Un
informatore dell’Fbi fece sapere che la mafia era pronta a mettere una taglia di
varie centinaia di dollari su Kennedy nel caso in cui arrivasse ad avere la
possibilità di ottenere la nomina, e ogni settimana gli agenti del Bureau
fornivano fotografie di potenziali assassini a Frank Mankiewicz.
Kennedy sembrava affrontare le minacce con un fatalismo indifferente. Se qualcuno parlava di un possibile assassinio diceva:
‘Quel che succederà...succederà’...
oppure:
‘Se qualcuno vuole ammazzarmi, non sarà una cosa
difficile’,
o citava
Camus:
‘Sapere che morirai non conta’...
Quando Warren Rogers di ‘Look’ gli domandò se tenesse che i fan fuori controllo potessero fargli del male disse:
‘Diavolo non ti puoi preoccupare di una cosa
simile. Guarda i loro volti. Questa gente non vuole farmi del male. Vuole solo
vedermi e toccarmi’,
ma poi
aggiunse:
‘Insomma, ormai partecipare alla vita pubblica è
sempre una roulette russa’.
Tollerava piccoli gruppi di guardie in borghese, ma soltanto se stavano a una certa distanza e mantenevano un basso profilo, non dando troppo nell’occhio. Si opponeva alla presenza di poliziotti in divisa intorno a se, credendo che questo scaldasse gli animi e aumentasse l’aggressività, oltre che farlo sembrare timoroso del pubblico.
Come altri
che hanno amato Robert Kennedy, Walter Fauntroy coltivava l’illusione che egli
non si rendesse veramente conto del pericolo di un attentato. Era troppo
doloroso ammettere che a ogni corteo su una decappottabile anche Kennedy, come
a molti del suo entourage, venissero in mente Jackie con il suo tailleur rosa e
il Texas Book Depository. Fauntroy fu talmente turbato dal commento di Kennedy
sui fucili che lo separavano dalla Casa Bianca che continuò a passeggiare al
suo fianco anziché dare inizio al rito delle 11.
Infine, incapace di controllarsi più a lungo e continuando a domandarsi se ci fosse in agguato qualche minaccia specifica, chiese a Kennedy a che cosa si riferisse quando aveva parlato di fucili tra lui e la Casa Bianca.
Kennedy
rivolse a Fauntroy uno sguardo penetrante e disse:
‘Nulla’.
Ma in un
certo senso aveva già detto tutto.
Aveva detto che, come succedeva a Jackie, temeva che quel che era capitato a Jack potesse un giorno accadere a lui. Aveva spiegato il motivo per cui Fred Dutton aveva commentato che le folle adoranti lo liberavano da ‘qualsiasi stato morboso lo affliggesse in un dato momento’; e anche perché Jim Stevenson scorgesse sul suo volto ‘una perdurante desolazione malinconica’ e infine perché, dopo avere viaggiato con lui nell’Indiana, il giornalista dell’Associated Press Saul Pett avesse notato momenti in cui, ‘finalmente quasi solo, finalmente tranquillo’ fissava il nulla guardando ‘oltre tutto ciò che lo circondava’.
In quei
momenti, scrisse Pett,
‘in quegli occhi azzurri scivolava, come un’ombra
su un mare color turchese, uno sguardo di tristezza così infinita o di un
dolore così terribile che ci si sente
costretti a distogliere gli occhi’.
Si dava per scontato che durante quei momenti di tristezza profonda Kennedy pensasse al fratello. Ma la frase detta a Fauntroy, come i commenti fatti a Joan Braden, suggerisce piuttosto che la paura di trovare fucili tra lui e la Casa Bianca non lo abbandonasse mai. Erano questi fucili a spingere la stampa e lo staff a trattarlo con una delicatezza di solito riservata a chi è un malato terminale.
E sono la
spiegazione della passione con cui si gettò nella campagna, come se dovesse
fungere da eredità ed epitaffio. Quattro giorni dopo la camminata per Washington
in compagnia di Fauntroy, Kennedy si trovava a Lansing nel Michigan, quando
Fred Dutton irruppe nella sua camera d’albergo e cominciò a tirare le tende. Spiegò
che la polizia aveva individuato sul tetto di un palazzo nei dintorni una
persona con un fucile. Kennedy, più adirato di quanto Dutton l’avesse mai
visto, gli disse:
‘Non
chiuderle. Se vogliono sparare, lo faranno, (se vogliono ricattarmi avremmo scoperto
la mafia...)’…
Le primarie si svolsero in una giornata grigia, sotto una cappa di smog; Kennedy la trascorse rilassandosi nella casa del regista John Frankenheimer sulla spiaggia di Malibu. In un’intervista concessa quella mattina al giornalista dell’Associated Press Saul Pett disse:
‘Se qualcuno volesse sparare al presidente degli
Stati Uniti, non sarebbe un’impresa molto difficile. Non deve fare altro che
nascondersi in un edificio con una carabina munita di mirino telescopico e
nessuno sarà in grado di difenderti’.
Il mare era
molto mosso, ma Kennedy entrava e usciva dalle onde insieme ai suoi figli ed al
suo fedele cane. Un’onda particolarmente grande investì lui e David, il figlio
dodicenne. Quando emersero dall’acqua stringeva la mano del figlio e aveva una escoriazione
sulla fronte. Nel corso del pomeriggio apprese che i primi exit poll della Cbs
in California lo davano in vantaggio su McCarthy di sette punti.
A Theodore White disse che se fosse riuscito a conquistare la California urbana e il South Dakota rurale nello stesso giorno avrebbe conquistato i boss democratici. Richard Goodwin passò a casa di Frankenheimer e guardando attraverso la porta a vetri che dava sul patio scorse la sagoma di Kennedy accanto alla piscina: si era disteso su due seggiole vicine, e la testa piegata di lato inerte. Per un breve istante Goodwin pensò che fosse morto. Quando si rese conto che stava soltanto dormendo, pensò:
‘Dio mio, immagino che nessuno di noi riuscirà
mai a superare il trauma di John Kennedy’.
Bobby decise di non andare al solito party di fine elezione in qualche sala da ballo stipata di sostenitori, con suite rigurgitanti di amici e uomini dello staff e frotte di persone desiderose di parlare, congratularsi o almeno stare nella stessa stanza con lui. Dopo mesi in cui si era reso sempre disponibile agli amici, ma anche agli sconosciuti, desiderava trascorrere la serata più importante della sua carriera politica a Malibu seguendo i risultati delle elezioni alla televisione, insieme ai familiari e agli amici più intimi. Ordinò che fossero portati altri schermi a casa di Frankenheimer, ma le reti televisive protestarono vivacemente perché avevano già inviato all’Ambassador Hotel le troupe al completo.
Kennedy
alla fine cedette e, dopo avere cenato presto, si fece accompagnare all’hotel
da Frankenheimer. Erano in ritardo e incoraggiò l’amico a premere sull’acceleratore.
Ma dopo che mancarono l’uscita giusta in autostrada disse:
‘Prenditela con calma, John. La vita è troppo
breve’.
Le ultime cinque ore della vita cosciente di Kennedy, tra l’arrivo all’Ambassador alle 19.15 e le 00.16, quando gli spararono in un corridoio vicino alla dispensa, furono anche un momento di svolta della sua campagna: allora, infatti, persino i giornalisti e i collaboratori più scettici cominciarono a credere che potesse conquistare la nomina.
Passò la maggior
parte di queste cinque ore nella Royal Suite, al quinto piano dell’albergo, un
appartamento spazioso con un lungo corridoio, un salotto e due camere da letto.
Il suo staff aveva affittato una seconda camera proprio di fronte alla suite,
ma la sindrome dell’‘esserci a tutti i costi’ fece sì che sostenitori,
collaboratori, celebrità, giornalisti e amici si stipassero nella Royal Suite e
aggiungendo altro rumore all’esagerato frastuono, conversazioni gridate e
televisori con il volume al massimo.
Robert era sempre terrorizzato che davanti alla sua camera, come proprio nello stesso albergo ci fossero gli stessi oscuri personaggi, i burattini che massacrarono suo fratello su ordine della C.I.A.
Kennedy
andava avanti e indietro tra il salotto e le camere da letto, seguendo le
notizie alla televisione e rilasciando interviste informali. Gli stavano tutti
alle calcagna, con continue domande e consigli: volevano prendersi qualcosa di
lui, come le folle ai comizi. Pochi minuti dopo l’arrivo, ricevette una telefonata
da parte di Bill Daugherty, che si trovava in un albergo a Sioux South Dakota,
insieme ad alcune delle persone che avevano lavorato per la campagna in quello
stato.
Daugherty lo informava sulla sicurezza personale, e lo informò che i risultati parziali lo mostravano in testa con più del 50% (il conteggio definitivo lo avrebbe collocato al 50%, seguito dal binomio Johnson-Humphery con il 30%, e da McCarthy con il 20%). Si trattava di una disfatta clamorosa per Humphrey, che si era impegnato in vari tour nello stato ben pubblicizzati, tenendo persino un discorso alla cerimonia di consegna dei diplomi presso la scuola secondaria che un tempo aveva frequentato.
I suoi sostenitori avevano condotto una costosa campagna pubblicitaria invitando gli elettori del South Dakota a mandare uno dei loro alla Casa Bianca, votando per un elenco di delegati che - sebbene indicati sulla scheda come impegnati a votare Johnson - ave-vano dichiarato che avrebbero scelto Humphrey alla Convetion. Il numero dei votanti era il più alto mai registrato nel South Dakota in un’elezione primaria presidenziale. Il giorno successivo il ‘Rapid City Journal’, un quotidiano conservatore, dichiarò che nonostante la ‘battaglia serrata’ combattuta dalla gente di Humphrey, Kennedy aveva riportato un ‘trionfo strepitoso’ contraddistinto da ‘vittorie schiaccianti’...
Prima di
scendere nella sala da ballo Kennedy si rivolse a John Lewis ed esclamò:
‘Oggi ha mancato il colpo. I messicani-americani
che mi hanno votato sono più dei negri’.
Tutti
risero.
‘Aspettatemi, riprese Kennedy, torno tra quindici o venti minuti’.
Lewis si
ricorda che aveva un’aria così felice che sembrava potesse uscire dalla stanza
senza sfiorare il pavimento. Alcuni degli amici e alcuni membri dello staff di
Kennedy rimasero nella suite per seguire il discorso alla televisione,
preferendo evitare il chiasso e gli spintoni della Embassy Ballroom. Ma le
persone che lo accompagnarono erano abbastanza numerose da creare un ingorgo
nel corridoio che portava agli ascensori.
Là si imbatté
nella figlia undicenne, Courtney, e mentre tutti lo aspettavano, trascorse vari
minuti a chiederle della sua giornata. Si fermò anche a parlare con l’opinionista
Joseph Kraft, che gli aveva suggerito di abbandonare le primarie e assicurare
il suo appoggio a McCarthy per poi passare a Humphrey nel momento in cui
Mc-Carthy avesse perso la nomina. Kraft aveva sostenuto che alla sconfitta di
Humphrey contro Nixon, Kennedy si sarebbe trovato a controllare tutto il
partito.
‘Adesso è in trappola’, scherzò Kraft, intendendo dire che dopo aver vinto in California avrebbe dovuto portare avanti la campagna della Convention. Comprendendo bene cosa intendeva, Kennedy sorrise e annuì con il capo. Poiché i risultati avevano tardato ad arrivare, molti si trovavano nella Embassy Ballroom da diverse ore. Il clima iniziale era esuberante ormai in procinto di divenire isterico, e in seguito alcuni dei presenti avrebbero ricordato una folla ‘piena di un’energia quasi animalesca’ e una ‘violenza repressa che faceva paura’.
A
mezzanotte, quando Kennedy finalmente si avvicinò al microfono, i più giovani
dei sostenitori che avevano collaborato attivamente alla campagna si
scatenarono ballando una conga, gridando:
‘Fagliela vedere Bobby!’
Altri
aspettavano le chitarre, saltellando e cantando:
‘This man is your man. This man is my man. This
man is.... Robert Kennedy’...
Kennedy parlò per circa un quarto d’ora a braccio, lanciando ogni tanto uno sguardo sugli appunti che gli aveva messo in mano Frank Mankiewicz. Il discorso aveva lo stesso tipo improvvisato di chi viene premiato agli Oscar: senza seguire un ordine particolare ringraziò Jesse Unruh, sua sorella e suo cognato, Steve e Jeane Smith, la madre ‘e tutti i vari Kennedy’, il cane Freeckles ed Ethel.
Scherzò sul fatto di avere citato Freckles prima della moglie, ma ribadì a quel cane inglese ci teneva.... Poi ribadì il suo impegno ad aiutare ‘coloro che ancora soffrono la fame negli Stati Uniti e in tutti i luoghi del mondo’ e, preoccupato di dilungarsi troppo, continuò con un ‘Se posso rubare ancora un minuto o due del vostro tempo’.
Voleva dare la sensazione a tutti i presenti di andare a braccio, di improvvisare, ma così non era, era parte del copione studiato con il suo amico Frankenheimer... Seguì quindi il consiglio di Schulberg e ringraziò ‘tutti i miei amici della comunità nera’. Dopo avere nominato César Chavez e Dolores Huerta aggiunse:
‘Abbiamo certi obblighi e responsabilità nei
confronti dei nostri concittadini, ne abbiamo discusso ampiamente nel corso di
questa campagna’,
…e promise
di tenere fede alle sue promesse una volta presidente.
Finalmente, con un gran sorriso stampato sul volto, in piedi accanto a Ethel disse:
‘Così ringrazio tutti voi, ora partiamo
per Chicago, andiamo a vincere anche lì’....
Poiché
queste furono le ultime parole pronunciate da Kennedy in pubblico - parole che
coglievano in modo perfetto l’atmosfera di trionfo del momento - nei giorni
successivi vennero messe in onda più volte e sono diventate uno dei Leitmotiv
dei documentari sugli anni sessanta.
Dopo avere fatto con la mano il segno della V per vittoria di Churchill, lasciò il palco mentre il pubblico gridava:
‘Vogliamo
Bobby! Vogliamo Bobby!’
A questo
punto infranse la propria regola di uscire sempre dalla sala attraversando la
folla, permettendo al vicemaitre d’hotel Karl Uecker di prenderlo sottobraccio
e guidarlo verso i locali della dispensa. Bill Barry aveva dato per scontato
che Kennedy sarebbe uscito come al solito attraverso la sala e si era già
avviato per fargli strada tra la folla. Quando si accorse che Kennedy si stava
avviando verso la dispensa, fece dietrofront e lo seguì.
La ragione per cui Kennedy optò per questa via d’uscita non è chiara. Forse la frenesia della folla aveva turbato e spaventato persino lui, o forse dopo essere stato strapazzato dalla gente per 82 giorni, voleva semplicemente tirare il fiato, oppure era impaziente di sbrigare l’incontro in programma alla Colonial Room con i giornalisti della carta stampata, per potersi dirigere al Factory, per la festa della vittoria.
Successivamente
Dutton si sarebbe rimproverato di non avere obiettato a questa decisione dell’ultimo
momento:
‘Me ne sono sempre fatto una colpa’
... ha
confessato.
Mentre Kennedy si dirigeva verso le cucine, vide Paul Scrade, uno dei suoi primi sostenitori e direttore regionale della United Auto Workers, e lo chiamò:
‘Paul, voglio che tu e Jess veniate con me’.
Schrade
pensava intendesse di accompagnarlo alla Colonial Room, Seguendo Kennedy nella
dispensa si ripeteva:
‘E’ per questo che abbiamo lottato, Sarà
presidente’.
Mentre Kennedy si allungava sopra uno dei tavoli da lavoro per stringere la mano a uno dei membri del personale delle cucine, il braccio di un giovane palestinese con il nome uguale al cognome, Sirhan Sirhan, sbucò dalla folla: puntò una pistola alla testa di Kennedy e fece fuoco....
I colpi
ricordarono ad alcuni dei presenti il rumore dei petardi di Chinatown, ma
nessuno li scambiò per botti inoffensivi. ‘Sono
stato in fanteria durante la Seconda guerra mondiale’, avrebbe poi
comunicato Dutton, ‘e capii
immediatamente di cosa si trattava’.
Sirhan adoperò una calibro 22, un’arma che non produce necessariamente ferite mortali anche usata a distanza ravvicinata, non certo l’arma preferita del killer professionista. Era vicino quando sparò e uno dei chirurghi che operò Kennedy dichiarò che se la pallottola fatale lo avesse colpito anche solo un centimetro più indietro, sul capo, sarebbe sopravvissuto e si sareb be ripreso entro qualche settimana, in tempo per riprendere la ...campagna.
Quando si
udirono gli spari già parecchie persone si trovavano nella dispensa, che si
riempì in un attimo. Frank Mankiewicz si appoggiò alla schiena di qualcuno e
pianse. John F. Kennedy e Martin Luther King Jr, e con loro molti altri, erano
stati abbattuti a distanza con carabine di precisione, come cervi ad una
battuta di caccia....
Perché ai profeti... si spara...
(T. Clarke, L’ultima campagna)
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