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& un uomo... (8/9)
‘Perché l’uomo va sulla Luna?’
…aveva
domandato un giornalista all’ultima conferenza stampa prima del lancio.
‘Semplicemente perché la Luna è là’
…aveva
risposto un pragmatico Neil Armstrong.
‘Che cosa vorrebbe portare con sé?’
‘Se si potesse, più carburante’.
Suo padre, revisore dei conti dello stato dell’Ohio, gli aveva fatto fare il primo volo a sei anni su un Ford Trimotor, un aereo soprannominato ‘l’oca di latta’. A sedici anni Neil aveva preso il primo brevetto aeronautico.
Gli
intellettuali americani erano più problematici.
Mentre
l’Apollo 11 si staccava dalla rampa 39/A, il sociologo Marshall McLuhan (1911-1980) parlava di
‘arroganza ridicola’.
L’antropologa
Margaret Mead (1901-1978) ribatteva:
‘Il viaggio verso la Luna era nel destino
dell’uomo’.
Il filosofo della scienza Giorgio De Santillana (1902-1974) obiettava:
‘Andare sulla Luna è come costruire le piramidi o
il palazzo di Versailles: è scandaloso fare queste cose quando altri uomini non
riescono ancora a soddisfare necessità elementari’.
Robert Rauschenberg (1925-2008), pittore
neodadaista vicino alla pop art, proponeva un’analisi da Scuola di Francoforte:
‘L’esplorazione della Luna è l’impiego di un
surplus finanziario della società dei consumi. C’è il rischio che tecnologia e
moralità sociale si allontanino sempre di più’.
Cauto ma ottimista l’astronomo e futurologo Robert Jastrow (1925-2008):
‘La parte scientifica del volo lunare prevale su
quella mondana, politica, sciovinistica. Che cosa ci aspettiamo dalle pietre
lunari? Di trovarci la storia della
nostra origine. Se ci riusciremo sarà valsa la pena di fare questo sforzo’.
Una
indagine d’opinione faceva sapere che 41 cittadini americani su 100 erano
favorevoli alle esplorazioni spaziali, 59 contrari.
‘Da questo punto di vista l’allunaggio è una
violenza contro l’opinione pubblica’,
…concludeva
il sociologo e sondaggista Louis Harris
(1921-2016).
In Italia il chimico-scrittore Primo Levi, scampato allo sterminio di Auschwitz, scriveva per ‘La Stampa’ una riflessione fatta di interrogativi e intelligenti sfumature:
‘Sappiamo cosa stiamo facendo? Da molti segni è
lecito dubitarne. Certo conosciamo, e ci raccontiamo l’un l’altro, il
significato letterale, sto per dire sportivo, dell’impresa: è la più ardita, e
ad un tempo la più meticolosa, che mai l’uomo abbia tentato; è il viaggio più
lungo, è l’ambiente più straniero. Ma perché lo facciamo, non sappiamo: i
motivi che si citano sono troppi, intrecciati fra loro, ed insieme mutuamente
esclusivi. Sotto tutti, alla base di tutti, si intravede un archetipo; sotto
l’intrico del calcolo, sta forse l’oscura obbedienza ad un impulso nato con la
vita e ad essa necessario, lo stesso che spinge i semi dei pioppi ad avvolgersi
di bambagia per volare lontani nel vento, e le rane dopo l’ultima metamorfosi a
migrare ostinate di stagno in stagno, a rischio della vita: è la spinta a
disseminarsi, a disperdersi su un territorio vasto quanto è possibile; poiché
notoriamente le “aiuole” ci fanno feroci, e la vicinanza del nostro simile
scatena anche in noi uomini, come in tutti gli animali, il meccanismo atavico
dell’aggressione, della difesa e della fuga’.
Altri scrittori cedevano a languide preoccupazioni o polemizzavano tra loro. In un articolo intitolato ‘Non deluderci, Luna’ Dino Buzzati invitava il satellite della Terra a sottrarsi alla conquista, a difendere la sua verginità. Nel 1965 Italo Calvino aveva pubblicato le ‘Cosmicomiche’. Il primo di questi racconti, scritto nel novembre 1963 e poi più volte ritoccato, descriveva in termini fiabeschi l’attrazione (non solo gravitazionale) tra la Terra e la Luna. Al contrario di Buzzati, Calvino sta dalla parte della conoscenza, spera che la Luna riveli i suoi segreti, e si contrappone ad Anna Maria Ortese, che sul ‘Corriere della Sera’ grida alla profanazione. Il poeta Giuseppe Ungaretti, ipnotizzato davanti alla tv, seguirà lo sbarco con entusiasmo.
Se per
alcuni intellettuali americani i dubbi erano materia di discussione salottiera,
per altri diventavano slogan da urlare con violenza in faccia alla Nasa,
invettive contro la Casa Bianca.
Erano gli anni delle rivolte nelle università, degli hippies, delle marce contro la guerra in Vietnam, della contestazione giovanile, degli scontri razziali.
Anche la
Luna veniva contestata.
A Cape
Canaveral erano arrivati cinquanta neri. Erano partiti dal profondo sud con i
loro muli, la loro miseria, la loro rabbia intrisa di tristezza atavica.
In testa
c’era Ralph Abernathy (1926-1990), il
successore di Martin Luther King, da
poco assassinato: con cartelli e striscioni gridavano la loro protesta. Un
altro gruppo di neri della Florida picchettava l’ufficio per le pubbliche
relazioni del Centro spaziale di Cape Canaveral. Il loro slogan era:
‘Luna no,
Terra sì’.
Thomas O. Paine, direttore generale della Nasa dal marzo 1969 al settembre 1970, riceve Abernathy e gli offre l’ingresso alla tribuna dei ‘vip’. Lui accetta, purché ci siano altri dieci ingressi per altrettanti dimostranti. Così, al tempo zero sarà nella tribuna d’onore accanto a Nixon. Qualcuno dei suoi gli urla: ‘Sei uno zio Tom’.
In Italia
tra le voci più critiche si distingue Oriana
Fallaci, che dai suoi servizi di inviata speciale a Cape Canaveral trarrà
due libri. Nelle prime pagine del secondo scriveva:
‘Entro il 1969, dicevano, sbarcheremo sulla Luna.
Ed entro il 1969 ci sbarcano: per darci il Grande Spettacolo. […] Certo le
insidie sono cupe. La prima è che un microscopico germe lunare invada la
biosfera e contagi il genere umano, gli animali, le piante, le acque: senza che
la natura e la scienza sappiano difendersi. La morte fisica insomma. La seconda
è che la tecnologia prenda il sopravvento e addormenti i nostri cuori, i nostri
cervelli, ci trasformi in robot incapaci di fantasia, sentimenti, rivolta. La
morte spirituale insomma. La terza è che tutto si risolva in un avvenimento
giornalistico, uno show televisivo dietro cui non c’è nulla fuorché qualche dato
scientifico per far guadagnare chi guadagna già troppo. La morte morale
insomma. Per destino o per scelta, ci siamo imbarcati in un’impresa che rischia
di annientarci o peggiorarci o deluderci’.
Questo il dibattito in America e nel mondo, mentre nella sala di controllo di Houston il direttore delle operazioni di lancio, l’italo-americano Rocco Petrone (1926-2006), di origini lucane, seguiva il conto alla rovescia e si preparava a comunicare il ‘go’ con destinazione Luna. Come lui trepidava Joseph Tufaro, ingegnere progettista del Lem alla Northrop Grumman, altro italo-americano proveniente dalla Lucania, migrante di seconda generazione.
Gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso sono quelli della Guerra
fredda tra il blocco occidentale – Stati Uniti ed Europa – e il blocco
sovietico, una guerra che russi e americani combattono sperimentando armi
nucleari sempre più distruttive e sviluppando missili in grado di portarle sul
nemico scavalcando gli oceani. Negli arsenali si accumulavano migliaia di bombe
atomiche con un potenziale tale da distruggere il pianeta in pochi minuti. I
test nucleari nell’atmosfera erano all’ordine del giorno.
Il 12 settembre 1962, proponendo la conquista della Luna come ‘nuova frontiera’ degli Stati Uniti, con un discorso di 17 minuti e 48 secondi all’Università Rice il presidente Kennedy spostò la Guerra fredda tra blocco occidentale e blocco sovietico su di un piano simbolico. Portare la sfida nello spazio significava trasformare la rivalità tra le superpotenze in una competizione dal sapore quasi sportivo. La forza militare si dava un obiettivo di progresso anziché di sopraffazione. In termini etologici, lo scontro fisico diventava uno scontro stilizzato: come i camosci quando si incornano senza farsi troppo male, basta che sia chiaro chi ha diritto alla femmina più ambita.
La
dissoluzione dell’Unione Sovietica fu in parte una conseguenza della supremazia
spaziale conquistata dagli Stati Uniti con il Programma Apollo. Decisiva nel 1989 fu la caduta del muro di
Berlino. Ne derivò un nuovo equilibrio mondiale che soltanto ora, con l’ascesa
di Trump negli Stati Uniti, il dominio assoluto di Putin in Russia, la potenza
cinese e la debolezza dell’Europa – di nuovo corrosa da stolti nazionalismi –,
si sta incrinando.
Partita in forte vantaggio con il lancio del primo satellite artificiale, il 4 ottobre 1957, e con il primo uomo in orbita, Jurij Gagarin, il 12 aprile 1961, l’Unione Sovietica perse la guerra simbolica dello spazio. Il 3 luglio 1969, mentre Armstrong, Aldrin e Collins stavano per decollare verso il Mare della Tranquillità, il gigantesco razzo N-1 che Sergej Korolëv aveva progettato per lo sbarco sovietico esplodeva sulla rampa di lancio, e in una gara come quella non c’era posto per il secondo arrivato.
La
conseguenza, imprevista anche dal governo americano, fu il tramonto della
Guerra fredda e l’inizio della collaborazione nelle attività spaziali, sancita
dalla missione congiunta Apollo-Sojuz del
luglio 1975 e tuttora garantita dalla Stazione spaziale internazionale, che
orbita sulle nostre teste con le bandiere di Usa, Russia, Unione Europea,
Canada e Giappone. Visto così, lo sbarco sulla Luna diventa una vittoria della
Ragione. Gli astronauti russi e americani sono gli Orazi e Curiazi del nostro
tempo.
Certo va messo all’attivo l’impulso allo sviluppo tecnologico, un’onda lunga che porta alla navigazione satellitare, a Internet, ai telefoni cellulari, all’Intelligenza Artificiale. Ma forse ancora più importante è che volando verso la Luna l’uomo vide la Terra in tutta la sua bellezza e (violata) fragilità. Da allora siamo consapevoli di vivere su un’astronave naturale che corre intorno al Sole alla velocità di 30 chilometri al secondo: una nicchia ecologica con risorse limitate ed equilibri instabili. L’uomo, animale esploratore, andando per la prima volta su un altro mondo, scopriva il proprio.
Merita
una riflessione l’aleatorietà della Storia.
Il 12 settembre 1962 Kennedy presentò al mondo il progetto di conquista della Luna con queste parole, pronunciate allo stadio della Rice:
‘Non vi è alcun contrasto, nessun preconcetto,
nessun conflitto nazionale nello spazio. I suoi rischi lo rendono a tutti
ostile.
La sua conquista merita il meglio di tutta
l’umanità.
Certe opportunità di cooperazione pacifica
potrebbero non ripresentarsi.
Ma perché, qualcuno dirà, la Luna?
Perché preferire questo come nostro obiettivo?
E costoro potrebbero allora domandarsi a buon
diritto perché scalare le montagne più alte?
Perché, trentacinque anni fa, trasvolare
l’Atlantico?
Perché la Rice gioca con la Texas?
Noi scegliamo di andare sulla Luna. Noi scegliamo
di andare sulla Luna entro questo decennio non perché sia facile ma perché è
difficile, perché quell’obiettivo ci servirà a organizzare e misurare le nostre
migliori energie e capacità, poiché questa è una sfida che siamo disposti ad
accettare, non siamo disposti a rimandare una sfida che intendiamo vincere. È
per queste ragioni che io ritengo la decisione di rendere prioritaria la
conquista dello spazio, tra le più importanti della mia presidenza’.
Risulta che Kennedy, a grandi linee, avesse concordato con i suoi consiglieri il discorso della ‘nuova frontiera’, ma che lo sbarco sulla Luna dovesse avvenire ‘entro questo decennio’ sembrò aggiunto nella foga oratoria del momento. Quando sentirono quella frase, i tecnici del suo staff ebbero un brivido di sgomento e dopo il bagno di folla segnalarono al presidente l’imprudenza.
Ma il sogno
di inviare un americano sulla Luna Kennedy
lo aveva già comunicato al Congresso il
25 maggio 1961. In quei giorni la Nasa aveva fatto arrivare al
vicepresidente Johnson il sospetto che l’Unione Sovietica, dopo il successo di
Gagarin in orbita, stesse preparando lo sbarco sulla Luna per il 1967, cinquantenario della
Rivoluzione di ottobre.
Kennedy, allora, pensò a quell’anno anche per il programma spaziale americano. Alla Nasa si diffuse il panico. All’inizio degli anni Sessanta, lo svantaggio rispetto all’Unione Sovietica era troppo grande. Robert Seamans, codirettore della Nasa, telefonò al consulente di Kennedy, Ted Sorensen, spiegandogli che non ci si poteva esporre per quella data. ‘Allora che cosa consigliate?’ domandò Sorensen, e Seamans suggerì di dire ‘entro il decennio’.
Le parole
di Kennedy furono:
‘Io penso che questo paese possa darsi un
traguardo e raggiungerlo: far scendere un uomo sulla Luna e riportarlo sano e
salvo sulla Terra prima che questo decennio sia finito’.
In realtà
nessuno credeva che fosse un obiettivo raggiungibile. Capita che parole
avventate trasformino in realtà sogni improbabili.
(P. Bianucci)
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