Precedenti capitoli con:
Prosegue con il...:
IL
PENSIERO
Per entrare
in una condizione di solitudine l’uomo ha bisogno di allontanarsi tanto dalla
propria stanza che dalla società. Mentre leggo e scrivo non sono in solitudine,
anche se non c’è nessuno con me. Ma se un uomo vuole davvero stare solo, guardi
la Natura.
La
Natura non indossa mai un’apparenza mediocre.
E l’uomo
più sapiente non riesce a estorcerne il segreto, né perde la sua curiosità
quand’anche ne abbia scoperto tutta la perfezione. La natura non diventa mai un
trastullo per uno spirito saggio. I fiori, gli animali, le montagne riflettono
la saggezza della sua ora migliore, così come hanno deliziato la semplicità
della sua infanzia.
Quando
parliamo di Natura in questo modo, abbiamo in
mente un sentimento preciso, benché estremamente poetico. Intendiamo l’unità dell’impressione
prodotta dai molteplici oggetti naturali. È questo ciò che distingue il legname
del taglialegna dall’albero del poeta. L’incantevole paesaggio che ho visto
questa mattina è senza dubbio costituito da venti o trenta fattorie.
Miller possiede questo campo, Locke quell’altro e Manning il bosco più in là. Nessuno di loro, però, possiede il Paesaggio.
(Emerson)
‘È abitato da una strana persona’,
…signor
pastore,
riprese
dopo una pausa.
‘Sono da sei mesi in questo villaggio e ancora
non ho osato rivolgervi domande su di lei e sono costretto a farmi violenza per
parlarvene oggi. Avevo incominciato col dolermi vivamente nel vedere che
l’inverno aveva interrotto il mio viaggio e che ero costretto a soggiornare
qui, ma da due mesi si sono di giorno in giorno rinsaldate le catene che mi
legano a Jarvis e temo di finire qui i miei giorni. Sapete come ho incontrato
Séraphîta, che impressione mi fecero il suo sguardo e la sua voce, come infine
fui ammesso presso di lei che non vuol ricevere nessuno. Sin dal primo giorno
tornai qui per chiedervi notizie su quella misteriosa creatura.
….Allora ebbe inizio quella serie di
incantesimi...’.
‘Di incantesimi!’,
…esclamò il pastore, scuotendo la cenere della sua pipa in un comune piatto colmo di sabbia che gli serviva da sputacchiera.
‘Ma gli incantesimi esistono?’.
‘Voi che state leggendo così coscienziosamente il
libro degli Incantesimi di Jean Wier comprenderete certo la spiegazione che
posso darvi delle mie sensazioni’,
…riprese
subito Wilfrid.
…Se si
studia attentamente la Natura nelle sue grandi
rivoluzioni come nelle sue più piccole opere, non si può non riconoscere
l’impossibilità di un incantesimo, dando a questo termine il suo vero
significato. L’uomo non crea forze, impiega la sola che esiste e che tutte le
riassume, il movimento, soffio incomprensibile del sovrano costruttore dei
mondi.
E la
polvere è comunque germana della folgore!
Quanto a
far sorgere una creazione, e di colpo?
Ogni
creazione richiede tempo e il tempo non procede né arretra sotto le dita. Così,
fuori di noi, la Natura plastica obbedisce a
leggi di cui la mano umana non invertirà mai l’ordine e l’esercizio. Ma dopo
aver così tenuto conto della Materia, sarebbe irragionevole non riconoscere in
noi l’esistenza di un mostruoso potere i cui effetti sono a tal punto
incommensurabili che le generazioni conosciute non li hanno ancora
perfettamente classificati.
Non vi parlo della facoltà di astrazione, di costringere la Natura a rinchiudersi nel Verbo, atto titanico sul quale la gente comune non riflette più di quanto non rifletta sul movimento, ma che ha portato i teosofi indiani a spiegare la creazione con un verbo al quale hanno dato la potenza inversa.
La più piccola porzione del loro nutrimento, un chicco di riso da cui nasce una creazione, e in cui questa creazione alternativamente si riassume, offriva loro una così pura immagine del verbo creatore e del verbo astraente da rendere molto semplice applicare questo sistema alla formazione dei mondi.
La maggior
parte degli uomini doveva accontentarsi del chicco di riso seminato nel primo
versetto di tutte le Genesi. Dicendo che il verbo era in Dio, san Giovanni, non
ha fatto che complicare la difficoltà. Ma la granitura, la germinazione e la
fioritura delle nostre idee è poca cosa se paragoniamo questa proprietà,
condivisa fra molti uomini, alla facoltà affatto individuale di comunicare a
essa forze più o meno attive mediante non so quale concentrazione, di elevarla
a una terza, a una nona, a una ventisettesima potenza, perché in tal modo faccia
preso sulle masse e ottenga risultati magici, condensando gli effetti della Natura.
Ora, io chiamo incantesimi quelle immense azioni che si svolgono tra due membrane sul tessuto del nostro cervello. Nella Natura inesplorata del Mondo Spirituale esistono certi esseri armati di queste facoltà inaudite, paragonabili alla terribile potenza che possiedono i gas nel mondo fisico e che si combinano con altri esseri, li penetrano come causa attiva, producono in loro sortilegi contro i quali quei poveri iloti sono indifesi: li incantano, li dominano, li riducono a un orribile vassallaggio e fanno pesare sopra di loro le magnificenze e lo scettro di una Natura superiore, agendo ora alla maniera della torpedine che elettrizza e intorpidisce il pescatore…
…Ora come
una dose di fosforo che esalta la vita o ne accelera la proiezione…
…Ora come
l’oppio che addormenta la Natura corporea,
libera lo spirito dai suoi vincoli, lo lascia volteggiare sopra il mondo,
glielo mostra attraverso un prisma, estraendone per lui il nutrimento che
preferisce…
…Ora infine
come la catalessi che annulla tutte le facoltà a beneficio di un’unica visione.
I miracoli, gli incantesimi, le magie, i sortilegi, insomma gli atti chiamati sovrannaturali, non sono possibili né possono spiegarsi altro che con il dispotismo con cui uno Spirito ci costringe a subire gli effetti di un’ottica misteriosa che dilata, riduce, esalta la creazione, la muove in noi a suo piacimento, la sfigura o l’abbellisce ai nostri occhi, ci trasporta in cielo o ci piomba nell’inferno, i due termini con cui si esprimono l‘estremo piacere e l’estremo dolore.
Questi
fenomeni sono in noi e non al di fuori.
L’essere
che noi chiamiamo Séraphîta mi sembra uno di quei rari e terribili Dèmoni cui è dato di afferrare gli uomini, di
incalzare la Natura e farsi partecipi dell’occulta
potenza di Dio.
Mi
vedete qui per la centesima volta, prostrato, distrutto, per essere stato a
giocare con il mondo allucinatorio che porta in sé quella fanciulla, dolce e
fragile per voi due, ma maga implacabile per me.
Sì, essa è
per me come una maga che porta nella mano destra un apparecchio invisibile per
agitare il globo e nella sinistra la folgore per dissolvere tutto a suo
piacimento. Insomma, non riesco più a guardare la sua fronte; è di una
luminosità insopportabile.
Da qualche
giorno ormai rasento in modo troppo maldestro gli abissi della follia per
tacere.
Colgo quindi il momento in cui ho il coraggio di resistere a quel mostro che mi trascina presso di sé senza chiedermi se posso seguire il suo volo.
Chi è
dunque?
L’avete
vista giovane?
È nata mai?
Ha avuto
dei genitori?
È generata dal connubio fra il ghiaccio e il sole? Ella raggela e infiamma, si mostra e si ritrae come una verità gelosa, mi attira e mi respinge, mi dà ora la vita ora la morte, la amo e la odio. Non posso più vivere così, voglio essere completamente in cielo o completamente nell’inferno”…
(Balzac)
Ritengo che
noi poeti e artisti, non potendo far lanci oltre il tangibile, dobbiamo passare
dal desiderio alla stanchezza per poi riprendere a desiderare, e vivere
soltanto per l’attimo in cui la visione perviene alla nostra stanchezza come un
lampo tremendo, nell’umiltà delle bestie.
Non dubito che quei cerchi ondeggianti, quegli archi sinuosi, nella vita di un uomo come in quella di un’epoca, siano matematici e che qualcuno a questo mondo o al di là di esso abbia previsto e appuntato sul calendario l’arco di vita di un Cristo, di un Buddha, di un Napoleone: che ogni movimento, nella sensibilità o nel pensiero, grazie alla chiarezza e alla fiducia crescenti prepari al buio il suo giustiziere. Noi cerchiamo la realtà con l’operato lento e faticoso della nostra debolezza e siamo sbaragliati dall’illimitato e dall’imprevedibile.
Solo quando
siamo santi o saggi e rinunciamo alla stessa esperienza ci è dato, secondo
l’immaginario della Cabala cristiana, abbandonare il lampo improvviso e il
sentiero del serpente per diventare l’arciere che punta la freccia al centro
del sole.
Un poeta, quando invecchia, si chiederà se non può conservare la sua maschera e la sua visione senza nuove amarezze, nuove delusioni. Potrebbe se volesse, sapendo quanto debole è il vigore una volta passata la giovinezza, imitare Landor, il quale visse amando e odiando, ridicolo e indomito, fino a tardissima età, perdendo tutto tranne il favore delle sue Muse?
Memoria, che è la Madre delle Muse,
Mi lasciò;
loro restano, mi scuotono
La spalla e
mi esortano a cantare.
Magari
penserà: ora che ho trovato maschera e visione perché dovrei soffrire ancora?
E forse
comprerà una vecchia casetta dove, come Ariosto, potrà lavorare il giardino e
pensare che nel ritorno degli uccelli e delle foglie, o del sole e della luna,
e nel volo serale dei corvi scoprirà ritmo e disegno come quelli del sonno, e
così non svegliarsi mai dalla visione.
Allora si
ricorderà di Wordsworth che avvizzisce nei suoi ottant’anni, onorato e
svampito, e salirà in uno stambugio dove troverà, dimenticata lì dalla
gioventù, una crosta amara.
So molto più di quanto avrei potuto mai sapere se nella vita ultraterrena non avessi imparato a tener conto di quello che, là come qua, è rudimentale e sconnesso; né ho rinvenuto nei medium del Connacht e di Soho qualcosa che non trovi riscontro e qualche delucidazione in Henry More, il quale in vita era chiamato l’uomo più santo sulla faccia della terra.
Tutte le
anime hanno un veicolo o corpo e, nell’affermare questo con More e i platonici,
si evitano quelle scuole astratte che invocano l’autorità di una Chiesa o di
un’istituzione e ci si ritrova con la grande poesia e con la superstizione,
cioè a dire con la poesia popolare, in un mondo ameno e pericoloso.
La bellezza
a dire il vero non è che la vita corporea in una condizione ideale. Il veicolo
dell’anima umana un tempo si chiamava spiriti animali e Henry More riporta
questa citazione da Ippocrate:
‘La mente dell’uomo ... non si nutre di cibi e
bevande dal ventre bensì di una sostanza chiara e luminosa che scaturisce
separandosi dal sangue’.
Questi spiriti animali riempiono ogni parte del corpo e costituiscono il corpo aereo, come l’hanno chiamato certi scrittori del Seicento.
L’anima ha
un potere plastico e dopo il decesso o anche in vita, dovesse il veicolo
lasciare per qualche tempo il corpo, è in grado con un atto d’immaginazione di
dargli forma a piacimento anche se, più diversa dal solito la forma, maggiore
sarà lo sforzo.
Per i vivi
come per i morti la purezza e l’abbondanza degli spiriti animali sono una forza
primaria. L’anima può ricavarne un’apparizione rivestita come in vita e
renderla visibile mostrandola all’occhio della mente o introducendo nella sua
sostanza talune particelle estratte dal corpo di un medium finché non è
visibile e tangibile come qualsiasi altro oggetto.
Nessun commento:
Posta un commento