CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

mercoledì 15 febbraio 2023

CONSIDERAZIONI PIU' O MENO ERETICHE SUI TERREMOTI (11)











Precedenti capitoli 


circa i terremoti  (10)








Prosegue con: 


Considerazioni 


più o meno eretiche 


sugli stessi 








Prosegue con la 


deriva dei continenti e i 


continenti alla deriva (12) 







Prosegue ancora con 


Wegener & Mantovani [13]













….Certamente i poeti hanno voluto intendere per carcere quello nel quale [i venti] stanno nascosti, chiusi sotto terra, ma non hanno capito questo, che ne ciò che e chiuso e ancora vento, ne ciò che e vento può più imprigionarsi. Infatti ciò che e in chiuso e calmo, e aria immobile: il vento presuppone sempre una fuga d’aria.

 

A queste prove da cui risulta che il terremoto e determinato dall’aria, si aggiunge anche questo, che il nostro corpo non trema altrimenti che se qualche causa perturbi lo spirito vitale, quando questo si contrae per la paura, quando illanguidisce per la vecchiaia e ristagna per la perduta elasticità delle arterie, quando si arresta nei suoi movimenti per il freddo o all’avvicinarsi di un accesso febbrile perde la regolarità del suo corso.

 

Infatti sin quando esso circola senza ostacoli e segue normalmente la sua via, il corpo non e scosso da tremore; ma quando invece incontra qualche ostacolo che impedisce le sue funzioni, allora, incapace di sostenere ciò che con la sua energia regolava, indebolendosi scuote tutto quello che quando era sano teneva insieme.

 

(Seneca)




Lo studio scientifico dei terremoti è relativamente nuovo. Fino al XVIII secolo furono registrate poche descrizioni fattuali dei terremoti e la causa naturale dei terremoti era poco compresa. Coloro che cercavano cause naturali spesso giungevano a conclusioni che oggi sembrano fantasiose; una teoria popolare era che i terremoti fossero causati dall’aria che usciva dalle caverne nelle profondità dell’interno della Terra.

 

Il primo terremoto per il quale abbiamo informazioni descrittive si è verificato in Cina nel 1177 a.C., il catalogo cinese dei terremoti descrive diverse dozzine di grandi terremoti in Cina durante le successive migliaia di anni. I terremoti in Europa sono menzionati già nel 580 a.C., ma i primi per i quali abbiamo alcune informazioni descrittive si sono verificati nella metà del XVI secolo. I primi terremoti conosciuti nelle Americhe furono in Messico alla fine del XIV secolo e in Perù nel 1471, ma le descrizioni degli effetti non erano ben documentate. Nel XVII secolo, le descrizioni degli effetti dei terremoti venivano pubblicate in tutto il mondo, sebbene questi resoconti fossero spesso esagerati o distorti.

 

Nel 115 d.C. Antiochia fu al centro di un grande tumulto. La città era piena di soldati comandati dall’imperatore Traiano, si udirono forti tuoni, venti eccessivi e rumori sotterranei, la terra tremò, le case crollarono le grida delle persone sepolte tra le rovine passarono inascoltate. L’imperatore si lanciò da una finestra mentre le montagne venivano abbattute i fiumi scomparivano e venivano sostituiti da altri di nuova formazione. Quattro secoli dopo (20 maggio 526) la stessa città condannata fu totalmente sconvolta da un nuovo terremoto, si dice che morirono 250.000 persone. 

(Terremoti)




 …Arrivai ad Antiochia l’ultima settimana di luglio, in una giornata calda e umida…

 

Davanti alla porta della città incontrai una gran folla di uomini e donne. Naturalmente, pensai che fosse accorsa a darmi il benvenuto, e stavo per fare un discorso di ringraziamento.

 

Ma nessuno mi badava.

 

Gridavano tutti strane parole agitando ramoscelli.

 

Cercai con lo sguardo mio zio Giuliano, ma non c’erano dignitari in vista, soltanto la folla che continuava a cantare ritmicamente:

 

‘Una nuova stella è sorta in Oriente’.

 

Confesso che la presi per un’allusione a me: ci si abitua a ogni sorta di iperbole. Ma quando tentai di parlare, la gente non mi ascoltò. Continuavano tutti a fissare il cielo. Alla Porta di Settentrione il prefetto del pretorio Saluzio Secondo, mio zio e il senato, mi diedero il benvenuto ufficiale.  Non appena i convenevoli furono terminati domandai:

 

‘Che cosa fa tutta questa gente?’.

 

Mio zio si scusò molto. Di tutti i giorni del calendario avevo scelto per il mio arrivo ad Antiochia proprio quello in cui si commemora la morte di Adone, l’amante di Afrodite.

 

Così feci il mio ingresso ad Antiochia fra i pianti, gemiti e nenie funebri, che rovinarono irrimediabilmente la mia prima impressione della città. Una città magnifica, popolata di mascalzoni. Ma sono ingiusto. Gli antiocheni sono fatti in un modo e io in un altro.

 

Io sono un cane e loro son gatti.




Al cantante Anacreonte, infatti, avvenne di comporre molte gaie canzoni: poiché era nato per godere della propria come altrui limitata conoscenza. Ma non così ad Alceo né ad Archiloco di Paro, lddio concesse di volgere la Musa a cose gioconde e dilettevoli.  lmperocchè, condannati, ora per questa ora per quella cagione, a soffrire, della poesia servivansi al solo scopo di rendere più lievi a sé stessi, mediante l’invettive contro gli avversari, i mali che il cielo a loro impartiva.

 

A me invece la legge proibisce - come, credo, ad ogni altro - di accusare per nome coloro che, in nulla da me maltrattati, tentano recarmi del male: e di usare la forma poetica me lo sconsiglia il sistema di educazione che ora prevale fra gli uomini liberi.

 

Infatti, coltivar la poesia sembra oggi più turpe di quel che paresse, una volta, l’arricchirsi disonestamente.

 

Ma non per questo vorrò io rinunciare, per quanto è in me, all’aiuto delle Muse. Ben io ho visto anche i barbari d’oltre Reno cantare canzoni selvagge composte in una lingua che somiglia al gracchiare di certi striduli uccelli, eppur compiacersi di tali canzoni: poiché si dà sempre il caso che i cattivi musicisti siano per il pubblico una tortura a sé stessi sono gradevolissimi.

 

Il che io appunto considerando, ho preso l’abitudine di ripetere a me stesso, non col medesimo fondamento, ma - ne sono persuaso – con somigliante fierezza, quel che diceva Ismenia: che, se non altro, canto per le Muse e per me.




 Il mio canto, veramente, è in forma prosastica. E contiene molte e grosse invettive: non contro terze persone, per Dio - e come, se la legge lo vieta? – bensì contro il poeta e l’autore stesso.

 

Infatti, scrivere di sé vuoi lodi vuoi biasimi non c’è legge che lo interdica. Ora io, di lodarmi, anche volendo ad ogni costo, non avrei alcun motivo, di vituperarmi mille.

 

[….] Che voi di ciò siate fieri, chiaro lo venite dimostrando in molte occasioni, ma, più che tutto, nelle piazze e negli spettacoli : il popolo con gli applausi e con le grida; i magistrati con la nomea che dalle spese profuse in siffatti festeggiamenti ricavano, più grande che non ricavasse Solone ateniese dal suo colloquio con Creso re dei Lidii.

 

Siete tutti belli, e imponenti, e lisci, e sbarbati, tanto giovani quanto vecchi egualmente imitatori del beato vivere dei D Feaci,

 

Abiti nuovi e lavacri tepenti e molli giacigli scegliendo

 

in cambio della virtù.

 

E tu credevi che la tua rusticità e la misantropia e la goffaggine potessero andare d'accordo con questi nostri costumi?

 

Oh, il più idiota e il più scontroso uomo del mondo, è proprio così insensata e cosi fatua codesta tua animuzza cui i poveri di spirito applicano titolo di sapiente, che tu sul serio creda di doverla con la saviezza adornare ed abbellire?




 A torto: perché, in primo luogo, la saviezza che cosa sia noi Antiocheni non sappiamo: ne udiamo il nome unicamente, l’opera non vediamo. Ché se consiste nel vivere come tu ora vivi, vale a dire, se bisogna servire gli Dei e le leggi, essere eguale con gli eguali, della superiorità che sopra gli altri uno avesse usare con dolcezza, vegliare e provvedere affinché i poveri non patiscano soprusi dai ricchi, e per questo prendersi brighe, come è da credere sia avvenuto spesse volte a te, inimicizie, ire, contumelie, e anche ciò ingollare  virilmente e non offendersi né cedere all’ira, ma contenerla, quanto più si può, e castigarla; se infine si aggiungesse fra gli atti della saviezza anche questo, di astenersi da ogni piacere che pur non paresse, in pubblico, eccessivamente obbrobrioso e disonesto, nella convinzione che non sia possibile essere savi in privato e fra le pareti domestiche, quando in pubblico e allo scoperto si vuol fare i licenziosi e ci si diverte agli spettacoli: se dunque realmente la saviezza è una cosa siffatta, tu sei rovinato e rovini nel contempo noi pure, che non tolleriamo di udire di servitù neanche il nome, né verso gli Dei né verso le leggi.

 

Evviva, dappertutto, la libertà!

 

Ma via, quale ironia è codesta?

 

Tu dici di non essere Signore e non tolleri di essere chiamato così, anzi a tal punto ti infuri che i moltissimi i quali ne avevano antica abitudine li hai indotti a smettere  come odioso quel titolo di podestà; e dopo ci costringi ad essere schiavi dei governanti e delle Leggi.




[….] Quindi, io chiedo primieramente scusa per me; poi la concedo in ricambio anche a voi, che emulate i patrii costumi. Né ad obbrobrio vi ascrivo di essere, secondo il verso di Omero,

 

Menzogneri e nell’arte dei pie’ danzatori maestri;

 

…anzi dico che ad onore vi ridonda l’imitazione delle patrie consuetudini.

 

Infatti, anche Omero per lodare Autolico disse che a tutti sovrastava…

 

In ladreria e spergiuro…

 

Ed io pure la mia ruvidezza, la mia stupidità, il mio fare burbero, il mio non essere facilmente malleabile, il non subordinare gli affari miei né a raccomandazioni né ad inganni, il non cedere alle proteste, questi ed altrettali miei difetti, io li adoro.

 

Se siano più lievi o più gravi dei vostri, ciò sapranno forse gli Dei: degli uomini niuno sarebbe in grado di dare il verdetto. E noi non gli crederemmo, per egoismo: poiché è nella natura umana che ciascuno ammiri le cose proprie, disprezzi le altrui. Tant’è che chi con le persone di opposti principii usa indulgenza, quegli a me pare fra tutti il più discreto.

 

(Giuliano)




Per una reale definizione e considerazione di un ‘problema’ con una conseguente ‘risoluzione umana’ posta nella ciclicità di un evento naturale come il ricorrente fenomeno tellurico, con il quale l’evoluzione della progressione geologica…

 

(precedente alla ‘vita’ successivamente classificata del regno animale come vegetale, quindi dedotta per ogni successivo reperto dalla scienza paleontologica rinvenuto nella crosta; e, non escludendo o isolando il ‘fenomeno’ come simmetrico allo stesso principio classificatorio, ed anzi ammettendo che l’Uno nato e quindi successivamente evoluto [posto alle condizioni matematiche di un enunciato con i simboli che più si convengono tenda a porre le condizioni di irreversibilità del proprio dall’altrui risultato, ovvero, mentre la Natura procede dall’Uno verso il progressivo miglioramento, l’humano in simmetrico enunciato tende a porre le condizioni di involuta irreversibilità opposta alla Logica da cui deriva posta al negativo assoluto…], sia della stessa ‘inanimata e animata’ Natura e consistenza affine al progredire della Vita evolutiva; se quindi ammettiamo l’Uno innanzitutto qual forma primordiale del tutto dall’Universo evoluto, calco e forma d’ogni prospettiva ‘culturale’ [‘cultura’ intesa e posta nella globalità delle connessioni ‘in e per cui’ si manifesta ed esplicita tanto il Divino come la Filosofia, sia essa scienza Teologica o scienza esatta affine alla vita come alla metafisica si guardi a tal proposito il noto Giamblico, ultima forma di Neoplatonismo]; riscontriamo qual risultato ottenuto, anche quando pensiamo presumibilmente la Vita evoluta, - tratta e/o sottoposta - alle singole considerazioni classificatorie dalla materia dedotta, procedere incontrovertibilmente alle paradossali condizione d’ugual medesima deriva deduttiva [con cui leggere simmetrica Storia], con la quale, come afferma lo stesso Wegener, si evidenzierà l’aspetto di ricerca della verità tratta e posta alla deriva evolutiva [ed ovviamente compresa la Storia detta…])




….dalla crosta alla superficie d’ogni Terra emersa o inabissata si esplicita in forza ‘della e nella’ Natura (e non certo demoniaca), non possiamo o dobbiamo escluderne ogni suo Fenomeno per il conseguimento evolutivo - e non solo della Verità - a cui ognuno per sua ugual Natura aspira o dovrebbe (e non solo lo scienziato positivista), compresa ogni verità Divina che il fenomeno non volendo esplicitando sottintende. 

 

Il quale come fenomeno al meglio rivela Natura e distanza nella forza e consistenza di tutta la propria energia apparentemente distruttrice rilevare l’altrui impotenza; e simmetricamente risaltarne, nella prospettiva d’ugual Memoria in cui avvertito, una Storia non disgiunta dalla Natura (come abbiamo letto da Seneca), la quale in medesima frattura costantemente rinnova ed evidenzia - come risalta - scissione e deriva ove ogni cultura - e non solo l’umana sviluppata -; facendo sorgere all’Alba d’ogni Coscienza (animata e inanimata) l’ineguagliata Profetica Luce a dispetto d’oscuri oracolari Filosofi pagani posti alla deriva.

 

Ed altresì riscontrando su ugual onda sismica alla Luce di medesima presa di Coscienza (e non solo storica), seppur la tellurica frattura divida per poi successivamente alla deriva nata unisca (intendendo la Natura nella prospettiva d’un medesimo Dio pregato),  l’umana fragilità in cui delinearne come interpretarne, per poi solo dopo leggere e decifrarne gli opposti intenti nei limiti della nostra natura d’una seppur minuscola ‘evoluta particella’, in cui porre la vera e più saggia prospettiva, per come la Vita s’intenda o dovrebbe.




Accade raramente, dato lo stato ancora imperfetto delle nostre attuali conoscenze, che, nel riferirci al passato della terra, si giunga a risultati opposti, sia che si consideri il problema dal lato biologico sia da quello geofisico. I paleontologi concordano coi geologi e coi botanici nell’ammettere che i continenti, oggi separati da una larga estensione di mare profondo, fossero uniti nel passato geologico da tratti di territorio che resero possibile uno scambio ininterrotto e reciproco della fauna e della flora. I paleontologi traggono questa conclusione dalla presenza di numerose specie identiche, che nel passato della terra vissero sugli uni e sugli altri continenti e per le quali sembra inverosimile ammettere un’apparizione contemporanea. E che la percentuale di casi identici sia limitata, si spiega facilmente con il fatto che solo una parte degli organismi a quei tempi si è conservata allo stato fossile ed è stata trovata fino ad ora.

 

Ed anche se l’intero mondo organico fosse stato un tempo identico su tali continenti, la limitatezza delle nostre conoscenze non potrebbe avvalorare tale ipotesi; e d’altra parte, anche ammessa una completa possibilità di scambio, può darsi che il mondo organico non sia stato completamente identico, così come oggi l’Europa e l’Asia hanno una flora e una fauna loro particolari.

 

 Allo stesso risultato giunge anche lo studio comparato dell’attuale regno animale e vegetale.




Le specie attualmente viventi sui due continenti sono sì diverse, ma i generi e le famiglie sono ancora gli stessi, ciò che oggi è il genere o la famiglia fu in altri tempi la specie.

 

Allo stesso modo le affinità esistenti tra la fauna e la flora d’oggi portano a concludere che anche la fauna e la flora del passato geologico fossero identiche e che perciò debbano aver avuto luogo degli scambi.

 

Solo dopo che venne a mancare questo collegamento si sarebbe determinata una separazione nelle varie specie oggi viventi. Non si ripeterà mai a sufficienza che se non si ammettono queste unioni tra i continenti, tutto lo sviluppo della vita sulla terra e l’affinità degli attuali organismi, pur viventi in continenti lontani, sono desinati a restare per noi un enigma insolubile.

 

Nelle pagine precedenti ci siamo fermati con intenzione un po’ a lungo sulle obbiezioni mosse alla teoria della contrazione, perché in una parte dello svolgimento seguito da queste idee ha radici un’altra teoria oggi diffusa, soprattutto tra i geologi americani, indicata come teoria della permanenza. Willis così si è espresso: ‘I grandi bacini oceanici sono delle formazioni permanenti della superficie della terra e, all’infuori di piccole variazioni nei loro contorni, si sono trovati sin dalla prima raccolta delle acque nello stesso luogo ove si trovano ora’.




In realtà, già in precedenza, a proposito della provenienza dei sedimenti marini dai mari superficiali, eravamo giunti alla conclusione che nella storia della terra le masse continentali come tali debbono essere state  permanenti. L’impossibilità che deriva dalla teoria dell’isostasia di considerare gli attuali fondi oceanici come dei continenti intermedi sprofondati, si completa con l’idea di una permanenza generale dei fondi dei mari e delle aree continentali. E poiché anche qui si è mossi all’ipotesi che la posizione relativa delle aree continentali non abbia subito alcun cambiamento, il modo in cui Willis ha espresso la sua teoria della permanenza appare come la conseguenza logica delle nostre osservazioni geofisiche, che portano a non tener conto di antichi collegamenti continentali assistiamo così a questo fatto singolare e cioè che, sull’aspetto preistorico della nostra terra, dominano due teorie completamente opposte:

 

In Europa la teoria dei ponti, in America la teoria della permanenza dei fondi oceanici e delle aree continentali.

 

Ma quale è la verità?

 

In un dato tempo la terra non può avere avuto che un dato aspetto. Vi furono un tempo dei ponti di territorio oppure i continenti erano separati come oggi da estesi fondi oceanici? È impossibile non accettare l’ipotesi degli antichi collegamenti continentali se non si vuole rinunciare a comprendere lo sviluppo della vita sulla terra. Ma è ugualmente impossibile respingere le ragioni con le quali i sostenitori della dottrina della permanenza si rifiutano di ammettere l’esistenza dei continenti intermedi. Non resta allora che una possibilità: e cioè che nelle premesse date come intuitive si nasconda qualche errore.

 

A questo punto si inserisce la teoria della deriva dei continenti.




L’ipotesi, di per sé intuitiva, che sta alla base sia degli antichi collegamenti continentali, sia della dottrina della permanenza, e cioè che la posizione relativa delle aree continentali le une rispetto alle altre non sia mai mutata, deve essere falsa. I continenti debbono aver subito uno spostamento. L’America meridionale deve essere stata vicino all’Africa e aver formato con questo un unico continente, che nel Cretaceo si scisse poi in due parti, le quali, come un masso di ghiaccio che si spacchi, nel corso di milioni di anni si allontanarono sempre più l’una dall’altra.

 

I contorni di queste due masse sono ancora oggi di una concordanza sorprendente.

 

Non solo la grande spaccatura ad angolo retto, che si nota sulla costa brasiliana presso il capo San Rocco, trova il suo corrispettivo nella spaccatura della costa africana presso il Camerun, ma anche al sud di questi due tratti ad ogni protuberanza della costa americana corrisponde una baia di uguale forma sulla costa africana; e viceversa ad ogni insenatura sulla costa brasiliana corrisponde una sporgenza sulla costa africana.

 

Una misurazione col compasso dimostra poi che le due terre sono della stessa dimensione. Anche l’America del Nord un tempo era situata vicino all’Europa e formava con questa, per lo meno nella parte superiore, un unico territorio, che solo nel tardo Terziario, e al nord solo nel Quaternario, si scisse in corrispondenza della Groenlandia, dando origine a terre separate. L’Antartide, l’Australia e l’India peninsulare erano situate, sino all’inizio del Giurassico, presso il sud-Africa e formavano con questa e col sud-America un’unica area continentale, anche se in parte coperta dal mare superficiale la quale, nel corso del Giurassico, Cretaceo e Terziario, si scisse in più territori, che andarono fluitando in ogni direzione. 

(A. Wegener)




Da questo improvviso ‘urlo’ di una natura povera, mutevole, incompresa, al pari d’un intero Universo che urla le sue ragioni, i suoi motivi, il suo credo. Che canta d’improvviso il suo Dio ...sconosciuto.

 

Sconosciuto a noi poveri esseri e comuni mortali, convinti di tanta, troppa ricchezza. Se d’improvviso la voce, la vera voce si solleva, e ricorda la sottile crosta, la sottile divisione, l’impercettibile casualità non letta tantomeno  compresa, allora torniamo al buco della nostra umile inconsistenza, che sia ozono o il  fondo dell’Ade, c’è poca differenza nella inutile costanza chiamata  ‘uomo’.   

 

Cosa possiamo leggere in medesimo evento.  

 

Tanto! 

 

Troppo!

 

Cosa ti potrei raccontare… Attilio, nella nostra solita passeggiata, strette le bisacce, immutata la via, fra questi cacciatori di lupi, orsi, del vento, del gelo, della segreta voce non vista né udita, ma percepita come un’intuizione di verità. Che canta le sue ragioni la mattina quanto la sera in un continuo tremore di un nuovo divenire. Cosa potrei raccontarti, che già non sia stato detto da una voce sconosciuta… 

(Giuliano, Dialoghi con Pietro Autier)


[PROSEGUE CON L'ARTICOLO COMPLETO]






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