CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

lunedì 27 settembre 2021

LA PERCEZIONE DELLA REALTA' (42)

 






























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Del patto alchemico (41)  (40)  (39)  (38)


Prosegue con la....:


Vostra 'parola' circa la realtà (43)








& una sua visione della stessa...









L’Essere nudo perciò non solo non è un limite esterno a me, ma non è nemmeno un limite esterno alla vita. Essere nudo è un limite interno alla mia vita. La strategia di questo discorso affronta dei luoghi nodali della tradizione filosofica, affronta l’argomento del Cogito cartesiano: penso dunque sono.

 

Derrida commenta la formula cartesiana dicendo che Descartes dice di essere pensiero.

 

Derrida dice invece di essere vita.

 

Dice di essere un vivente, un animale: ‘L’animale che dunque sono’. La vita che dunque sono. ‘Sono la vita’: l’animale è lo schermo e la cerniera di tale affermazione.

 

L’assenza di parola negli animali ci perseguita, ‘l’uomo è dopo l’animale. Lo segue. Questo dopo della sequenza, della conseguenza, o della persecuzione, non è nel tempo, non è temporale: è la genesi stessa del tempo’.

 

Il tempo non è l’ambito di scorrimento dei pensieri e degli atti degli uomini, ma il limite interno alla mia parola. Il tempo cioè occupa lo stesso luogo (?) del mio non sapermi che è in rapporto al mio essere vivente.




Il concetto di essere generato costituisce insieme il sorgere della responsabilità che è anche, al tempo stesso, colpa e debito. Fa parte della responsabilità come aspetto originario della vergogna e del pudore interrogarsi sull’animale in quanto parola.

 

‘L’animale, che parola!’

 

Derrida conia ironicamente il termine animot (ani – mot) come una modalità linguisticamente più rigorosa di nominare l’animale. L’animale infatti, diverso da me e fuori da me, si costituisce in quanto parola, ‘una parola, l’animale, un nome che gli uomini hanno istituito, un nome che essi si sono presi il diritto e l’autorità di dare all’altro vivente’.

 

Non c’è l’animale, ma ci sono dei viventi, in rapporto storico, con l’uomo. L’animale è una parola con cui l’uomo si assicura di un dominio su di sé.

 

Questa strategia di attraversamento dell’animale come parola, dell’‘animot’, è in grado di spiazzare radicalmente il clima culturale e il dibattito odierno sul rapporto tra l’uomo e l’animale, la questione della parola nell’animale.




 Tutti i filosofi che interroghiamo (da Aristotele a Lacan, passando da Descartes, Kant, Heidegger, Lévinas), tutti dicono la stessa cosa:

 

‘l’animale è senza linguaggio’.

 

O, più precisamente è senza risposta, intendendo per risposta qualcosa che si distacca precisamente e rigorosamente dalla reazione:

 

‘gli animali sono privi del diritto e della capacità di rispondere’.

 

E quindi anche di tante altre cose che sarebbero il proprio dell’uomo.

 

Gli uomini sarebbero innanzitutto quei viventi che si sono dati la parola per parlare univocamente dell’animale e per designare in lui quell’unico essere che sarebbe rimasto senza risposta, senza parole per rispondere. […] Dipenderebbe da questa parola, o forse si coagulerebbe in questa parola, l’animale, e gli uomini se la sono data con l’intento di identificarsi, di riconoscersi in vista di essere ciò che si dicono di essere, degli uomini, capaci di rispondere e rispondenti al nome di uomini.




L’animale in quanto ‘parola’ costituisce, nella logica di tale discorso, il punto e il mezzo identificativo della coscienza di sé.

 

L’animale in quanto ‘parola’, sottolineo, in quanto parola è lo strumento dell’identificazione come nominazione di sé. Non si dà la parola ‘uomo’, non si dà identità come uomo al di là della relazione strutturale con la parola animale. A quell’animale indicato dalla ‘parola animale’ è originariamente tolto, con questo atto, il ‘potere della parola’.

 

Preventivamente al fatto che l’animale non parla.

 

Che l’animale si ostina a non parlare.




Motivo della presente introduzione nella successiva differenza posta esplicitata come disquisita nei contesti della Logica, quindi della Filosofia, seppure indistintamente consumata dalla Parola, o meglio ancora, ‘masticata’ qual atto di improprio ‘consumo’ nella presunta differenza detta, per la sopravvivenza, ne più ne meno della differenza da cui la bestia, la quale anch’essa consumando con ugual appetito mai precipiterebbe l’umano nell’abisso colmato dal grido a lei offerto d’aiuto.

 

Di certo, immaginiamo la suddetta bestia soccorrerlo come al meglio può, pur digiuna comandata e confinata ai vari altari del tempio (ce ne sono tanti che abbiamo smesso di contarli); negli alternati tempi di cui eterna preda abdicata alla più dotta e mirata parola (mai sia detta ammirata, il pasto consumato all’hora del sacrifizio non comporta cotal basso istinto dell’arte confinata all’eremo rifugio della bestia, quando medita senza ‘parola’ alcuna l’intera Natura!).

 

Di certo conosciamo atti eroici in questo senso, da cui il sacrificio sottratto al sogno di Isacco.

 

Di certo, pur senza ‘parola’ alcuna, scrive i più bei esempi della civiltà - che al meglio o al peggio - vi contraddistingue e in qual tempo condanna, nell’eroico altruismo, nella violata purezza elevata sino al settimo cielo. Quello, per intenderci, più avvelenato e appestato qual frutto della ‘parola’ come dell’elevato ‘pensiero’ che la ispira.




Ed ove, se osservate bene, dotti principi e commedianti, in mancanza di quest’ultimo o primo Elemento appena detto, scorgono, o almeno intendono oppure sottintendendo, nel nuovo grado evolutivo che li eleva dalla povertà alla nuova ricchezza, il principio dell’abisso donato dalla stessa dotta ‘parola’, culminare o precipitare, dipende molto dalla prospettiva come dall’anamorfico disgiunto specchio di se medesimo, sino nella Terra più profonda d’un'infernale soffocato urlo.

 

Da cui le note Danze della Morte, contarne ed edificarne come l’affrescarne gesta e ultime glorie!

 

Immerse nella prospettiva divenuta icona, in quanto come abbiamo detto, pur non dicendo - ‘ovvero nulla’ - in quanto sprovvisti del diritto della ‘parola’ in quanto bestie, le quali assistono al compimento della prematura morte per sopraggiunto soffocamento, dato da una meteora senza anch’essa parola alcuna.   




La quale, non volendo, innesca antico dibattito, il quale dibattito coinvolge l’intera Natura e non solo umana, e dall’ ‘umano uomo’ percepita, intuita, cogitata,  rapportata ‘recintata’, nonché ‘confinata’ ad una determinata Filosofia o Teologia.

 

Quindi ed innanzitutto, scorgiamo la paradossale condizione umana, la quale principiando il diritto sulla Natura come la dovuta interpretazione del Dio che così l’ha pur creata, con tutto ciò che ne deriva circa la ‘divina parola interpretata’; e nel corso dei secoli, ovvero da quando dotato di Pensiero cogitante e parola, non meno del Verbo, ha quindi sentenziato sancito e scritto il proprio ed altrui delirante dominio.

 

Quindi ed ancora, il primo ‘assunto’ qual odierno quotidiano paradossale argomento dell’apostrofato Abisso, da cui l’Apocalisse e l’intera Natura priva di ‘parola’ alcuna nella lacuna in cui posta, sancita (paradossalmente) dalla stessa ‘icona’ (ovvero 'simbolo' assente all'atto della cogitata ‘parola’), confinare l’umano nel proprio ed altrui precipizio, da chi al di sopra della legge, come lo stesso Derrida paragona e congiunge (in ugual icona) il Sovrano con la bestia.




L’unione del filosofo nell’arguta interpretazione della Società nel tempo costruito per identico ugual intento di sopravvivenza, ci sembra la migliore definizione per inserirla a Ragione nell’odierno contesto.

 

Da cui l’uomo sovrano e la bestia!

 

Ovvero, rovesciando le successive considerazioni scritte in identiche prospettive nate da punti di fuga, circa ricchezza e povertà [di mondo], andremo a verificare, chi in realtà in povertà di mondo, e chi, al contrario, nella ricchezza pur senza parola o oro alcuno contarne il merito della differenza  [con la quale si èra soliti coniare e misurare nonché forgiare e stampare la stessa da cui opposta appartenenza].

 

Quindi, solo dopo le argute dotte argomentazioni dedotte ‘con e nella parola’, sancite nel diritto del Verbo, espresse con la Logica del Pensiero, cogliamo la marginalità dell’uomo nella percezione dell’intero Creato.

 

Quindi della vera realtà in cui confinato come una lucertola su una pietra opposta!




Quindi, ed ancora, ci domandiamo, e da animali non più intendiamo, qual uomini lupi e bestie esclusi dal dotto discernimento circa parola e pensiero abdicato ad una comitiva di coloni ubriachi, quanto, in verità e per il vero, l’uomo con il dono del pensiero come della parola percepisce intende e traduce quindi sottoscrive, la realtà del mondo intero.

 

Da noi povere bestie in ugual o diverso tempo osservato!

 

Sopra un albero, dentro una Selva, a volo d’angelo da una Cima, da un mare in odor di tempesta, dal fondo di una corrente ugualmente alternata la quale anch’essa mutata, dal nido riparo d’una roccia, dalla corsa d’un ungulato ucciso nell’istinto del primo pensiero, eretto alla sala del fiero ingordo paladino, adornare, incorniciato, l’icona della parola masticata!

 

Fors’anche abbrutita!

 

 Osservandolo di nascosto, dicevo e dico ancora, nelle coloniche profetiche apparizioni del nuovo èvo dato, ci sembra di scorgere l’animale che mai è appartenuto fors’anche nato o evoluto nell’intero contesto Creato.




Ovvero l’animale che mai siamo stati e diverremo, preferiamo l’assenza di parola come di ugual pensiero, e mai diverremmo ho appena detto e ripeto, secondo l’esempio dedotto e osservato.

 

Scrutando le alcoliche appestate viscere di quest’essere ci sembra di scorgere l’atto privo di pensiero comandato e dedotto da una impropria intelligenza artificiale ispirato, coniare tempo in procinto   dell’attentata Natura, la quale intimorita incarica parola.

 

Avendoli osservati come un animale privo della parola, da più accreditati ‘dotti’ sottratta, in nome e per conto della disquisita disuguaglianza, e pur disquisendo sulla stessa sostanza eretta o sorretta con illuminati retti principi d’un fine congiunto, e quindi come dicevo, in questo piccolo paese oppure bosco [circa ricchezza e povertà di mondo interpretata nonché applicata sancito dal principio della parola], oppure tana e non più riparo, senza diritto ad alcuna più elevata grammatica con la quale cementano - edificando - medesimo intento su ugual sentiero posto; ove mi trovo non avendo diritto alcuno alla esiliata parola detta, circa comune principio e differenza, in nome e per conto della più elevata Natura e Dio, pur senza il dio di chi impropriamente la dispensa oppure ne eleva lo spettro dell’umano demoniaco opposto principio alieno alla Terra, così come alla Parola.




 Giacché talvolta in taluni luoghi preferiamo il sublime superiore primo Silenzio qual vero esempio rispetto all’ingorda ubriaca elevata parola data da siffatto ingegno!

 

Paradossalmente coniugo infruttuoso ‘Verso’ nel principio comandato per incarico della stessa ugual ‘Natura-animale’, la quale sancisce l’enorme differenza fra chi posto nel superiore diritto della ‘parola’, con i propri proclami scritti nel sangue dell’Abisso in cui precipitato, motivo dell’urgenza nei termini disgiunti dalla stessa, posta non più nel detto ‘verso’ bensì nell’articolato linguaggio; qual reclamata improvvisa assommata calamità - quindi povertà - paradossalmente offerta dall’unione degli Elementi (da cui anche la bestia) ‘sacrificati’ qual vera e sana ricchezza mal interpretata nutrire la ‘parola’.

 

 E purtroppo condannati alla povertà assoluta.

 

La quale (umana) ‘parola’ - altresì - lo distingue dal suo stesso ‘oggetto-soggetto’ ‘assoggettato’ non cosciente di se medesimo; così come, in paradossale verità ivi esposta al rancore della futura ‘parola’, poste entrambe nell’Essere del Tempo contato coniato e numerato in cui quest’ultimo (uomo) precipitato.




Ovvero, il mondo da cui proviene assoggettato all’istinto dell’elevata ‘parola’, il quale si consegna alla disgrazia del nuovo congiunto ‘verbo’ del tempio, scritto nell’unanime baratro di ciò che in grazia della stessa (‘parola’), evoluto; e chi, al contrario, - nella differenza - senza ‘parola alcuna’, povero di mondo!

 

Dacché ci sorge la certezza di ciò con cui definito, sottratto alla Logica del Pensiero e della Parola, di cui l’odierna umana superiorità per ogni Natura; in realtà ben al di sotto circa la dovuta percezione del mondo, ovvero di ciò da cui moneta e dominio nei secoli fagocitati per ogni Elemento della stessa, derivanti dall’impedimento espresso nei termini di ‘pensiero e parola’.

 

Quindi nell’essere ed appartenere al mondo strato su strato, elemento su elemento, dall’Alto dell’Universo, sino al mare più profondo; ove se non più cammina nuota come l’antico comune antenato da cui derivata presunta parola, può rinascere delfino e vedersi allo specchio di un delirante destino, mentre lo stesso animale lo attende con l’arpione uncinato del proprio pensiero macellare ciò che intendiamo qual Viaggio terreno.

 

Medesimo Viaggio di Ulisse.




Il quale però, l’uomo cieco per sua Natura e senza percezione alcuna della realtà, ma colmo della 'poesia' della propria dottrina, macella ogni Ulisse il quale nel perenne Viaggio della Parola, pur non essendo da Nessuno cogitata o dedotta neppure cantata, ne fa’ fiero macello in nome delle più antiche odi di guerra, sia contro se medesimo, come della più nobile patria di cui più nessuna Natura udita o cantata.

 

Questo di certo uno dei tanti esempi, per non parlare di coloro che intonano digiunata appestata Poesia, i quali anche loro come Ulisse si accingono al lungo Viaggio in alto nei pregati e congiunto cieli di Adamo, scorti da moderne parabole a portata di bestiale mano, i quali pur recitando elevato Pensiero nella certezza dell’inspiegabile direzione del Tempo (dall’umano non ancora capito ne intuito), da un procio [chiamarlo con il suo nome ci pare cosa conveniente] viene colpito nell’atto della retta Natura superiore alla capacità eterna mira dell’uomo.

 

Intento della comandata Parola, così come spesso avviene nell’uccisione di medesimi antenati derivati in ugual gesto condiviso, uccisi dalla congiura della parola, abdicata all’arma del nuovo litico strumento.




 Oggigiorno il problema non risiede più nel Pensiero e Parola, giacché l'intero motivo scritto nel paradossale fine ed intento, cioè tacitare chi al meglio la interpreta e traduce alla colonica insana condizione umana senza alcuna percezione della realtà circa il Mondo.   

 

Dunque ci sembra l’umana condizione della stirpe per sempre cantata, molto più vicina alla bestialità di quanto il pensiero cogitato o su circuito artificiale comandato o barattato alla moneta dell’odierno tempo travasato nel tempio del dio denaro, impropriamente lo eleva; non avendo percezione e concetto dello stesso in falsato rapporto alchemico, di ciò che più comunemente definiamo puro oro, e ciò e al contrario, lo ‘sterco’ con cui viene concimata e seminata nonché edificata ogni Terra.

 

L’odierna umana povera percezione raccoglie hora ogni suo frutto seminato!

 

 Ben al di sotto dell’essere ed appartenere al mondo, in tutti i gradi della stessa che nei secoli si sono attribuiti nell'uso della parola; mi escludo in quanto animale da cotal paradossale esempio di odierna disuguaglianza sociale, in cui il distinto colono si differenzia nell’ubriaca molestia d’ogni giorno. (Giuliano; si prenda nota!)  ]  


(Prosegue...)









 

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