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CARONTE ATTRAVERSO IL FIUME
Fuggire dalle città occupate è un molto rischioso.
Quando Elena Čepurnaja lascia Černihiv l’undicesimo giorno di guerra, la città è ancora sotto il controllo
delle truppe ucraine, ma appena fuori già si combatte. Nelle pause fra gli scontri l’esercito ucraino apre il ponte sulla Desna e
lascia passare chiunque riesca a farlo prima del combattimento successivo.
Quando la battaglia ricomincia il ponte viene
chiuso di nuovo e i profughi aspettano che, poco distante, gli scontri per
quello stesso ponte finiscano. Dopo ore di attesa fra le bombe Elena riesce ad
attraversare il fiume; tre ore più tardi legge sui social che il ponte è stato
fatto saltare e che sono stati i russi e gli ucraini insieme: entrambe le parti
volevano mettere una barriera d’acqua invalicabile tra sé e il nemico.
Per un minimo di tregua.
La tregua non regge, i combattimenti intorno a Černihiv proseguono con la stessa intensità, ma intanto il ponte non c’è più. In macchina non si può più scappare.
È a questo punto che entra in scena il barcaiolo.
Nessuno lo ha mai visto.
Nessuno sa il suo nome.
Il barcaiolo agisce solo al buio, di notte. Parla soltanto con uno degli ottanta volontari di Rubikus, l’associazione che aiuta i profughi a fuggire dall’Ucraina devastata dalla guerra, ma risponde di rado al telefono ed è sempre molto evasivo.
Non dice mai per tempo dove e quando caricherà i
profughi sulla sua barca per portarli sull’altra riva. Quell’uomo misterioso
nemmeno indica in anticipo il punto esatto in cui li scaricherà e dove gli
autobus dovranno aspettare per caricarli.
Di solito il volontario lo scopre mentre i
profughi stanno già andando alla barca. A quel punto contatta gli autisti
dell’autobus, che spesso rifiutano di aspettare nel punto indicato perché
sanno, o hanno sentito dire, che da quelle parti la strada è minata.
Allora il volontario richiama il barcaiolo e gli chiede di riconsiderare la destinazione finale del suo pericoloso viaggio.
Ma lui rifiuta.
Di solito annulla il viaggio, non carica nessuno e
sparisce per qualche giorno senza farsi più sentire. E i passeggeri tornano a
casa e aspettano. A distanza di un paio di giorni il barcaiolo richiama il
volontario e gli comunica di aver trovato un nuovo punto di imbarco e un nuovo
punto di approdo.
E la trafila ricomincia.
Esserne certi è impossibile, ma tra i profughi corre voce che il barcaiolo abbia in qualche modo a che fare con l’esercito ucraino. Potrebbe essere lui stesso un militare. In ogni caso, il suo non è un barchino da pesca, ma uno scafo piuttosto grande che può trasportare fino a trenta persone. Prima di ogni viaggio il barcaiolo informa il volontario di avere raggiunto un accordo coi “ragazzi”, cioè con i soldati ucraini, mentre coi russi proprio non c’è verso, per cui non può garantire che non sparino mentre navigano sul nero dell’acqua e nel buio della notte, alla velocità minima per contenere il rumore.
Il barcaiolo chiede cinquecento dollari per ogni
persona che imbarca.
Si fa presto a calcolare che ne guadagna quindicimila a viaggio. Non tutti, però, finiscono nelle sue tasche. È questo che significa il suo accordo coi “ragazzi”. Che deve allungargli qualcosa perché non sparino su quella barca che si muove lenta nel buio. Se i russi gli sparano addosso, dunque, forse non è perché vogliono uccidere chi scappa, ma perché vorrebbero la loro parte. Perciò, o il barcaiolo è avido e preferisce correre rischi piuttosto che allungare qualcosa anche a loro, oppure (a differenza di Vovan, di cui parleremo fra poco) non intende dare soldi ai russi.
Molto probabilmente è solo avido.
Così come alcune compagnie aeree vendono biglietti
per più posti di quanti ne abbiano a disposizione, contando che qualche
passeggero non si presenti e l’aereo si riempia comunque, allo stesso modo lui
accetta per ogni viaggio più persone di quante ne possa effettivamente
imbarcare. Ogni volta qualcuno resta a terra, ma la barca è sempre piena e il
barcaiolo ha i suoi quindicimila dollari in tasca.
Notte, acqua nera, niente luci, una barca scura
che si muove lenta. A bordo vecchi, bambini e donne. All’approdo esitano, hanno
paura di guadagnare la riva senza neanche una specie di molo.
Il barcaiolo li sollecita, e allora scendono goffamente da prua, scivolano e cadono nell’acqua gelida, qualcuno fino alle caviglie, altri fino alle ginocchia. Poi arrancano verso terra sul fango viscido. Lì trovano ad attenderli degli autobus, dei piccoli autobus che nessuno ha mai visto prima, in Ucraina.
Appena tutti hanno preso posto, gli autobus
partono. Al buio, a fari spenti. Dopo neanche un chilometro cominciano gli
spari. Sono diverse mitragliatrici contemporaneamente. I proiettili colpiscono
le fiancate e i finestrini. Gli autobus accelerano, vanno sempre più veloci, al
massimo della velocità possibile a fari spenti su una strada buia. E finalmente
si lasciano gli spari alle spalle.
Morti?
Feriti?
Nessuno, grazie a Dio.
Sono blindati, quegli autobus.
(Valery Panyushkin)
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