Ci avevano raccontato che Capo Elizabeth, che si trovava a un paio di
giorni di viaggio a nord di Lyon Inlet, doveva essere un buon posto per
cacciare il tricheco, e così un giorno del nuovo anno andai lassù con il groenlandese
Qàvigarssuaq, chiamato ‘edredone’, e due uomini della tribù locale, Usugtaoq e
Taparté.
Il 27 gennaio 1922, una sera tardi con il cielo limpido e stellato, ci
avvicinammo all’insediamento, ma la giornata di viaggio era stata lunga e
aspra, desideravamo sinceramente trovarci sotto un tetto, e perciò scrutavamo
affannosamente in cerca di esseri umani. A un certo punto, dall’oscurità
davanti a noi spunta una lunga slitta con la muta più selvaggia che io abbia
mai visto: quindici cani bianchi a tutta velocità, con sei uomini sulla slitta!
Si precipitano dritti verso di noi con tale forza che ne sentiamo il
sibilo. Poi il conducente salta giù. Un ometto con una grande barba,
completamente ghiacciato in volto, si dirige verso di me, si ferma, e mentre mi
dà la mano alla maniera dell’uomo bianco, indica verso terra in direzione dei
loro igloo. I suoi occhi intelligenti si posano vivaci su di me, e mi porta il
suo saluto con un sonoro ‘Qujangnamik’: un ringraziamento agli ospiti che
arrivano.
… Era lo sciamano Aua….
Quando vede che i miei cani sono stanchi dopo la lunga giornata di
viaggio, mi prega di salire sulla sua slitta e con tono tranquillo ma
autoritario ordina a uno dei giovani di condurre i miei cani fino
all’insediamento. I cani di Aua ululano per la voglia di mangiare e la
nostalgia di casa, e ben presto filano via sibilando verso gli igloo. La slitta
è lunga sette metri e sotto ogni pattino ha uno strato di pasta di torba
ghiacciata coperto da una sottile crosta di ghiaccio. Mentre i nostri pattini
di ferro scivolano sulla neve pesanti, fischiando, la grande e pesante slitta
di Aua cammina sul ghiaccio quasi senza attrito.
Tocchiamo terra sul letto di un piccolo torrente e dopo un tragitto
breve ma impetuoso giungiamo a un grande lago dove le finestre di budello degli
igloo rilucono verso di noi con il loro bagliore caldo, arancione. Le donne
dell’insediamento ci accolgono con cordiale cortesia curiosità e la moglie di
Aua, Orulo, mi conduce subito dentro casa. E’ la prima volta che incontro un grosso
complesso di igloo ingegnosamente collegati. Le cinque capanne a forma di
cupola si ergono come ardite arnie, unite da un unico lungo corridoio con
numerosi magazzini di viveri che spuntano come ambienti autonomi. Un sistema di
cunicoli si snoda di locale in locale in modo che si può andare in visita senza
uscire all’esterno.
Vi abitano sedici persone divise in diverse capanne. Orulo passa da un
giaciglio all’altro e mi racconta dei diversi abitanti. Vivono qui da molto
tempo e, in conseguenza di tutto il calore, gli strati interni di neve si sono
fusi formando delle incrostazioni. Lunghi ghiaccioli scintillanti pendono sulle
porte d’ingresso e brillano alla luce soffusa della lampada a grasso. Sembrava
più una grotta di stalattiti che un igloo, e avrebbe dato un’impressione di
freddo se tutti i tavolacci non fossero stati provvisti di spesse, morbide
pelli di renna che spandevano tepore intorno.
Eravamo venuti per cacciare trichechi, raccontammo, e questa notizia fu
subito accolta con gioia dai componenti della famiglia di Aua. Certo anche loro
avevano pensato la stessa cosa, e ora ritenevano che l’intero insediamento
dovesse partire e spostarsi verso alcuni cumuli di neve nelle vicinanze del
basso Capo Elizabeth. L’estate era trascorsa cacciando a terra e c’erano molti
buoni depositi di carne nelle vicinanze, ma era già stato cominciato l’ultimo
sacco di grasso. Decidemmo perciò di
andare tutti a caccia sul ghiaccio, ma prima bisognava passare un giorno intero
a portare a casa la carne di renna dai depositi più vicini. Non si poteva mai
sapere quanti giorni sarebbero passati prima di prendere di nuovo qualcosa.
Il giorno in cui giunse il momento di trasferirsi, tutti si misero
all’opera presto. Nei cunicoli c’erano mucchi di pentole e catini, grossi rotoli
di pelle di renna, pelle che era in uso e pelle che ancora non era preparata, e
poi enormi fagotti di vestiti maschili, femminili e da bambino. Nella penombra
degli igloo sembrava non ci fosse niente, perché ogni cosa scivolava nella
quotidianità e aveva un determinato posto. Ma all’aria aperta c’era in quel
disordine la stessa inesorabile atmosfera di un trasloco….
Quando furono infine attaccate le slitte, cariche fino
all’inverosimile, fui testimone di come da queste parti si fa affrontare a un
neonato il suo primo viaggio in slitta. Sul retro della casa del ‘pollice’ fu
aperto un buco e attraverso quel buco strisciò fuori la moglie con una
figlioletta in braccio. Poi si mise davanti all’igloo e aspettò finché Aua, che
come sciamano era per loro una sorta di padre spirituale, si avvicinò con
cautela alla bambina, le scoprì il capo e con la bocca vicina al suo volto
recitò la preghiera pagana del mattino, che suonava così:
‘Mi alzo per andare incontro al giorno,
wa- wa.
Mi alzo dal riposo con movimenti
simili ai battiti d’ali del rapido
corvo.
Il volto si distoglie dall’oscurità della notte, guarda l’alba che
imbianca’.
Era il primo viaggio della bambina, e quell’inno al giorno era una
formula magica destinata a darle fortuna nella vita…..…
‘Animali e uomini sono vicini’ disse Aua, ‘è per questo che i nostri
antenati credevano che si potesse essere ora animale, ora uomo. Ma gli orsi ci
sono più vicini di tutti. Può sembrare che abbiano intelligenza umana perché
strisciano verso le foche addormentate come fa un cacciatore. Si appostano sul
bordo della banchisa proprio come noi. D’improvviso si gettano nell’acqua, e
quando tornano su hanno una foca tra le fauci. Se invece cacciano da un foro di
respirazione, stanno lì per ore ad aspettare, ma nell’istante stesso in cui la
foca sale in superficie, la loro enorme zampa la colpisce sul cranio, poi
mordono e tirano su l’intero animale attraverso lo stretto foro di
respirazione....
(Prosegue....)
(Prosegue....)
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