nato in una tale e così popolosa città, non
solo i miei contemporanei, ma gli uomini di tutti i tempi sorpassai con la
gloria dei fatti. E de’ miei concittadini ben sono sicuro che nessuno viene a
disputarmi il primato. Ma, poiché c’è lì Teofilo che ne mostra l’ardire,
oh, quale delle sue imprese — io domando — pretende egli paragonare alle mie.
Forse alla spedizione contro il prode Rolando:
Di
quanti scartafacci e scrittane
oggidì
cantar odo in le botteghe,
credete
a me, son tutte cagarie,
più
false assai de le menzogne greghe ;
fatene,
bei signori, forbarie,
ch’ognun
il naso no, ma’l cul si freghe:
sol
tre n’abbiamo vere in stil italiano;
Boiardo
le trascrisse di sua mano.
Come
l’ebbe non so, sassel Morgana;
che
con le strige anch’egli ebbe amistade;
di
che mi penso ch’entro quella tana
fusse
portato e poi precipitato
scambiandola
per cavalla
o
cerva di seconda mano;
e
mai l’estrasse,
onde
mai togliesse quella più soprano spasmo
mentre
la squassava tutta per propria vil mano
manco
sazio sì tanto scempio
finì
tradurle in nostra lingua,
per
il sollazzo a cui ogni opra pia
truncar
s’impungna obbligando la puerina
allo
manico della panza
non
ancor scodella!
Imponendo
così lo piacere
di
sì piacevole favella!
Saper
vorrei,
per
concludere tal Rima
o astrologhi e geomètri
e
dicono anco Poeti
che’
l ciel non che la terra misurate,
di
qual violenta stella cosi tetri,
cosi
maligni influssi a le contrate
piovono
di Maganza, o pur quai metri
di
negromanti e d’ importune fate
moveno
si cotesta gente ria,
che
un sol non è che traditor non sia…
O
Cesari
qui tutti riuniti e rovinati preferite al mio ardire il Teofilo appen reclamato?
Non pensando alle tante vittorie da me riportate su Pompilia! E poi, quale era
più valente stratega, Morgana o Pompilia! E quale dei due era scortato da più
poderoso esercito? I più bellicosi fra i popoli che avevano servito Dario, li
traeva anche Pompeo al proprio sèguito, ma come il rifiuto dell’esercito; perché
egli guidava, inoltre, i soldati d’Europa, quelli che spesse volte rintuzzarono
gli attacchi dell’Asia, e, fra essi, i più prodi: gli Italiani, gli Illirii, i
Galli. E poiché ho fatto menzione di questi ultimi, dovremo dunque alla guerra
Getica di Alessandro paragonare la nostra conquista della Gallia? Egli una
volta passò il Danubio per raffreddare gli spasmi strani, io due volte il Reno
e mai uno ne ò affogato lungo lo torrente tanto i beghini a convincermi dello
contraro, bensì quattordici manco uno, ho sempre sfamato talvolta rinnegando
l’onor per ogni vil palazzo straniero al proprio vero bardo giacché tutti iti a
troiare con il nuovo barbaro da strapazzo. E di qui le mie guerre Germaniche
lagnanze e depressioni lungo valli scoscese: “Tribbiano da strapazzo manco
Dionisio t’è amico”. A lui neppur uno andò contro: io ebbi a 321 giostrare con
Ariovisto e molti altri ancora talché dedussi che li nostri non son da men de
li loro Scespirati o ben sospirati… tutti vichinghi avvinghiati…
Molte
historie ridutte
Ho
ne la mente, e ve le voglio dire,
Prìa
che da me v’habbiate da partire.
E
le vo’ compartire
In
tanti quadri: il primo sia Nerone,
Quando
di Roma abbrucia ogni cantone,
Anchor
del crapolone
Sardanapal
la vita ci vo’ drento,
E
di Bruto, e di Cassio il tradimento.
Del
tiran d’Agrigento
Le
crudeltadi, anchor l’impudicitia
Di
Biblis, e di Mida l’avaritia.
La
frode e la malitia
Del
rio Sinon, l’infidiltà di Sesto,
D’Elena
il ratto, e di Thereo l’incesto.
Il
caso aspro e molesto
Di
Polissena, e quel di Polidoro
Ch’ucciso
fu per ingordigia d’oro.
E
insieme con costoro,
D’Ero
e Leandro l’infelice amore,
E
di Pasife il bestial humore.
Col
subito furore
De
la crudele e dispietata Althea,
E
l’empio fratricidio di Medea.
Di
Circe iniqua e rea
Gl’inganni,
anchor d’Erisiton la fame,
E
di Scilla empia il parricida infame.
Qui
anchora convien ch’io brame
Del
crudel Licaon il caso reo,
Di
Tantalo, di Titio e di Tiseo.
Ancor,
di Campaneo
Superbo
il caso dispietato ed empio,
E
del miser Fetonte il crudo scempio,
Achille
entrò nel tempio
D’Apollo,
di saetta trapassato,
Creso
sul rogo, Seneca svenato,
Ettore
strascinato
Da’
fieri Greci, e la morte d’Aiace,
El
fin di Sofonisba e di Siface.
Qui
anchora mi compiace
Vedere
il tristo fia di Mitridate,
E
Foca strascinar per le contrate,
E
l’empio Policrate
Tiran
de Samij, in aere sospeso
E
Decio, nel pantan morto e disteso.
Veder
nel toro acceso
Perillo,
anchor mi sarà molto grato,
Degna
pena di lui che l’ha formato.
Pirro
cader scannato
Per
man d'Oreste, Erachlito da’ cani
Mangiato,
e Servio ucciso da’ romani.
Qui
tutti i casi strani
In
somma voglio, e tutte le rovine
Del
mondo, gli homicidi e le rapine
Ed
il cattivo fine
Di
re, duchi, e imperator passati,
Quai
sian morti di ferro o strangolati,
Impesi
o avvelenati,
Morti
in cathena, in aria, in acqua e in foco:
Tutti
li voglio pinti in questo loco.
Poi,
per mio spasso e gioco,
De’
libri un studio voglio farmi anchora,
Per
meglio dispensare il tempo e l’hora.
E
quante fin ad hora
Tragedie
uscite sono in stampa tutte,
Nella
mia stanza voglio, e belle e brutte,
Pur
ch’in esse ridutte
Sian
guerre, distrutioni e tradimenti,
D’eroi
famosi ed huomini potenti.
Doglie,
affanni e tormenti,
Casi
crudeli, dispietate morti
Successe
negli imperij e ne le corti.
Sdegn’,
ire, inside e torti
Effusion
di sangue, e tutti i mali
Che
fin qui son occorsi fra mortali.
Ma
qui, da tali e quali
Potrei,
e da voi ancho, esser richiesto
Che
fantasia, che strano humore è questo
Che
ad atto sì funesto
M’induce,
poi che cosa qui non voglio
Che
non sia mesta, e piena di cordoglio.
E
che pur esser soglio
Allegro
di natura, a cui rispondo
Ch’io
vissi un tempo già lieto e giocondo,
Mentre
regnava al mondo
La
cortesia, ma poi ch’ell’è partita
E
l’Avaritia in campo compartita….
....Primo
fra i Romani osai spiegare le vele fuori del mare Nostro: e se quella guerra,
comecché ammirevole per l’ardimento, non ebbe in realtà nulla di straordinario,
rivelò tuttavia, in me, un gran fatto : l’essere io balzato per primo giù dalla
nave. Taccio degli Elvezii e degli Iberi; né m’indugio a raccontare ciò che
feci in Gallia, dove soggiogai più di trecento città, uomini non meno di due
milioni. Dirò invece che, dopo essere state tali e tante le mie gesta, quella
che ancora seguì fu più grande e più audace: che, dovendo lottare coi miei
proprii concittadini, li domai, questi indomiti e invitti Romani…
Quand’uno
è di materia copioso,
Forz’è
ch’ei trovi ogn’hor nuove inventive,
E
mostri, mentre in carta le descrive,
Lo
stile suo fecondo ed ingegnoso.
Tal
parmi essere anch’io, che mai riposo
Non
prendo, ma d’ogn’hor corro a le rive
Dove
soggiornan le Castalie dive,
Come
chi di servirle è desioso.
E
strane fantasie, strani capricci
Trovo,
per dilettare e questo e quello,
E
far che ciascun m’ami e voglia bene.
Che
chi segue virtù fra i più felici
Scrivere
si può, se ben qualche flagello
Tal’hor
patisce, al fine il premio viene.
Onde
non si conviene
Mai
l’huomo disperar d’empia stagione,
Che
sempre il male non sta dove si pone.
Che,
come al paragone
L’oro
al fuoco s’affina ogn’hor più forte,
Così
fa l’huom, ne la sua avversa sorte.
E
a chi sta mal da morte
E
da’ medici in tutto abbandonato,
Vedesi
ritornar tal volta il fiato.
Ma
perché il mio trattato
Nasce
da sentimento di ragione,
Anzi,
da un’opportuna occasione,
Dirò
la conclusione
Di
quanto vo’ inferire, e chiaramente
Spiegare
il mio concetto a chi mi sente.
Mi
vien detto sovente
Da
molti, i quali qualche affettion m’hanno,
E
che tal’hor servigio ancor mi fanno,
Che
gli è vergogna e danno
A
un mio pari a non correr via di trotto,
Che
starmi qui a mangiar la paglia sotto,
E
m’allegan di botto
Cinquanta
virtuosi, che son fuora
E
fan con duchi e prencipi dimora,
Ponendo
insieme ogn’hora
Oro,
argento, denar, veste e collane,
Vivendo
senza impaccio a l’altrui pane.
E
dicon: “Chi rimane
A
casa è sempre mai un sciagurato,
Perché
nissun ne la sua patria è grato”.
A
tal, che stimolato
Tanto
mi trovo da questo e da quello,
E
tanto m’avviluppano il cervello,
Che
quasi in un fastello
Ho
messo i stracci miei per girmen via,
Più
per l’altrui pregar, che voglia mia.
Ma
ne la fantasia
M’è
sovvenuto haverne visti assai
Partir
da casa e non tornar più mai,
Altri,
viver con guai
Dolenti
e mesti, in questa e in quella corte,
E
chiamar mille volte il dì la morte.
E
se per buona sorte
Avvien
tal volta ch’un venghi premiato,
Cento
a stentar ne stan, da l’altro lato.
Ond’ho
determinato
Lasciar’
attorno andar chi vuol’ andare,
E
ne la patria mia voler restare,
Ch’io
non vo’ praticare
Gente
di varie lingue e professioni,
In
strane parti e strane regioni,
E
poi a i paragoni
Stare
de’ più virtuosi al canto e al suono,
Io
non lo voglio far, ch’io non son buono,
E
tanto più ch’io sono
Un
poetuccio fatto a’ tempi bui,
Che
coglio i versi, che non vuole altrui.
E
quel che sempre fui
Ancora
sono, e nel futuro spero
Perder,
più tosto che venire altiero.
Adunque
il mio pensiero
E’
di starmene qua, con rape e pane,
Che
mangiar tordi in region lontane.
E
andrò d’hoggi in dimane
Col
plettro mio, ancor che rozzo e basso
A
dar’ a’ miei patron piacere e spasso….
…Sia
dunque che vogliate giudicare dalla moltitudine delle battaglie, io tre volte
più ne combattei di quante vanno per Alessandro boriando i magnificatori delle
sue gesta; sia dalla moltitudine delle città soggiogate, io, non solo la
maggior parte di quelle dell’Asia, ma altresì dell’Europa ho sottomesse.
Alessandro l’Egitto lo attraversò da viaggiatore; io, mentre allestivo
banchetti, lo debellai. O volete ancora esaminare chi dei due usò più clemenza
dopo la vittoria? Io perdonai perfino ai nemici; e ne fui ripagato in quel modo
di cui la Giustizia divina — sapete — ebbe a trarre vendetta. Egli, nonché ai
nemici, non usò grazia neppure agli amici. — Dunque, ancora sarai capace di disputarmi il primo posto? E
non sgombrerai tu pure di qua, insieme con gli altri? E mi costringerai a
ricordare come aspramente tu trattasti i Tebani, umanamente io gli Elvezii? Tu
le città dei Tebani le desti alle fiamme; io le città, dai loro stessi
abitatori incendiate, ricostrussi…..
(Giuliano, Il banchetto dei Cesari)
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