CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
30 MAGGIO 1924

lunedì 31 luglio 2023

DIVINAZIONE

 









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circa la 'mannara' violenza







Se nel senso comune il termine ‘divinazione’ (o ‘mantica’) pare indicare qualche remota pratica dell’antichità, disancorata dalle nostre consuetudini, riflettendo su espressioni più usuali (per esempio “augùri”, “di buon auspicio” e così via) scopriamo che queste celano legami con antiche scienze della previsione e rituali propiziatori. Le une e gli altri hanno lasciato un segno nel nostro linguaggio e, seppur trasfigurati, permangono nel nostro contesto culturale.

 

Il vocabolo ‘augùrio’ deriva dal latino ‘augurium’, che indicava il presagio tratto dal comportamento degli uccelli, dalla cui interpretazione i sacerdoti dell’antica Roma potevano conoscere la volontà degli Déi e il futuro. Così, quando auguriamo a qualcuno che si realizzi un evento positivo, esprimiamo un ‘auspicio’ (da avis, ‘uccello’ e ‘specio’, ‘osservo’), cioè ci riferiamo inconsapevolmente all’osservazione del volo degli uccelli.




Nella nostra cultura, di matrice giudaico-cristiana, l’arte divinatoria è classificata come ‘superstizione’, osteggiata sia dalla religione (per la quale è un tentativo profano e illegittimo di conoscere l’inconoscibile) sia dalla scienza (la cui estensione capillare e profonda nel nostro immaginario ha braccato senza tregua i residui di credenze nei presagi, negli oracoli, nelle profezie). La divinazione ricopre nella nostra società un ruolo marginale: ciò rispecchia la priorità attribuita alla religione cristiana rispetto ad altri insiemi di credenze, riti e culti con cui l’uomo riconosce e onora l’esistenza di un ordine superiore. Nella nostra cultura, pertanto, vige una separazione tra pensiero religioso e pensiero magico-divinatorio, riconosciuta anche dall’etica aconfessionale. Al contrario, presso contesti culturali diversi, come nelle civiltà greca, romana e mesopotamica, divinazione e religione sono inscindibili, si articolano l’una nell’altra e insieme danno forma a ciò che indichiamo come ‘pensiero magico-religioso’.




Proiettare il proprio sguardo nel futuro, precorrere l’avvenire, penetrare i meccanismi del presente, squarciare il velo dell’ignoto e celebrare il Sacro sono reazioni umane nei confronti dell’aspetto incomprensibile della realtà, dell’inesprimibile e affascinante mistero di essere al mondo. 

(S. Tonutti) 

 

Come sarebbe valutato il ruolo attuale dell’umanità su questo pianeta alla luce delle Filosofie del passato?

 

Qualunque delle grandi Filosofie scegliessimo come valida, il nostro ruolo attuale riceverebbe un giudizio negativo. Infatti, esso è in contrasto con le priorità di valore proclamate da tutti questi sistemi. Ciò vale per l’aristotelismo, il buddismo, il confucianesimo e le altre grandi filosofie degli ultimi duemila anni.

 

I più grandi sistemi filosofici distinguono nettamente tra ciò che è grande da un punto di vista quantitativo e ciò che lo è da un punto di vista qualitativo. Si ricerca la grandezza in senso Spirituale, non le grandi dimensioni.

 

Si riconosce l’importanza della tecnologia, ma al primo posto vi sono i valori culturali. La qualità della vita non è messa in relazione con un consumo insensato. Le grandi filosofie richiedono alle persone di valutare le conseguenze a distanza delle proprie azioni e la prospettiva utilizzata deve essere universale nel Tempo e nello Spazio. Nessuno dei grandi filosofi considerava i rapporti di mercato e i modi di produzione come fonti di norme per lo stato, la società o l’individuo. 

(A. Naess)




Presso tutti i popoli, il pensiero magico-religioso nelle sue più disparate manifestazioni accoglie le pressioni conoscitive dell’uomo, i suoi timori, la sua esigenza ordinatrice, la sua devozione intima: di risposta attribuisce significato a ciò che è oscuro, nomina ciò che è indicibile, mette ordine nel caos, stabilisce un codice di espressione del culto, genera un repertorio di riferimenti simbolici da condividere nel gruppo. Più in particolare, nella mantica trovano un tentativo di risoluzione gli aspetti della condizione umana che generano la vertigine del vuoto conoscitivo e la paralisi nell’azione.

 

Che cosa offre all’uomo la divinazione, scienza che Cicerone nel De divinatione definiva ‘intuizione e apprendimento delle cose future’?

 

Appunto la tecnica per conoscere l’avvenire, per decidere il presente, per interpretare il linguaggio delle divinità. Essa è, innanzitutto, tecnica e azione. Anche nella nostra cultura emergono, seppure abbozzati, questi tratti salienti delle pratiche divinatorie: per queste non c’è spazio nel complesso delle credenze istituzionalizzate, né riconoscimento all’interno delle forme del pensiero ufficiale.




Tuttavia il ricorso alla consultazione divinatoria non solo ci appartiene per tradizione, ma è un fenomeno in crescita presso tutti i gruppi sociali: che sia binaria (il ‘testa o croce’ della moneta) o precognitiva (predizione del futuro), che utilizzi i tarocchi, interpreti i sogni o la posizione delle stelle, la divinazione, assieme alla magia, risponde al desiderio umano di conoscere le cose a venire, pone le condizioni per favorire la scelta e l’azione dell’uomo in situazioni ambigue, rischiose, di dubbio.

 

L’analisi delle nostre tradizioni popolari ci dimostra come le ritualità connesse alle pratiche magico-divinatorie spesso integrino le credenze religiose: in situazioni di drammatica crisi per l’uomo, esse sostituiscono l’azione  alla rassegnazione, sollevano l’uomo dall’immobilità, dallo stato di impasse di fronte al destino e gli offrono uno strumento per tentare di cambiarne il percorso. 

(S. Tonutti)




Il modo in cui nel regno animale si ripartiscono le iniziative di formazione degli Stati ha qualcosa di casuale. Ricorda un po’ la divisione dei numeri primi nel mondo dei numeri. Forse anche in quest’ambito, come in quello, si scoprirà una qualche regolarità. Non c’è dubbio che sussistano delle relazioni tra le caratteristiche degli organismi e la loro organizzabilità; la capacità di sviluppare tessuti cornei, fossili o minerali ne costituisce uno dei presupposti, se non addirittura l’unico.

 

Il principio che agisce per formare un’organizzazione si serve di preferenza di elementi inorganici per realizzare costruzioni organiche, come quelle, spesso magnifiche, che compaiono tra i gruppi ‘inferiori’.

 

Chi osservi un radiolare, un cuoretto o il guscio di un riccio di mare ha l’impressione che agiscano qui forze che dimorano al di là della vita, che può darsi forniscano un’impronta di ordine e di armonia non tanto al mondo inorganico, quanto piuttosto a un mondo sovraorganico.




Forse questo ha qualche relazione con il fatto che, man mano che si sale a livelli più evoluti del regno animale, la costruzione degli Stati sembra farsi più rara. Anche per quanto riguarda la pura organizzazione, per gli insetti il problema sembra perfettamente risolto. Ciò non va trascurato, se si vuole caratterizzare l’uomo in quanto zoòn politikón.

 

La decisione che per altre razze è già stata presa è per lui ancora sospesa, lo stampo è ancora fluido, e questo rappresenta la sua salvezza. Di conseguenza egli può condurre, in modo pedagogico e da autodidatta, uno studio sulla formazione degli Stati, tanto all’interno del regno degli animali, quanto entro il quadro offerto dalla sua propria storia: è il suo libro illustrato. Nella formazione degli Stati non è possibile rinvenire alcun genere di progresso: questo significa cioè che le forme perfette non compaiono solo a un livello evoluto di sviluppo, né caratterizzano solo determinati ambiti del regno animale. Accanto alle specie sociali se ne trovano altre, con esse strettamente imparentate, che vivono una vita solitaria.




Tracce di una simile standardizzazione si sono presentate spesso nel mondo della Storia e, occorre sottolinearlo, proprio nel mondo della Storia, il che ci porta a concludere che l’uomo secondo la sua natura, e forse anche secondo la sua umanità, non appartiene alle specie che si organizzano naturalmente in Stati, che dunque la caratterizzazione di zoón politikón non ne coglie la natura essenziale.

 

Anche nelle isole più solitarie, nei luoghi dove si conservano i ‘fossili viventi’, l’uomo ha certamente sviluppato razze particolari attraverso la separazione millenaria, ma non ha dato origine né a uno stato biologico, né a una nuova specie. Quando viene scoperto egli è uomo tra gli uomini e può recuperare con un solo passo ciò che nel frattempo gli uomini ‘sviluppati’ hanno raggiunto.




Giudizi e pregiudizi, leggi e costumi che definiscono una condizione pura e incontaminata, possono innalzare montagne tra gli uomini, spalancare fratture difficilmente colmabili. È in questo paesaggio che la storia gioca la sua parte, e non si tratterebbe di storia, bensì della storia della natura, se la libera volontà non determinasse il quadro che ne traccia i confini. La riflessione risale a essa come a un’ultima istanza. Il suo momento trova sede nel tempo e può trasformare il mondo laddove lo spirito si libera dei propri limiti.

 

Essa è l’elemento caratterizzante la species humana e in quanto tale, sebbene nell’individuo si presenti come eccezione, determina la via e i compiti della specie e della civiltà umana attraverso i secoli. Se paragonate a ciò che per noi uomini è possibile, queste forme di separazione si rivelano effimere. In tutti i tempi hanno richiesto il sacrificio di vittime, e tuttavia non ve n’è una che non sia stata travolta dall’evoluzione o distrutta da una rivoluzione. 

(E. Junger)


[PROSEGUE....]









lunedì 24 luglio 2023

OSSERVAZIONI

 









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segugio meccanico...  


& con la caccia e la tortura







26 febbraio, ore 08:52:34, annunciava come un ciak la scritta gialla al piede dell’inquadratura prima che il video inaugurale partisse. Ed ecco che apparve un topolino minuscolo intento ad annusare il terreno. Si aggirava lì di fronte, muovendosi a scatti. Il fruscio del suo zampettare che usciva dal computer sembrava provenire dalla realtà che ci circondava. Subito, istintivamente, gettai lo sguardo lì dove era passato. Il topolino sul monitor fece un giro su se stesso e trotterellando se ne andò, fino a sparire dietro l’albero in fondo allo slargo.




27 febbraio, ore 16:30:01, annunciava ancora la scritta sul primo fotogramma della seconda scena. C’era vento, le foglie che costituivano il tappeto marrone e giallo del sottobosco vibravano, alcune si sollevavano e partivano tra le raffiche. Entrò sulla scena un bestione, che subito, visto da dietro, non riconobbi. Era un cinghiale. Passò con il muso radente al terreno, fiutando con le narici dilatate e, seguito da un suo simile, si allontanò offrendo alla telecamera il suo immenso posteriore peloso.




27 febbraio, ore 22:01:44. L’inquadratura svelava che nel frattempo, in quelle quattro ore della sera del 27 gennaio, era caduta la neve. Una decina di centimetri. E in quel momento continuava a nevicare. Ma si era di notte, e la scena col buio aveva perso i colori. Di notte la telecamera a infrarossi registra in bianco e nero. Solo gli occhi degli animali, scoprii di lì a breve, se rivolti alla video-trappola, si illuminano di una luce giallognola. Sul fronte della scatoletta si trova un piccolo led, mi spiegava Paolo, che emana una luce rossa indispensabile alle riprese notturne. Col buio gli animali possono non accorgersi del puntino rosso che brilla sull’albero. Ma se osservano nella direzione giusta percepiscono un vago tremolio luminoso. A quel punto reagiscono nei modi più disparati: alcuni si spaventano e scappano, altri, incuriositi, si avvicinano posando il naso proprio sulla video-trappola per cercare qualche odore che gli sveli l’identità del misterioso puntino.




Ma ecco un cervo!

 

Si ferma. Si guarda intorno, e riprende a camminare nella neve che cade abbondante.

 

28 febbraio, ore 07:06:15. Ora, dopo l’intera notte di nevicata, una spessa coltre bianca ricopriva il sottobosco. Si sentì un lontano guaito, e poi fu lui ad entrare in scena: il lupo. Ne arrivò uno, poi un altro, e un altro ancora.




‘Eccoli’, esclamò Massimo di fronte al computer portatile. Alla fine erano in sei. Si fermarono nello spazio, e lì si aggirarono, lenti, come se volessero concedersi una pausa nella loro marcia nella luce dell’alba livida.

 

…Gli animali non sono rinchiusi in gabbia perché possano essere ammirati dagli spettatori come fossero statue viventi in rappresentanza dei loro più fortunati conspecifici in libertà. Qui gli animali vengono ospitati in ampi spazi aperti che riproducono il loro stesso ambiente vitale. Sono aree allestite principalmente per studiare il comportamento degli animali, in uno stato che si avvicina a quello di libertà, oppure, come in questo gestito da Massimo, per recuperare alla vita libera gli animali feriti.





‘Adesso mi raccomando la discrezione’, mi ammonì Massimo. Il punto di osservazione sul recinto di Merlino nel Centro recupero dei Sibillini si trova in cima a un ripido sentiero. È posto in modo – e questa è la sua specificità inderogabile – che l’animale non veda il visitatore. Il visitatore è celato da una parete, nella quale sono state prodotte sottili feritoie per gli occhi. Tutto, l’avvicinamento, l’osservazione, deve svolgersi nel più assoluto silenzio. Solo il cinguettio degli uccellini deve sentirsi nella pace inalterata del boschetto. 

 

Solo Massimo, unico essere umano (con l’unica eccezione della veterinaria), può farsi vedere da Merlino quando gli porta il cibo.

 

È evidente, però, che il lupo ha un vantaggio, e dunque sa che qualcuno si trova nei paraggi. Il suo olfatto non lo tradisce. Quando ci avviciniamo a piccoli passi, quasi trattenendo il respiro nell’illusione di fare ancor meno rumore, il nostro odore è già nell’aria e per Merlino agisce come una sirena d’allarme. Mi avvicino con lentezza estrema. Vedo la luce uscire dalla feritoia, avvicino gli occhi.




….E guardo.

 

…Nessuno.

 

Nello spazio aperto al di là della barriera non c’è nessuno.

 

Massimo sa che Merlino non passa il tempo in un sol posto a ridosso dell’osservatorio, ma anzi vaga di continuo nel suo vasto spazio come farebbe allo stato libero. Però Massimo sa anche che Merlino in questo momento sta riconoscendo il suo odore. Odore benvenuto, perché associato a quello del cibo. E infatti passano poco più di tre minuti, ed ecco che un’ombra scivola silenziosa dal fitto del boschetto, e si avvicina.

 

È lui!

 

Il lupo.




Si approssima con un’andatura trotterellante, elegante, elastica. I suoi passi lo conducono verso di noi. La sua sagoma si fa più nitida. Poi si ferma a pochi metri dalla rete schermata. Rizza le orecchie. Si agita. È nervoso. Capisce che qualcosa di inconsueto sta accadendo intorno a lui. Interroga l’aria con il naso. Guarda a destra e sinistra. Si avvicina ancora di più. Ora si trova a non più di cinque metri dalle feritoie dove due occhi invisibili lo puntano. Sta dritto nella sua postura scattante, energica, potente. Ma è guardingo, teso. Tutto il contrario di un pigro animale nella gabbia dello zoo. Il suo corpo è quello di un maschio adulto, vigoroso e sano. Da tempo è ormai guarito dalla vecchia infestazione da rogna. È lungo all’incirca quanto un uomo sdraiato: 130 centimetri, più la coda di 35. Ed è alto una settantina di centimetri al garrese.

 

È grande, potente, robusto e allo stesso tempo flessuoso e aggraziato.




Il colore del mantello di Merlino, in questi giorni di marzo, è ancora velato del grigio argentato dell’inverno, ma presto prenderà quello estivo che tenderà al rossiccio. Le zampe sono lunghe, tenute semipiegate quelle posteriori perché pronte a scattare, mentre quelle anteriori partono dritte da un petto prominente e muscoloso. Mi concentro sulla testa. Il cranio è piuttosto grande, ben più grande di quello di un cane pastore tedesco, ed è sorretto da un collo massiccio. Ha orecchi corti. E la dentatura, ovviamente, è sviluppata come in tutti i carnivori di grossa taglia: i canini superiori sono lunghi come un mignolo della mano.

 

…E poi gli occhi – gli occhi, la parte del corpo che più lo contraddistingue – sono ampi, espressivi, gialli, luminosi. E sono posizionati verso la parte frontale della testa con una leggera inclinazione verso il passo.

 

Eccolo lì, il lupo, finalmente.

 

Lo osservavo cercando di fissare il più possibile la sua immagine nella memoria.

 

Quando avrò ancora occasione di vedere un lupo?




In quel momento, pensai, per una rarissima deroga alla consuetudine era il lupo ad essere osservato dall’uomo, e non viceversa. Era osservato dall’uomo resosi invisibile perché celato dietro un riparo. Uno sguardo fisso tra uomo e lupo correva anche in quegli istanti, ma in un senso opposto a quello abituale. E mi venne da riflettere sul terribile divario di potere che dà guardare senza essere visti, sul senso di tremenda impotenza e oppressione che si riceve dal sentire gli occhi di qualcuno che ti fissano, senza poter ricambiare lo sguardo.

 

Sarà proprio su questo punto, mi chiesi, che si sono addensate le paure dell’uomo nei confronti del lupo?

 

Il lupo, in fondo, non ha mai rappresentato una vera minaccia materiale per l’uomo. Non attacca l’uomo, come per esempio fanno la tigre, l’elefante, il bufalo. Il lupo può attaccare gli animali domestici, ma lo fanno anche altri animali, come la volpe, e comunque ci si può sempre difendere. Eppure non sono la tigre, l’elefante, il bufalo o la volpe ad essere percepiti come gli antagonisti per antonomasia dell’uomo.




No, qualche cosa d’altro deve aver concorso a determinare un così ampio campionario di leggende infamanti, di miti e di proverbi ingiusti che hanno dipinto il lupo come il male assoluto. Quel giorno, osservando Merlino, mi sembrò di intuire che molto, del rapporto uomo-lupo, stava proprio nello sguardo.

 

Nello sguardo del lupo.

 

Perché se è vero che non c’è niente di più pauroso di essere osservati senza poter vedere, allora si spiega la paura che incute il lupo nei lunghissimi appostamenti che precedono la caccia. Il lupo è capace di aspettare giornate intere nascosto in un cespuglio. Il suo sguardo, lo abbiamo visto, filtra tra i rami, esce dal buio e vigila, controlla, prende la mira.

 

Così aveva fatto 1/2 per mesi sul paese di Villetta Barrea prima di essere ammazzato.

 

Quegli occhi infondono timore. Sono loro, gli occhi del lupo, non i denti a incutere paura. E al Centro recupero animali selvatici di Massimo Dell’Orso, le parti, per pochi minuti, si erano invertite.

 

(M.A. Ferrari)




 Guarda direttamente negli occhi un animale e questi sono pieni di dolore e di bellezza perché contengono la verità della vita, dolore e piacere in ugual misura, la capacità di gioire e la capacità di soffrire.

 

Gli occhi degli uomini molto primitivi e inconsci hanno la stessa strana espressione di uno stato mentale precedente alla coscienza, che non è né di dolore né di piacere; non si sa esattamente che cosa sia. È piuttosto sconcertante, ma indubbiamente qui sta guardando nella vera anima dell’animale, e questa è esattamente l’esperienza che doveva avere. In caso contrario sarebbe rimasta scollegata dalla Natura. È l’esperienza che ognuno di noi dovrebbe avere per ritrovare il legame con la Natura interiore, con la propria natura e con il dio dei primitivi.




Si potrebbe dire che questi sono gli occhi dell’inizio, del Creatore, il quale era inconscio perché all’inizio tutto era inconscio.

 

Non si può sapere che cosa sia in se e perché, dal nostro punto di vista, un animale non ha coscienza corrisponde esattamente a ciò che noi chiamiamo inconsceità.

 

Non posso addentrarmi in una discussione filosofica su questo argomento, ma è davvero possibile che in ciò che noi chiamiamo inconscio - la somma dei contenuti autonomi - ognuno di quei contenuti abbia in sé una coscienza.

 

Perché no?




La nostra coscienza è un complesso autonomo, e ognuno degli altri complessi potrebbe avere una coscienza indipendente; non è dunque possibile che la somma totale di coscienza e inconsceità abbia un centro con cui i contenuti possano entrare in relazione?

 

Sarebbe quella allora la coscienza, perché l’unica definizione di coscienza che si possa produrre è un’associazione di cose con un Io al centro. Ovunque si trovi un tale centro è perciò davvero possibile che li si trovi la coscienza; pertanto ciò che chiamiamo l’inconscio sarebbe un’altra forma di coscienza di qualcos’altro in qualcun altro.

 

(da G. Lazzari L’Eretico Viaggio[Osservazioni]; C.G. Jung, Visioni)









mercoledì 19 luglio 2023

CRIMINALIZZARE I VERI CRIMINALI

 










A  proposito di Rosa...  


Prosegue con un....


Rinnovato appello... 








In tutto il mondo le conquiste positive dei difensori dei diritti umani troppo spesso non vengono riconosciute. I difensori sono presi di mira perché affrontano potenti interessi acquisiti proteggendo le nostre risorse naturali e il clima condiviso, difendendo i diritti dei lavoratori, denunciando la corruzione e rifiutando di accettare l’ingiustizia. Mentre celebriamo il 25° anniversario della Dichiarazione sui difensori dei diritti umani, gli Stati possono e dovrebbero fare di più per proteggere i difensori, anche approvando una legislazione obbligatoria sui diritti umani e sulla due diligence ambientale che richieda alle imprese di impegnarsi in un impegno continuo e significativo con i difensori e altre parti interessate.

 

Mary Lawlor, relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei difensori dei diritti umani

 

Che si tratti di Francia, Germania, Italia o Paesi Bassi, stiamo assistendo a un'ondata di repressione e alla criminalizzazione costante e sproporzionata dei difensori dell'ambiente e dei diritti umani. In Germania, la scorsa settimana sono stati effettuati raid a livello nazionale contro membri del gruppo tedesco di protesta per il clima Letzte Generation, sospettati di “formare o sostenere un’organizzazione criminale”. Nei Paesi Bassi più di 1.500 persone sono state arrestate sabato scorso, durante una protesta di Extinction Rebellion.




La criminalizzazione attraverso la legge è accompagnata dalla delegittimazione dei difensori ambientali attraverso il linguaggio, lanciando campagne di denigrazione e descrivendo gli attivisti per il clima come criminali ed “ecoterroristi”.

 

Ora, potremmo non essere d’accordo con alcune delle loro azioni, ma la disobbedienza civile, come afferma Michel Forst, relatore speciale delle Nazioni Unite sui difensori ambientali ai sensi della Convenzione di Aarhus, “è una componente essenziale della democrazia. Chi ricorre alla disobbedienza civile lo fa nell’interesse pubblico, nonostante i rischi personali”.

 

Invece di un’ondata di repressione, le azioni dei difensori dell’ambiente dovrebbero innescare una discussione a livello europeo e mondiale su come ‘prendere meglio in considerazione ciò che i difensori dell’ambiente rappresentano, perché stanno usando la disobbedienza civile per lottare per essa e come le autorità devono adattare le loro pratiche di conseguenza’. Perché “screditare e penalizzare chi lotta per il futuro del nostro pianeta e di tutti noi non può mai essere la risposta giusta”.

 

Criminalizzazione dei difensori dell’ambiente...




Puoi leggere l’intero articolo di Michel Forst, relatore speciale delle Nazioni Unite sui difensori ambientali ai sensi della Convenzione di Aarhus, di seguito:

 

In tutta Europa vediamo sempre più immagini nei media di attivisti che gettano zuppa sui quadri o si incollano alle strade. Queste azioni catturano la nostra attenzione: possono scatenare indignazione perché il loro scopo a volte è difficile da capire e provocare irritazione se sconvolgono la nostra vita quotidiana.

 

Sono quelli che chiamiamo atti di disobbedienza civile: il loro scopo è denunciare un’ingiustizia violando intenzionalmente la legge in modo non violento. Un esempio ben noto nella storia è il rifiuto di Rosa Parks di lasciare il suo posto sull’autobus, violando una legge che richiedeva la segregazione razziale sugli autobus. Partecipare a una protesta non autorizzata, ricoprire di vernice nera l’edificio di una compagnia petrolifera, interrompere un evento sportivo: sono tutte forme di disobbedienza civile utilizzate oggi dagli attivisti.




A volte le azioni illegali sono legittime. Sebbene si possa non essere d'accordo con alcune di queste azioni, riconoscerne la legittimità è la chiave per capire cosa rappresentano gli attivisti ambientali e perché combattono per questo in quel modo. Se i governi non riescono a capirlo, non risponderanno adeguatamente alla disobbedienza civile.

 

Perché alcuni attivisti sono disposti a correre il rischio di infrangere la legge?

 

Perché il loro senso di emergenza e la sensazione che non ci sia altra scelta sono più forti della paura di essere arrestati. Chi blocca le strade o si lega agli alberi è mosso da un senso di urgenza e persino da un dovere: difendere il nostro pianeta e le sue specie, compresa l’umanità. Cercano di trasmettere questo messaggio ai governi e chiedono loro di agire.




Denunciano l’inazione e chiedono giustizia ambientale. E il motivo per cui scelgono la disobbedienza civile è perché percepiscono che le forme legali di dialogo con chi governa sono rotte e li hanno falliti come cittadini. Come scrisse una volta Martin Luther King “è il momento giusto per fare ciò che è giusto”.

 

Purtroppo, di fronte a queste modalità di azione, molti governi cercano di dissuadere gli attivisti penalizzandoli. In ogni visita che ho fatto come relatore speciale, ho ascoltato testimonianze che descrivono una tendenza simile. Un certo numero di paesi europei sta sviluppando leggi e politiche per punire più severamente la disobbedienza civile. L’Italia non è immune da questa tendenza.




Diversi sviluppi legislativi sono attualmente in corso in Italia. Di recente è stato presentato al Senato italiano un disegno di legge che istituisce un nuovo reato di danneggiamento dei beni culturali e artistici. Se approvato, consentirebbe alle autorità di arrestare gli attivisti per aver gettato vernice su un edificio e di condannarli fino a un anno di carcere. Questo disegno di legge arriva una settimana dopo che la polizia ha perquisito le case degli attivisti che hanno gettato vernice su Palazzo Vecchio. Non è il primo segnale preoccupante della crescente criminalizzazione dei difensori ambientali in Italia. Sempre più spesso chi protesta pacificamente contro una compagnia petrolifera viene multato o addirittura bandito da una città per essersi opposto a un progetto dannoso per l’ambiente. 

 



Un atto è disobbediente quando infrange intenzionalmente la legge: Rosa Parks non farebbe nulla di illegale se si sedesse davanti a un autobus oggi. Paradossalmente, mentre cercano di prevenire la disobbedienza civile limitando l'esercizio delle libertà di espressione, riunione o associazione, i paesi ampliano la portata di ciò che costituisce disobbedienza civile: più azioni rientrano in questa categoria diventando illegali. Quando le proteste pacifiche sono vietate, protestare diventa un atto di disobbedienza civile. Gli attivisti per il clima non dovrebbero essere banditi da una città per questo. Dovremmo tutti preoccuparci di dove questo ci porta.




Senza dubbio, la criminalizzazione attraverso la legge va di pari passo con la delegittimazione dei difensori ambientali attraverso il linguaggio, con il discorso che descrive i difensori ambientali come criminali ed ‘ecoterroristi’. Queste tendenze si rafforzano a vicenda: le parole usate per descrivere i difensori dell’ambiente hanno un impatto sul modo in cui i nostri sistemi legali li trattano. Questo è ciò a cui sto assistendo in tutta Europa: più i funzionari pubblici usano queste parole, più i difensori dell'ambiente vengono trattati come criminali. Questi discorsi e le campagne di denigrazione che li accompagnano rappresentano una minaccia per la democrazia.




La disobbedienza civile è una componente essenziale della democrazia. Chi ricorre alla disobbedienza civile lo fa nell'interesse pubblico, nonostante i rischi personali. Dobbiamo proteggerli. Gli Stati devono migliorare la loro risposta alla mobilitazione degli attivisti e astenersi dall'adottare leggi e pratiche che li criminalizzino. Il trattamento giudiziario della disobbedienza civile merita un'attenta riflessione. Alcune buone pratiche esistono in Canada o in Germania, dove i giudici hanno dato solo condanne simboliche ad attivisti pacifici per il clima, riconoscendo che le loro motivazioni erano giuste.

 

In tutta Europa, le discussioni devono iniziare a prendere meglio in considerazione ciò che rappresentano i difensori dell’ambiente, perché stanno usando la disobbedienza civile per lottare per essa e come le autorità devono adattare le loro pratiche di conseguenza. Screditare e penalizzare chi lotta per il futuro del nostro pianeta e di tutti noi non può mai essere la risposta giusta.



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