Poco dopo il disastro cristiano di Varna e dopo l’uccisione del
padre, alla fine del 1448 il giovane Vlad varcò il Danubio alla
guida di un esercito datogli dal sultano. Con un voltafaccia si mise sotto la
protezione del potente Giovanni Hunyadi, che lo portò con sé a Buda (dove
conobbe suo figlio Mattia Corvino, 1458-90) e lo istruì per cinque anni nell’arte
della guerra.
Vlad fece pratica in
svariate incursioni contro i Turchi e rappresaglie tra principi cristiani, in
primis contro i feudatari alleati con l’imperatore Federico III d’Asburgo,
spina nel fianco alla corona d’Ungheria. E si distinse durante l’assedio di
Smederevo (1454), in cui l’armata ottomana fu fatta a pezzi. Il suo coraggio
gli valse come ricompensa la restituzione dei feudi transilvanici che erano
stati di suo padre: le cittadelle di Almas e Fagaras, sulle falde dei Carpazi
meridionali, tra la nativa Sighisoara e l’importante centro commerciale di
Brasov, la Kronstadt dei mercanti sassoni.
E da qui si preparò a riconquistare il trono.
La situazione non era facile, i turchi avevano conquistato
Costantinopoli e il loro alito soffiava forte lungo le irte gole dei Carpazi; i
nobili si comportavano in maniera ambigua e i mercanti sassoni, dopo
un’iniziale apertura protezionistica, avevano subìto dure rappresaglie. Queste
città popolate da sassoni, fondate un secolo e mezzo prima sotto la spinta del
Drang-nach Osten che spingeva i germanici a colonizzare nuove terre, erano
fiorenti e potentissime grazie alla fitta rete di commerci che avevano saputo
instaurare lungo il Danubio, dalla Germania all’Impero bizantino.
Proprio in questi anni iniziò anche a diffondersi la sua sinistra fama come principe sanguinario e violento. La colpa è del pamphlet in lingua tedesca intitolato Storia del voivoda Dracula, pubblicato nel 1463 a Vienna dallo stampatore e libraio Ulrich Han. Il testo conobbe un successo straordinario, tanto che i sei fogli con tanto di ritratto di Vlad in copertina furono copiati, negli anni successivi, svariate volte e l’eco delle atrocità ivi contenute fece il giro d’Europa influenzando le menti di molti uomini dotti.
Così, Thomas Ebendorfer nella ‘Kaiserkronik’ (1464), il
poeta Michael Beheim autore della ballata ‘Su un tiranno chiamato
Dracula, voivoda della Valacchia’, e poi ancora, Theodor Zwinger nel
‘Theatrum viae humanae’ (1571) che lo addita a esempio di principe
malvagio nel capitolo dedicato alle crudeltà compiute dai sovrani verso i loro
sudditi, e Johann Fischer nel poema ‘Flőhhaz’ (1573) che ne rievoca un macabro banchetto sotto i cadaveri dei
nemici impalati.
Proprio il supplizio dell’impalamento dovette impressionare visto che
si trattava di un supplizio da noi praticamente ignoto. Vlad lo aveva
infatti appreso dai turchi e lo utilizzò per punire i suoi nemici, tanto che
finì per essere soprannominato ‘Ţepes’ (‘impalatore’,
in romeno) dai suoi detrattori in patria e persino, in seguito, dagli stessi
turchi.
Dal Diario di Jonathan
Stamane, mentre, seduto sull’orlo del letto,
mi lambiccavo il cervello, dall’esterno mi è giunto uno schioccare di fruste e
il tuonare e il raschiare di zoccoli equini per il sentiero sassoso di là dal
cortile. Gioiosamente sono volato alla finestra, e ho visto entrare nel cortile
due grandi carri tirati ognuno da otto robusti cavalli, e alla testa di ogni
pariglia uno slovacco con il suo grande cappello, il cinturone borchiato,
sudice pelli di pecora, stivaloni. In mano, costoro reggevano lunghe stanghe.
Mi sono precipitato alla porta con l’intento di scendere dabbasso e
raggiungerli passando per l’atrio, persuaso che il portone fosse stato aperto
per farli entrare.
Altra sorpresa: il mio uscio era chiuso
dall’esterno.
Sono allora corso alla finestra, mi son messo
a gridare. Hanno alzato la testa con aria inebetita indicandomi l’uno
all’altro, ma proprio in quella ecco uscire lo hetman degli Szgany e, accortosi
che accennavano alla mia finestra, ha detto qualcosa, e quelli giù a ridere. Da
quel momento, nessun mio sforzo, nessuna disperata supplica, nessun grido di
strazio è bastato a far sì che anche solo volgessero lo sguardo a me. Mi davano
ostentatamente le spalle.
I carri contenevano grandi casse rettangolari
con maniglie di robusta corda; erano evidentemente vuote, a giudicare dalla
facilità con cui gli slovacchi le maneggiavano, oltre che dal suono che
producevano mentre venivano spostate senza troppi riguardi. Una volta che sono
state tutte scaricate e accatastate in un angolo del cortile, lo zingaro ha
dato del denaro agli slovacchi i quali, sputando sulle monete in segno di buon
augurio, pigramente sono tornati ai loro cavalli. E poco dopo, ho sentito lo
schiocco delle fruste svanire in lontananza.
L’altro Diario di Viaggio
PER FAVORE!!!
Non chiedeteci nulla sul volo.
Di seguito troverete le risposte alle domande più comuni:
1. Sì, facciamo parte di uno squadrone di inseguimento.
2. A
volte è pericoloso, a volte no.
3. Più
voliamo in alto, più fa freddo.
4. Ce
ne accorgiamo congelando quando fa più freddo.
5. Altezza
di volo: 2000–7000 metri.
6. Sì,
possiamo vedere le cose a quell'altezza, anche se non molto bene.
7. Non
possiamo vedere attraverso un telescopio perché trema.
8. Sì,
abbiamo sganciato bombe.
9. Sì,
abbiamo abbattuto aerei nemici.
10. Sì,
abbiamo assistito alla perdita di molti amici.
All’inizio di aprile, durante una pattuglia al tramonto, sette Nieuport li ulularono da un banco di nuvole. Non avevano alcuna possibilità di superarli. Al primo passaggio, i traccianti si lanciarono in tutte le direzioni e tutti si dispersero, a destra o a sinistra, girandosi di scatto per puntare le armi. Perse le tracce di Allmenröder. Nessuno mantenne una rotta dritta o una virata costante per più di un secondo. Le sue orecchie si abituarono a un rumore simile che smise di sentirlo; volò in un silenzio assordante.
Fu individuato per un’attenzione speciale da
un aereo argentato con una mazza nera dietro il suo cerchio sulla fusoliera. Si
inseguivano a vicenda, perdendo quota, roteando come le tazze di un anemometro,
le loro ali inclinate quasi tutto il percorso, allungando il collo l'uno verso
l'altro su un diametro di qualche centinaio di piedi.
Infine, con la sua potenza superiore, Murnau
chiuse il cerchio. Continuarono a virare con un’inclinazione quasi
verticale. Ogni volta, l’abilità del francese nel ridurre la potenza permetteva
al suo velivolo di scivolare lateralmente fuori dal mirino. A ogni virata
perdevano quota. Alla fine si librarono tra due alti alberi. Il francese non
aveva più dove andare. Tirò completamente indietro la cloche. Le sue ali
inferiori si staccarono e il suo Newport si ripiegò e rotolò in avanti, finendo
contro il tetto di un fienile. Murnau volò attraverso l'esplosione e un
detrito gli forò l’ala superiore.
Il cielo intorno a lui era vuoto mentre saliva, i combattimenti erano finiti si spostò in un'altra direzione. C’era una copertura nuvolosa a ovest.
Tornò a casa da solo, in attesa di
inseguimenti. Una mano tremava. Non sapeva come sentirsi. Era come se un
bambino con cui stava giocando si fosse ucciso per una scommessa. Era già
lavato e vestito quando finalmente Allmenröder arrivò, felice di sapere del suo
successo. Quella sera, a mensa, brindò a Murnau e ad altri due
vincitori.
I piloti francesi, riferì con fastidio, lo
avevano scelto per combattere prima ancora di alcuni dei novellini. Il giorno
dopo, aveva la vernice da meccanico sull’ala superiore. ‘Mi hai dimenticato?’
Fecero altre pattuglie. Senza rinforzi, era
solo questione di tempo. La situazione si sgretolò molto rapidamente. Una
mattina persero tre nidiacei in un unico volo. Murnau perse la coda e si
schiantò in un ruscello poco profondo. Tornò all’aeroporto sul retro di un
camion, con l’autista che percorreva le curve a tutta velocità mentre lui
guardava la nebbia e il cielo nero. La nebbia era rotta di tanto in tanto dal
lampo dei cannoni.
I piloti iniziarono a tornare indietro dalle
sortite. Il loro comandante fu atterrato in un boschetto di giovani betulle,
tanto che il joystick gli slogò la mascella e gli perforò il palato. Alla terza
sortita di una giornata fredda e piovosa, Allmenröder si diresse a sinistra in
una nuvola di pioggia viola, mentre Murnau si diresse a destra, con i
traccianti che gli passavano a spirale sopra le ali, e Murnau non lo vide mai
più.
Nel suo diario scrisse:
Sono uno scienziato gelido e per me la loro guerra è un esperimento di laboratorio. Si schiantò di nuovo, e di nuovo si allontanò. Volò intorno a un salice e finì di testa in un mucchio di barbabietole da zucchero, rami e montanti tutt'intorno a lui. La cloche gli aveva perforato un rene. Tornò dall’ospedale da campo dopo quattro settimane, senza più perdite di sangue. Ma urinare lo costringeva a piegarsi in due dal dolore. Gli aviatori della Jagdstaffel 4 organizzano uno spettacolo di varietà per il nuovo anno. La partecipazione era obbligatoria. O perché era un outsider, o perché conoscevano il suo passato teatrale, gli ufficiali della mensa lo misero per ultimo nel programma. Rimase nei suoi alloggi fino alla convocazione. Il presentatore lo presentò come “Quel miscuglio di zingaro errante, misantropo assoluto e gentiluomo colto, il nostro nonno del teatro, il tenente dottor Murnau”.
Fece il giro della stanza spegnendo le candele, lasciando solo la luce del camino. Poi salì sul palco. Recitò “Il pianista della morte”. Il fuoco dipinse i giovani volti del suo pubblico. Diede alla poesia una strana intonazione, a metà tra il patetico e il sinistro. Il suo pubblico ne fu affascinato. Gli ufficiali tamburellavano con le dita a tempo con il trum trum trum del ritornello.
Fuori era buio e faceva freddo. Per l’ultimo verso della poesia si raddrizzò in tutta la sua altezza, allungò il braccio verso l'aeroporto e gridò:
“Là, su quella bara,
Ecco l’ultimo dei miei figli!”
Ci fu una tempesta di applausi. Fu spinto e
riportato sul palco per il bis. Con le lacrime agli occhi e le spalle rivolte
ai compagni, recitò “Tre vecchi soldati, attorno al focolare del cielo”. In
seguito gli fu assicurato che non aveva mai fatto parte così tanto della Jasta.
Il giorno dopo prese fermamente la decisione di disertare. Sarebbe volato in
Svizzera, avrebbe distrutto il suo aereo e si sarebbe assentato dalla guerra.
Quanto agli zingari stessi, di cui i nostri lettori avranno senza dubbio sentito molto parlare in relazione a questo paese, fino a poco tempo fa costituivano una nazione nella nazione, e ancora oggi parlano una lingua propria, mantenendosi in una certa misura isolati dal resto della popolazione. Sono lo stesso popolo variamente chiamato Boemi dai francesi, ‘Zigenner’ dai tedeschi, ‘Gitanos’ in Spagna, ‘Tschinghenneh’ dai turchi e ‘Tsigani’ dai rumeni, che li considerano più o meno come l’uomo bianco considera il negro, e tra la loro natura e quella dello zingaro rumeno vi è molto di analogo.
Che siano di origine indù è in pochi a dubitare, poiché la loro
lingua ha una grande affinità con il sanscrito; e quando arrivarono per la
prima volta in Romania, probabilmente all’inizio del XV secolo, erano
semplicemente una razza di barbari nomadi, arrivati in seguito, che furono presto ridotti in schiavitù dai boiardi.
Molti di loro seguirono l’attività dei cercatori d’oro nei Carpazi e una parte,
se non la totalità, del prodotto del loro lavoro andava alle mogli dei voivodi; anzi,
secondo alcuni scrittori, un numero considerevole erano schiavi che la
principessa o i suoi funzionari non esitavano a vendere, maltrattare o persino
mettere a morte impunemente.
Wilkinson ce ne ha dato una descrizione tutt’altro che lusinghiera ai suoi tempi (1820). I Principati, dice, ne contenevano circa 150.000, e ‘ne fanno un uso più proficuo di altri paesi, tenendoli in uno stato di vera e propria schiavitù’. Erano in grado di sopportare una costante esposizione ai rigori del clima ed erano adatti a qualsiasi lavoro o fatica, ma la loro naturale indolenza li portava a preferire tutte le miserie dell'indigenza al godimento degli agi che si possono ricavare dall'industria.
Erano ladri per scelta, ma ‘non con l’intento di arricchirsi, e i
loro furti non vanno mai oltre le inezie’. Le donne erano ben fatte prima di cominciare
ad avere figli; entrambi i sessi erano estremamente trasandati e sporchi. Un
resoconto delle loro abitudini nel linguaggio volgare dello storico sarebbe
inadatto alla lettura dei nostri lettori. Non c’era un traffico regolare tra
loro, ‘sia gli acquisti che le vendite venivano condotti in privato, e il
prezzo usuale per un uomo di entrambi i sessi era di cinquecento-seicento
piastre’.
Afferma che il Governo ne possedeva 80.000, di conseguenza più della
metà, e che era loro ‘permesso di girovagare per il paese, a condizione che si
impegnassero a non abbandonarlo e a pagare un tributo annuo del valore di
quaranta piastre per ogni uomo di età superiore ai quindici anni’.
Vivevano in tende vicino alle grandi città e sembra che lavorassero solo quanto era necessario per mantenere in vita corpo e anima. Ma, aggiunge, ‘possiedono una naturale facilità e rapidità nell’acquisire la conoscenza delle arti’, e l’esecuzione musicale era il loro forte. Venivano anche impiegati come schiavi nelle case dei boiardi, soprattutto nelle cucine, che rendevano ‘non meno disgustose dei recipienti per i maiali’.
Venivano bastonati, spesso in presenza del padrone o della padrona, e
‘le signore di rango, per quanto giovani e belle, non mostrano molta delicata
riluttanza in simili casi di autorità’. Venivano inflitte altre punizioni,
alcune molto disumane; e sebbene i proprietari non avessero potere di vita o di
morte su di loro, se quest’ultima era il risultato di percosse troppo violente,
‘né il governo né il pubblico prendevano atto della circostanza’.
Non solo ‘i boiardi venivano allevati sotto la cura di questi servi
depravati’, ma poiché le donne delle classi più elevate non avevano l’abitudine
di allattare i loro bambini, li affidavano a balie zingare, che trasmettevano
le loro malattie e senza dubbio influenzavano la morale della loro vita
ultraterrena. Sebbene gli zingari fossero stati formalmente liberati nel
1848, la loro condizione rimase immutata dopo la repressione della
rivoluzione, e solo nel 1854 furono definitivamente liberati.
Oggi in Romania ce ne sono nominalmente 200.000, e fino a poco tempo fa erano divisi, o si dividevano a loro volta, in caste distinte, a seconda delle diverse occupazioni. I più influenti tra questi erano i ‘Laoutari’, o musicisti, che generalmente si esibiscono in bande composte da quattro o cinque uomini ciascuna. Questi di solito suonano uno o due violini, un mandolino e le cornamuse pandee.
La loro musica è selvaggia e lamentosa, e da lontano dà l’impressione che vengano suonate due o tre cornamuse. Hanno il merito di essere ottimi musicisti e di essere in grado di eseguire arie nazionali solo a orecchio. Alcuni di loro sono arrivati al rango di compositori riconosciuti e, a dire il vero, molti individui della razza zingara occupano posizioni relativamente elevate in altri settori dell’intelligenza umana.
MI SVEGLIO
ERA CONOSCIUTO COME DJANGO, un nome zingaro che significa ‘io mi sveglio’.
Il nome che i gendarmi e gli ufficiali di frontiera annotavano nei
loro diari mentre la sua famiglia attraversava l’Europa in carovana trainata da
cavalli, era Jean Reinhardt. Ma quando la famiglia fermava il viaggio
lungo un ruscello nascosto o in un bosco sicuro per accendere il fuoco, lo
chiamavano solo con il suo nome zingaro. Persino tra i suoi connazionali
zingari, ‘Django’ era un nome strano, una frase forte e telegrafica a causa
della sua costruzione verbale in prima persona.
Era un nome di cui Django andava estremamente orgoglioso.
Trasmetteva immediatezza, un senso di vita e una visione del destino.
Nacque in una roulotte a un bivio nel cuore dell’inverno. Seguendo sentieri sterrati e strade acciottolate verso nord dal Midi, in Francia, nell’autunno del 1909, suo padre, Jean-Eugène Weiss, guidò l’unico cavallo di famiglia per trainare la roulotte, scricchiolante e ondeggiante, nelle ampie pianure del Belgio. Qui, il terreno era così piatto che dava l’impressione di poter vedere fino ai confini del mondo. Il vento umido sferzava dall’Atlantico senza ostacoli nella sua fredda furia.
Cavalcando il vento, pioveva incessantemente, trasformando il giorno
in notte per mesi e mesi, finché non si pregava anche per il più debole raggio
di sole. Frenando il suo cavallo, Jean-Eugène fermò i viaggi perenni della
famiglia al bivio di Les Quatre Bras. Come avevano fatto per
innumerevoli anni, la famiglia avrebbe affrontato l’inverno riunendosi fuori
dal villaggio belga di Liberchies, nella regione sud, si accamparono
insieme a un piccolo gruppo di altri Rom per trascorrere i mesi più freddi
lungo il Flache ôs Coûrbôs, lo ‘Stagno dei Corvi’, che prendeva il nome
da una congrega di uccelli neri che infestavano gli alberi circostanti.
Con acqua fresca da un ruscello e foraggio per il cavallo dai campi
incolti, la famiglia si stabilì lì, come mai prima d’ora.
La roulotte di Jean-Eugène, chiamata ‘vurdon’ in romanì e roulotte in francese, era una tipica casa zingara dell’epoca. La famiglia viveva in una scatola di legno larga circa due metri, lunga quattro metri e alta due metri. Questa scatola era montata su due assi con ruote a raggi di legno. Tire e finimenti sostenevano il loro unico cavallo, mentre una semplice panca sosteneva il cocchiere. Sul retro, una scala conduceva alla porta d’ingresso.
La tipica roulotte zingara dell’epoca aveva piccole finestre su entrambi i lati che lasciavano entrare la luce del giorno; queste finestre erano coperte da tende di pizzo fatte a mano: il tipo di tocco domestico che rendeva una roulotte una casa. All’interno, una stufa in ghisa era imbullonata al pavimento; alimentata a legna e carbone, emanava un rosso trasparente in inverno e riscaldava l’intera roulotte. Sul lato anteriore, dominava la camera da letto, sormontata da cassettiere che custodivano oggetti personali, trapunte e coperte. Un angolo della roulotte era adibito a santuario, con una litografia incorniciata trasformata in oggetto di culto. L'immagine raffigurante la santa patrona degli zingari francesi, Sara-la-Kâli, era ornata da fili di perline multicolori e illuminata da candele votive.
Sotto la roulotte erano appese casse di legno contenenti teloni, attrezzi, secchi d’acqua, mangime per il cavallo e gabbie per anatre e polli che potevano essere portati via dalle fattorie lungo la strada. Lungo la linea del tetto e intorno all’ingresso erano intagliate volute dipinte nei più brillanti colori oro, scarlatto e indaco possibili, che brillavano come una corona dorata su un’effigie religiosa. In questa piccola casa su ruote viveva la famiglia: Jean-Eugène, sua moglie Laurence Reinhardt, la figlia decenne di Jean-Eugène e un altro figlio minore, entrambi i cui nomi sono andati perduti.
Oltre il tetto a mezzaluna e il tubo sottile della stufa della
roulotte di famiglia, le solide case in mattoni rossi di Liberchies conducevano
alla grandiosa chiesa gotica di Saint-Pierre-de-Liberchies, la cui guglia
rivolta al cielo svettava alta sulla campagna pianeggiante. I belgi dicevano di
essere nati con un sasso nello stomaco per iniziare a costruire le loro case,
tanto erano infatuati delle loro case e della sicurezza di solide fondamenta.
Ora, d’inverno, le solide case dei 700 abitanti di Liberchies erano riscaldate
da bracieri a carbone.
Le radio elettriche, che portavano notizie dal mondo e divertivano nelle serate buie, conquistavano un posto d’onore sulle mensole del camino. E in città, l’automobile stava diventando la regina delle strade, terrorizzando i cavalli zingari al passaggio sferragliante delle carrozze senza cavalli. Il mondo moderno del 1909 aveva lasciato gli zingari nella polvere.
Tuttavia, l’arrivo della famiglia di Jean-Eugène e della loro ‘kumpania’, o clan itinerante, di zingari veniva celebrato ogni autunno dagli abitanti di Liberchies con un bazar organizzato in loro onore, la Kermesse du Fichaux. Colorati come vortici nel grigiore dell’autunno belga, gli zingari vendevano gioielli, cesti e pizzi da loro creati, oltre a merci provenienti dai loro lontani viaggi. Predicevano il futuro, dipanando i percorsi di una vita dal groviglio di linee su una palma, augurando grandezza e amore, vendendo amuleti per allontanare il male.
Alcuni si specializzavano nel riparare i sedili delle sedie di
vimini. Altri rattoppavano le pentole di rame portate dalle donne del villaggio
belga; con un complesso accordato di colpi, una pentola poteva divenire un ‘concerto’;
Jean-Eugène era un ‘vannier’, un cestaio. Eppure, svolgeva anche altri ruoli,
necessari per sopravvivere durante il viaggio. Ora ventisettenne, era nato nel
1882, anche se nessuno ricordava dove. Nell’unica fotografia sopravvissuta,
scattata in Algeria nel 1915, Jean-Eugène sembra più il prospero sindaco di una
città francese che uno zingaro itinerante.
I suoi capelli scuri sono pettinati all’indietro, lasciando emergere l’ampia fronte sopra sopracciglia virili e gli occhi penetranti che dominano il suo viso. Gli zigomi sono pronunciati, la bocca nascosta dietro i soliti baffi, simbolo di mascolinità che la maggior parte degli uomini zingari sfoggia non appena riesce a coltivarne uno. Elegante nel suo abito scuro, appare distinto e, soprattutto, saggio, grazie a una vita trascorsa ad aver visto molte cose in molte terre con quegli occhi penetranti. Come diceva il proverbio rom, chi viaggia, impara.
La fabbricazione di cesti era un lavoro che Jean-Eugène praticava
solo nei periodi difficili, vantava un talento speciale: Jean-Eugène era un
intrattenitore, un altro mestiere senza tempo degli zingari. Sapeva
destreggiarsi con i migliori artisti circensi e intrattenere il pubblico con i
misteri della prestidigitazione. Ma l’orgoglio di Jean-Eugène era suonare –
violino, cembalo, pianoforte, chitarra – e dirigere un’orchestra da ballo
composta da zingari.
È proprio questo orgoglio che traspare dai suoi occhi nella fotografia: è seduto al pianoforte con la sua banda schierata intorno a lui. E mentre le mani del musicista accanto a lui sembrano quelle di un contadino che potrebbe impugnare un aratro con la stessa indifferenza con cui impugna la sua viola, le mani di Jean-Eugène sono incrociate davanti a lui in modo regale. Anche in questa antica fotografia, sembrano le mani raffinate di un artista.
Per guadagnare qualche franco extra, Jean-Eugène accordava pianoforti,
riparava anche altri strumenti musicali. Capitava che trovasse un violino
danneggiato in un mercatino delle pulci, lo barattasse a poco prezzo, lo
ricostruisse e lo rivendesse in futuro. Ma era come musicista che manteneva la
sua famiglia. Modificò la parte posteriore della roulotte di famiglia per
creare un piccolo palcoscenico itinerante coperto di tela, sul quale lui e sua
moglie si esibivano per i cittadini con i loro spettacoli magici e musicali.
Laurence Reinhardt fu presentata sul palcoscenico della famiglia come
‘La Belle Laurence’. Tra i Rom, in onore della sua bellezza scura, Laurence era
conosciuta come Négros, che in spagnolo significa ‘nero’. Creava gioielli per
venderli, ma si dedicò alla danza. A 24 anni, era famosa per la sua fluidità di
movimenti e, anche in età avanzata, Négros si sentiva spinta a ballare non
appena iniziava la musica. Sfruttava la sua esotica carnagione color tè e il suo
nero corvino.
Capelli e statura alta, in una fotografia dell’epoca, è bella, con un viso mascolino: una mascella prominente che sembra determinata anche a riposo e occhi che sembrano non temere nulla. Fu alla vigilia di uno degli spettacoli della famiglia a Liberchies che nacque Django.
La notte di domenica 23 gennaio 1910 era gelida. Gli abitanti
del paese si riunirono per lo spettacolo annuale di Jean-Eugène e della sua
compagnia rom nella locanda di Adrien Borsin, conosciuta familiarmente come
Chez Borsin. Soddisfatti per l’intrattenimento che avrebbe potuto essere un
antidoto contro il vuoto dell’inverno, gli abitanti del paese attendevano con
ansia la musica di Jean-Eugène, la commedia burlesca del suo amico Louis Ortica
e la danza della Belle Laurence. Ma quest’anno gli eventi cospirarono contro la
serata.
Négros era nella sua roulotte lungo lo Stagno dei Corvi, persa nei
dolori del parto. Era uscita a piedi per andare in città e esibirsi al Chez
Borsin quando iniziarono le contrazioni. Jean-Eugène continuò a esibirsi mentre
le donne zingare accompagnavano Négros al campo, accendevano candele per
ripararsi dall’oscurità e raccoglievano panni puliti per far nascere il suo
primo figlio. Mentre dalla città giungeva il lontano suono degli applausi, nacque
Django.
TRE GIORNI DOPO, il 26 gennaio, Jean-Eugène e Négros coprirono Django contro il freddo e partirono con i loro concittadini rom per la chiesa di Saint-Pierre-de- Liberchies. Entrarono nel battistero vestiti con i loro abiti più eleganti e brillanti, con i loro fedora tenuti umilmente in mano. Insieme agli zingari c’erano diversi cittadini, anche loro vestiti a festa. Adrien Borsin era in piedi al centro. Era un uomo robusto e paffuto che sembrava apprezzare al massimo il cibo del suo ristorante. Al fianco di Borsin c’era sua sorella Isabelle, una matrona risoluta con i capelli tagliati con cura. A simboleggiare la rara amicizia tra rom e cittadini, i Borsin fungevano da padrini e madrine di Django.
Dopo la cerimonia del nome e il battesimo, Jean-Eugène e Négros
organizzarono una festa per il loro neonato. Chez Borsin si rianimava con una
festa e musica. Il clan di zingari Manouche della famiglia non celebrava i
matrimoni, ma un battesimo, soprattutto quello del primogenito, era un evento
grandioso. Il 24 gennaio, Jean-Eugène chiese al segretario comunale,
Henri Lemens, il certificato di nascita per suo figlio. Con la calligrafia
raffinata di un burocrate di inizio secolo, Lemens inserì il nome legale di
Django come ‘Jean Reinhardt’.
Da parte sua, Jean-Eugène dichiarò di chiamarsi ‘Jean-Baptiste-Reinhard’, uno pseudonimo per nascondersi ai gendarmi francesi che lo cercavano per la coscrizione militare, e firmò con la calligrafia esperta ma incerta di un analfabeta in fondo al certificato di nascita, ‘JB Reinhard’. Lemens ignorò l’ortografia e aggiunse una “t” finale al nome del neonato, corrispondente alla pronuncia francese del nome alsaziano.
Una simile revisione dell’identità zingara era comune in tutta
Europa, un atto di crudeltà semplice ma sottile, una rielaborazione
dell'identità giuridica di una persona da parte di un funzionario di frontiera
o di un burocrate onnipotente. L’egira dei nomi zingari iniziò con l’obbligo
per i zingari di portare nomi propri cristiani e cognomi di famiglia per l’identificazione.
Questi nomi casuali venivano scelti casualmente durante i viaggi degli zingari
e avevano scarso significato per i loro proprietari; tra di loro, usavano
esclusivamente i loro nomi zingari.
Adottavano i cognomi del paese in cui vivevano in una farsa di assimilazione per mascherare la loro identità zingara. Quando attraversavano un confine o firmavano un documento, i funzionari spesso traslitteravano e alteravano i loro nomi legali nell’ortografia e, infine, persino nella pronuncia. Allo stesso tempo, gli zingari alteravano furtivamente i propri cognomi secondo necessità, cambiando la loro identità legale come si cambiavano la camicia. Il cognome di Jean-Eugène era spesso scritto foneticamente in Francia come Vées, e lui e i suoi fratelli a volte si nascondevano dietro lo pseudonimo Schmitt quando i gendarmi erano sulle loro tracce. Il cognome alsaziano di ‘Négros’, Reinhardt, letteralmente ‘qualcuno del cuore della Renania’, fu probabilmente scelto per convenienza dai suoi antenati che vivevano a lungo nei dintorni di Strasburgo, in Alsazia. Da queste diverse fonti, Django fu registrato come Jean Reinhardt.
A Django fu dato il nome legale ‘Jean’ in onore del padre, ma era il suo nome gitano a rivelare la sua vera identità. Gli zingari sceglievano per i loro figli un nome rom che evocasse un attributo fisico, come ‘Baro’ (Grande, o spesso Primogenito), o un fenomeno naturale, come ‘Chata’ (Ombra) o ‘Zuna’ (Sole). I nomi di animali fungevano da totem, come ‘Bero’ (Orso), mentre alle bambine venivano dati nomi floreali come ‘Fayola’ (Viola) e ‘Draka’ (Uva). I nomi potevano rispecchiare la personalità del bambino o le speranze dei genitori, come ‘Grofo’ (Nobile) e ‘Schnuckenack’ (Musica Gloriosa). ‘Tchavolo’ o ‘Tchocolo’ (Maschietto o Figlio) e ‘Tchaj’ (Ragazza o Figlia) erano semplici riferimenti al sesso del bambino, mentre altri nomi come ‘Bimbam’ e ‘Boulou’ erano onomatopee che riecheggiavano il balbettio del neonato.
Nel chiamare il loro primogenito Django, Négros e Jean-Eugène
scelsero un verbo rom e non un sostantivo o un aggettivo.
…Vedevano qualcosa di speciale in questo bambino.
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