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L'incontro con i Ciukki (32)
La mattina di martedì 9 agosto 1887, mentre penetrava con passo
lento nella campagna subito fuori Verona – oggi quell’area è stata mangiata
dalla città – lo sguardo stanco del comandante Giacomo
Bove fu
richiamato dai lunghi lari di gelsi che delimitavano i campi di stoppe.
…Con il
passo indebolito dalla malattia superò il fosso con un salto e atterrò nella
terra nuda, di proprietà della cascina Casetta del conte Giovanni Pellegrini. Di
fronte, come tirata da un righello, partiva la lunga sequenza dei gelsi.
Si mise a
camminare contandoli uno per uno.
Uno, due,
tre, cinque, nove.
Finché
scelse il suo.
E lo toccò
con il palmo della mano, come per presentarsi. Il vento leggero tra i rami
faceva tremare allegramente le foglie. Si sbottonò il cappotto color caffelatte,
si tolse il cappello e lo appese a un ramoscello nella parte bassa della
pianta. Si accomodò appoggiandosi delicatamente al tronco. La corteccia del
gelso è dura, bruna e fessurata, sembra lava solidificata. La sentì dietro la
schiena.
E attese
qualche istante.
Chissà
quanto?
Per lui
dovrà essere stata un’eternità. Il tempo, si sa, non unisce sempre uguale a se
stesso: le attese lo dilatano. E questa era l’attesa delle attese. Infilò la
mano destra nella tasca della giacca. Cavò fuori un pacchetto di lettere tenute
da uno spago. Le contò facendole passare a una a una, di costa, sul pollice.
Cinque. Sì, ci sono tutte, pensò. Osservò anche le due fotografie e di sua
moglie Luisa, con al fianco la figlioletta adottiva di otto anni Maddalena Giuseppina.
Poi ripose ogni cosa ordinatamente nella tasca.
Lì le avrebbero
trovate.
Tutto era
calmo. Oltre il volo di una farfalla, la campagna infuocata esplodeva nella
forza vitale dell’estate. Il canto degli uccellini che volteggiavano intorno
alla chioma del gelso si mischiava al primo frinire delle cicale del giorno.
Presto sarebbe esploso il caldo. Estrasse dalla tasca la rivoltella. La guardò.
Tolse la sicura. Sparò in aria per provare. E la puntò alla tempia destra.
Nessuno udì i due colpi di pistola che
deflagrarono nel silenzio… Fu diverse ore dopo, verso mezzogiorno, quando il
sole spioveva a picco, che qualcuno si accorse.
Un contadino che passò sui campi ad oriente dalla
cascina casetta fu attratto da una macchia chiara alla base dei filari di
gelso. Si avvicinò incuriosito. E di colpo si fermò! Sgomento! Poi corse da
dove era venuto per dare l’allarme. I primi ad accorrere furono due carabinieri
a cavallo. Il contadino tornò con un medico, alcuni curiosi e il fattore a
servizio del conte Pellegrini. Ben presto intorno al gelso macchiato di sangue
si assiepò una dozzina di persone.
Non fu difficile definire l’identità dell’uomo,
né ricostruire i fatti che lo avevano condotto alla morte, dovuta
inequivocabilmente a quel foro rosso sulla tempia destra.
Anche a quest’uomo in tasca avevano trovato
cinque lettere e due fotografie che ritraevano una donna giovane ed elegante, che
portava una crocchia spessa come una fune sulla nuca.
L’ultima lettera delle cinque, aperta,
indirizzata alla Pubblica sicurezza di Milano. La parola ‘Milano’, sulla busta,
era stata però cancellata da due righe a matita e corretta con ‘Verona’.
Evidentemente c’era stato un cambio di programma.
Uno dei carabinieri si sentì autorizzato ad
esaminarne il contenuto lì sul posto.
Lesse.
‘Ringrazio Dio di avermi spinto al
triste passo. Meglio il Nulla che Niente!’.
Alla fine della lettera il carabiniere si imbatté
in un post scriptum aggiunto a matita. Così recitava con tono sorprendentemente
ironico, che lasciò ulteriormente di stucco i presenti:
‘Aneddoto: quando ieri mattina andai a prendere
la rivoltella, da un armaiolo della città, mi disse: - Signore, con quest’arma
ammazzerebbe un bove -. Fatalità! Ed io sono Bove’.
Tre anni
dopo la sua morte gli esperti locali deliberarono la linea del percorso per un
tracciato (alpinistico) a lui dedicato….
Il giorno
della sua morte, invece…, ecco arrivare in bicicletta un giovane dall’aria
attenta e circospetta, che non sarebbe passato inosservato. Lo conoscevano
tutti in città. Era l’inviato dell’Arena.
Il suo nome
era Emilio Salgari…
Leggiamo nella stessa Arena…
Tra i primi
ad accorrere sul corpo esanime alle porte di Verona fu Emilio Salgari,
all’epoca giovane reporter dell’Arena.
Davanti a
sé, quella mattina, Salgari si ritrovò l’uomo che lui stesso avrebbe voluto
essere e nel quale si sarebbe immedesimato per il resto della vita viaggiando
con la fantasia nei luoghi più remoti del pianeta.
Bove aveva
navigato su tutti gli oceani, mentre Salgari – come ben noto - non si muoverà
mai dalla sua fumosa stanzetta adibita a studio. Eppure Salgari, come Bove, si
farà chiamare ‘Capitano’ e ‘Lupo di mare’. E dichiarerà in un’intervista
rilasciata a un giornalista:
‘Ho
viaggiato molto, arrivando fino allo Stretto di Bering’, proprio lo stretto
attraversato per la prima volta da Giacomo Bove.
E non è
finita…
Bove era
stato uno dei primi italiani a conoscere e descrivere il lussureggiante incanto
di Labuan e del Borneo? Salgari ambienterà proprio lì i suoi romanzi più
fortunati.
Bove era
rimasto intrappolato nell’inverno artico?
Salgari
scriverà almeno sei romanzi sui ghiacci del Polo Nord.
Bove aveva
esplorato la Patagonia e si era spinto giù in Terra del Fuoco? Ed ecco uscire
il romanzo La stella dell’Araucania ambientato esattamente in quegli stessi
luoghi.
L’immagine
di Bove inseguirà Salgari fino al suo stesso suicidio. Avvenuto, anch’esso,
fuori da una grande città, Torino, sotto gli alberi di Villa Rey, tagliandosi
il ventre con un rasoio.
Dopo
fruttuose ricerche da parte dello studioso salgariano Cristiano Calcagno, sono
emerse sorprendenti coincidenze tra il ‘vero’ Capitano (Bove) e il ‘finto’
Capitano (Salgari). Corrispondenze e analogie che abbondano in modo
impressionante, come in un gioco di specchi contrapposti.
Bove era
nato in Piemonte ed era morto a Verona: Salgari era nato a Verona e morto in
Piemonte.
Salgari era
nato ad agosto e morto a fine aprile: Bove era morto ad agosto ed era nato a
fine aprile.
L’uno
l’opposto dell’altro.
Entrambi
finiti a vivere per un certo periodo nel quartiere di Sampierdarena a Genova,
in case tra loro vicine. Ma il ‘vero’ Capitano era alto, slanciato, di presenza
imponente, un uomo charmant abituato a usare francesismi a tutto spiano, come
la moda del tempo suggeriva.
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