Dire qualcosa sull’aspetto metodologico della stesura stessa: quando si
attende ad un lavoro, tutto ciò a cui si sta pensando deve ad ogni costo
esservi incorporato. Sia che in ciò si manifesti l’intensità del lavoro, sia
che i pensieri portino in sé al principio un ‘telos’ ad esso rivolto.
Questo vale anche per il caso presente, in cui si devono caratterizzare
e custodire gli intervalli della riflessione, le distanze tra le parti più
essenziali di questo lavoro, rivolte con estrema intensità verso l’esterno.
Bonificare territori su cui è cresciuta finora solo la follia. Penetrarvi con
l’ascia affilata della ragione, e senza guardare né a destra né a sinistra, per
non cadere preda dell’orrore che adesca dal fondo della foresta. Ogni terreno
ha dovuto, una volta, essere dissodato
dalla ragione, ripulito dalla sterpaglia della follia e del mito.
E’ quanto occorre qui fare per il XIX secolo.
Questo scritto sui ‘passages’ parigini, è stato cominciato sotto un
cielo libero, di un azzurro senza nubi, che si inarcava sopra le pareti ornate
di foglie, e tuttavia è stato coperto dalla polvere dei secoli dai milioni di
fogli, tra i quali stormivano la fresca brezza della solerzia, il respiro
affannoso del ricercatore, l’impeto dello zelo giovanile, il lento venticello
della curiosità. Poiché il cielo dipinto nei colori dell’estate, che si
affaccia dalle arcate nella sala di lettura della Biblioteca nazionale di
Parigi, vi ha steso sopra il suo manto sognante ed opaco.
Il ‘pathos’ di questo lavoro: non ci sono epoche di decadenza. Un
tentativo di guardare al secolo XIX in modo affatto positivo, così come nel
lavoro sul dramma barocco mi sono sforzato di vedere il XVII. Nessuna fede in
epoche di decadenza.
Similmente (fuori dai suoi confini) per me è bella ogni città ed è
inaccettabile ogni discorso sul maggiore o minore valore di una lingua.
“Sui gradini spazzati dal vento della torre Eiffel e più ancora sulle
zampe d’acciaio di un ‘pont transbordeur’ ci si imbatte nell’esperienza
estetica fondamentale dell’architettura odierna: attraverso l’esile rete di
ferro tesa nell’aria scorrono le cose, le navi, le case, i piloni, il porto, il
paesaggio.
Esse perdono la loro figura ben delimitata: discendendo ruotano l’una
nell’altra, confondendosi simultaneamente”.
Giedion, ‘Bauen in Frankreich’ (p. 7). Similmente lo storico oggi ha da
erigere una sottile, ma solida struttura – una struttura filosofica – per
catturare nella sua rete gli aspetti più attuali del passato. Ma come le
grandiose visioni offerte dalle nuove architetture in ferro della città – vedi
anche Giedion – rimasero a lungo privilegio esclusivo degli operai e degli
ingegneri, così anche il filosofo, che vuole conquistare qui le prime visioni,
deve essere un lavoratore indipendente, libero da vertigini e, se necessario,
solo.
(W. Benjamin, Parigi capitale del XIX secolo)
Facevano pena, nella loro lampante impotenza.
Più d’ogni altra cosa, avevano poi il sacro terrore di tutti coloro che
indossavano una divisa e ogni volta che scorgevano un poliziotto attraversavano
di fretta la strada e se la svignavano.
Per tutto il primo giorno, si trascinarono di qua e di là, nel mezzo
d’una assordante confusione, totalmente sperduti; e finalmente verso sera, un
agente li trovò che se ne stavano rannicchiati sotto un androne e riuscì a
condurli alla più vicina stazione di polizia.
Il mattino seguente, si trovò un interprete e la famigliola fu presa e
caricata su un tram elettrico, e le venne insegnata una nuova parola:
‘Macelli’. La gioia che provarono nell'apprendere che sarebbero usciti da
questa nuova avventura senza separarsi da un altro po’ del gruzzolo prezioso, è
indescrivibile. Si sedettero e guardarono fuori dal finestrino. Viaggiavano
lungo una strada che sembrava correre senza fine, chilometro dopo
chilometro cinquantadue in tutto, ma non
potevano saperlo fiancheggiata da due
file ininterrotte di misere e cadenti costruzioni in legno, a due piani.
Gli scorci che potevano
intravedere giù per le viuzze laterali erano sempre gli stessi: mai una
collina, mai un declivio, sempre una distesa di casupole di legno, brutte e
sudice. Qua e là, un ponte su un fiumiciattolo limaccioso, dalle sponde di
fango indurito costellate di banchine e capannoni cadenti; qua e là, un
paesaggio a livello, con ragnatele di scambi e locomotive sbuffanti e lunghe
teorie di sferraglianti treni merci. Poi qualche grossa fabbrica, squallidi
edifici punteggiati di innumerevoli finestre, con le ciminiere che vomitavano
turgide spire di fumo che annerivano il cielo in alto e si depositavano sudice
sulla terra in basso.
Ma, dopo ciascuna di queste interruzioni, la desolata processione di
tetre casupole ricominciava da capo. Un’ora buona prima di entrare in città, i
lituani cominciarono ad avvertire singolari cambiamenti nell’atmosfera che li
circondava: l'oscurità sembrò farsi più fitta, più densa, e l'erba intorno
sempre meno verde, meno lucida. Con il passar del tempo, mentre il tram
elettrico procedeva a tutta velocità, era come se i colori delle cose
s’andassero offuscando: i campi si facevano aridi e giallastri, il paesaggio
cupo e spoglio. E, insieme al fumo che diveniva più denso, cominciarono a
percepire un'altra caratteristica, un odore strano e pungente: non riuscivano a
dire se era sgradevole o meno, qualcuno forse l’avrebbe definito
rivoltante, ma i loro gusti in fatto di odori non erano raffinati e quel che sapevano per certo era che si trattava d’un odore curioso.
rivoltante, ma i loro gusti in fatto di odori non erano raffinati e quel che sapevano per certo era che si trattava d’un odore curioso.
Adesso seduti in quel tram elettrico, si resero conto d’esser sul punto
di giungere alla fonte di quell’odore..d'esser anzi venuti dalla lontana
Lituania per trovarlo. Non era più un qualcosa di vago e distante, adesso che
t’arriva a folate; adesso potevi letteralmente assaggiarlo, oltre che
annusarlo, quasi afferralo, esaminarlo a tuo piacere, voltandolo e
rivoltandolo. Le rispettive opinioni variavano al riguardo: c’era chi lo
percepiva come un odore elementare, nudo e crudo; per un altro era ricco, quasi
rancido, o sensuale e acuto; altri ancora lo inalavano quasi fosse una sostanza inebriante; e alcuni
affondavano disgustati il volto nel fazzoletto.
I nuovi arrivati erano ancora intenti ad assaggiarlo, perduti nel loro
stupore, quando di colpo la vettura s’arrestò, dal di fuori la porta fu
spalancata, e una voce gridò: ‘Macelli!!’. Scesero e si fermarono all’angolo,
abbandonati a sé, lo sguardo fisso. Giù dalla via laterale potevano scorgere
due lunghe teorie di costruzioni in mattoni e in fondo, racchiuse tra quelle
due file d’edifici, una mezza dozzina di ciminiere svettanti, alte come la
costruzione più alta, che sembravano trafiggere il cielo. Da esse si levavano
altrettante colonne di fumo spesso, oleoso, nero come le tenebre della notte,
un fumo che sembrava emergere dal cuore della terra dove divampavano senza posa
i fuochi eterni.
Si rovesciava fuori dalla bocca delle ciminiere come premuto da una
forza interiore, spingendo innanzi ogni cosa, un’esplosione senza fine,
inarrestabile. Sostavi ad osservarlo nella convinzione che ad un certo punto
dovesse pur fermarsi, e invece quelle dense volute gigantesche non cessavano di
riversarsi nel cielo, stendendosi in vaste nubi di sopra delle ciminiere,
arricciandosi e turbando lente, e infine fondendosi in un unico fiume smisurato
che oscurava il cielo con un nero drappo funebre che si stendeva fin dove
riusciva a spingersi lo sguardo.
La loro casa!
La loro casa!
L’avevano persa!
Dolore, disperazione, rabbia lo travolsero…
Che cos’era, di fronte a questa spietata, straziante realtà, qualunque
timore nutrito in carcere?
Di fronte alla vista di gente sconosciuta che viveva nella sua casa,
che appendeva le proprie tendine alle sue finestre, che lo squadrava con occhi
ostili?
Era mostruoso, era incredibile…
Non potevano farlo…
Non poteva esser vero!
Se pensava a quel che aveva passato per quella casa… le miserie che
tutti avevano sofferto per quella casa il prezzo che avevano pagato pur di
averla!
Gli tornò alla mente il ricordo di tutta la lunga agonia.
I sacrifici, quei trecento dollari che erano riusciti a mettere
insieme, tutto quel che avevano al mondo, tutto quello che li separava dalla
morte per inedia! E poi la fatica quotidiana, mese dopo mese, per racimolare i
dodici dollari, oltre gli interessi, e poi le tasse e le altre spese e le
riparazioni e che altro!
CI AVEVANO MESSO L’ANIMA per pagarsi quella casa, l’avevano pagata con il
loro sudore, con le loro lacrime... Di più, il loro sangue.
Dede Antanas era morto in quella lotta per metter da parte il denaro… Sarebbe
stato ancora vivo e arzillo, oggi se non fosse dovuto andare a lavorare nei bui
sotterranei della Durham, per guadagnare la sua parte. E Ona, anche lei aveva
dato salute ed energie per pagare la casa… E ora, era a pezzi, distrutta; e lui
pure, che non più di tre anni fa era un giovane grande e grosso e ora se ne
stava seduto lì, tremante, spezzato nel morale, vinto, a piangere come un bimbo
isterico. Ah, avevano gettato tutti se stessi, nella lotta; e avevano perso,
avevano perso! Tutto quel che avevano sborsato, era andato in fumo,
centesimo dopo centesimo. Anche la casa era andata in fumo: erano tornati al
punto di partenza, di nuovo per strada a morir di fame e di gelo! Ora,
Jurgis riusciva a vedere tutta la verità; poteva vedersi, attraverso quella
lunga sequenza d’avvenimenti, vittima d’avvoltoi famelici che s’erano gettati
su di lui, strappandogli quanto aveva di vitale, divorandolo; di demoni
che non gli avevano dato tregua, che l’avevano torturato senza perder
l’occasione di deriderlo, di sghignazzarli in faccia.
Ah, Dio, l’orrore di quella storia, la mostruosa, l’orrenda, la
demoniaca perversione di tutto quanto!
Lui e la sua famiglia, donne e bambini indifesi, che lottavano per sopravvivere,
ignorati, abbandonati a sé, sperduti, e intorno, quei nemici in agguato,
pronti a balzar loro addosso, che li incalzavano da presso assetati del loro sangue!
Quel primo maledetto volantino pieno di falsità! Quel maledetto
agente immobiliare, untuoso e mielato! E poi la trappola delle spese
extra, degli interessi, di tutti quei contributi che non avevano alcuna
possibilità di versare, che nemmeno si sarebbero provati a pagare! E gli
imbrogli degli industriali conservatori, loro padroni e loro tiranni… Le
serrate e la mancanza di lavoro, gli orari irregolari, gli spietati
aumenti di produttività, il taglio dei salari, il rialzo dei prezzi! E la
crudeltà della natura intorno, il caldo e il freddo, la pioggia e la neve;
la spietatezza della città, del paese in cui erano andati a vivere, delle
sue leggi e delle sue convenzioni che non riuscivano a comprendere! Tutte
queste cose avevano congiurato insieme contro di loro e a favore della
compagnia, che li aveva segnati come proprie prede e aspettava solo l’occasione
buona per colpirli. E adesso, con quell’ultima ingiustizia, l’occasione era
giunta – armi e bagaglio – erano stati buttati fuori, la casa era stata loro
tolta e rivenduta come nuova!
E non potevano farci nulla legati com’erano mani e piedi…
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