CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

lunedì 11 novembre 2019

UN TERAPEUTA (30)













































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Il mistico silente silenzio del Tempo (28)  &  (29)

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Eretico (31)













[Il mio diario] è come una foglia che pende sopra la mia testa sul sentiero…

Piego il ramoscello e scrivo su di essa la mia preghiera; poi, nel lasciarla andare, il ramo spedisce lo scarabocchio fino in cielo. Come se, invece di restare chiuso nella mia scrivania, fosse un foglio pubblico come qualsiasi cosa in natura.




È papiro sulla riva del fiume; è cartapecora nei pascoli; è pergamena sulle colline. Lo trovo ovunque, libero come le foglie che sfilano lungo i viottoli in autunno.

Il corvo, l’oca, l’aquila portano la mia penna, e il vento spinge le pagine tanto lontano quanto me. Oppure, se la mia fantasia non vola ma va a tentoni tra poltiglia e fango, scriverò con una canna.




Il grillo, il gorgoglio del ruscello, il fruscio del vento fra gli alberi mi parlano tutti in modo sobrio ma incoraggiante del continuo progresso dell’universo. Mi salta il cuore in gola al suono del vento nel bosco.

Io, che solo ieri avevo una vita così dispersiva e superficiale, ritrovo all’improvviso il mio spirito, la mia spiritualità, attraverso l’udito. Vedo un cardellino che attraversa cinguettando la giornata ferma e cupa, e mi vengono in mente gli stormi pigolanti che presto annunceranno la stagione contemplativa.




Ah, se potessi vivere in modo che non vi fosse alcun momento dispersivo in tutta la mia vita! Che nella stagione della frivolezza, quando i piccoli frutti sono maturi, possano essere maturi anche i miei frutti. Che io possa sempre far corrispondere alla natura i miei stati d’animo! Che in ogni stagione in cui una parte della natura è particolarmente prospera, allora una corrispondente parte di me possa riuscire a prosperare.




Ah, camminerei, mi sederei e dormirei con devozione naturale. E se sapessi recitare ad alta voce o a me stesso, nel costeggiare le rive del torrente, un’allegra preghiera come gli uccelli! Per la gioia potrei abbracciare la terra; mi darà diletto esservi sepolto.

Ti ringrazio, Dio. Io non merito nulla.




Non sono degno della minima considerazione, eppure mi è dato motivo di giubilo. Sono impuro e indegno, eppure il mondo viene indorato per il mio diletto, giorni festosi sono preparati per me, e il mio cammino è cosparso di fiori.

Perché ci danno piacere le vaste distese innevate, il crepuscolo del bosco incurvato e quasi sepolto?




Non è forse tutto ciò consono a virtù, giustizia, purezza, coraggio, magnanimità?

Forse che non ci rallegra quella vista?

E tutto ciò non corrisponde forse alle tracce di una vita più elevata di quella della lontra, una vita che non è soltanto passata lasciando un’impronta, ma esiste con la sua bellezza, la sua musica, il suo profumo, la sua dolcezza, per invigorirci e rinnovarci?




Dove c’è un perfetto governo del mondo secondo le leggi più elevate, forse non c’è traccia d’intelligenza laggiù, che sia nella neve o sulla terra, o in noi stessi?

Nessun’altra pista che un cane non sappia odorare?

Non ve n’è alcuna che un angelo possa distinguere e seguire?

Alcuna per guidare un uomo nel suo pellegrinaggio, che l’acqua non nasconda?

Non c’è odore di santità che si possa percepire?

Forse la pista è troppo vecchia, e i mortali hanno perso l’usta?

Se uno potesse decifrare il significato della neve, non sarebbe forse sulla scia di una qualche vita più elevata che è stata in circolo durante la notte?

Non ci sono cacciatori che cerchino qualcosa di più elevato delle volpi, con una capacità di giudizio più acuta dei sensi dei segugi, che si radunino a una musica più nobile di quella del corno da caccia?




Quando desidero rinnovarmi, vado in cerca del bosco più buio, della palude più densa e interminabile e, per l’uomo civile, più tetra. Entro in una palude come in un luogo sacro – un sancta sanctorum. Là è la forza, il midollo della Natura.

Il bosco selvatico copre il terriccio vergine – e lo stesso suolo è buono per uomini e animali.

La salvezza di una città non è dovuta agli uomini retti che la abitano più che ai boschi e alle paludi che la circondano.




Una comunità sopra la quale svetta una foresta primitiva, mentre un’altra foresta primitiva marcisce al di sotto, tale città è atta a far crescere non solo granturco e patate, ma poeti e filosofi nelle epoche a venire. Su un suolo siffatto sono nati Omero, Confucio e gli altri, e da quella landa deserta viene il riformatore che si nutre di locuste e miele selvatico.

Queste foglie hanno ancora una specie di vita.

Sono straordinariamente belle nel loro stato appassito.

Se resistono, è come la perseveranza dei santi.

Hanno colori integri e forme più perfette che mai.




Ora che la folla e il trambusto dell’estate sono passati, ho modo di ammirarle a piacimento. Le loro sagome non mi stancano mai l’occhio. […] Che colori piacevoli e armoniosi all’interno e all’esterno, sopra e sotto. La superficie superiore liscia, delicatamente tinta di marrone, color ghianda, quella inferiore innervata e chiarissima (a volte argentea o cinerea).

Con quanta poesia rendono l’anima, come santi o creature innocenti e benefiche!

Sono spirituali: sebbene abbiano perduto la linfa, non hanno in realtà reso l’anima. Raramente toccate da vermi o insetti, sono più belle che mai.




Alcuni arbusti sono completamente nudi di foglie, sparpagliate color cuoio sul terreno. Si tratta di una pianta molto interessante: è figlia di ottobre e novembre, eppure mi fa pensare all’inizio della primavera.

I suoi fiori sanno di primavera, come gli amenti del salice; per il colore oltre che per la fragranza appartengono all’alba dell’anno col suo color zafferano, suggerendo così fra tutti questi segni dell’autunno – foglie cadute e brina – che la vita della Natura, in virtù della quale essa prospera eternamente, è intatta.




Si erge qui all’ombra sul fianco della collina, mentre il sole che spunta dalla cima accende i ciuffi e i fiori gialli più alti. La composizione dei suoi fiori, così snodata e angolare, non si può confondere con nessun’altra.

Mi stendo con gioia, supino sotto i suoi rami.

Mentre le sue foglie cadono, sgorgano i fiori.

L’autunno, allora, è in realtà una primavera.

Tutto l’anno è una primavera.

Vedo due merli alti sopra di me, diretti a sud, ma io nei miei pensieri vado a nord con questi fiori di amamelide. È un luogo incantato.

Questa è una parte dell’immortalità dell’anima!




L’altro giorno, dopo aver camminato un paio d’ore per i boschi, sono arrivato alla base di un alto pioppo tremulo, che non ricordo di aver visto prima, erto in mezzo ai boschi del paese vicino, ancora fitto di foglie mutate in un giallo verdastro.

È forse il più grande della sua specie che io conosca.

È stato per puro caso che mi ci sono imbattuto, e se fossi stato mandato a trovarlo mi sarebbe sembrato, come si dice, di cercare un ago in un pagliaio.




Mi è rimasto nascosto tutta l’estate, e probabilmente per tanti anni, ma ora, salendo in una direzione diversa sulla stessa collina da cui ho visto le querce scarlatte, e guardandomi in giro appena prima del tramonto, quando tutti gli altri alberi visibili per miglia sono rossastri o verdi, distinguo il mio nuovo amico dal suo colore giallo.

Ha raggiunto la fama, finalmente, e la ricompensa per aver vissuto in tale solitudine e oscurità. È l’albero che si distingue di più in tutto il panorama, e agli occhi di tutti sarebbe il centro dell’attenzione.

Così ricopre il suo ruolo nel coro.




È come se anche lui mi avesse riconosciuto, e con piacere, venendomi incontro a metà strada, e ora l’amicizia nata in modo così propizio sarà, io credo, perenne.

Il mio occhio vaga al di là della vallata fino ai boschi di pini che bordano il versante opposto, e nel loro aspetto trova qualcosa che si rivolge alla mia natura. Può darsi che nel mio stato d’animo io stessi chiedendo alla Natura stessa di darmi un segno. Non so cosa sia stato ad attirare il mio sguardo. Ho provato una contentezza passeggera, in ogni caso, per qualcosa che ho visto. Sono certo che l’occhio si sia posato con piacere sui pini bianchi, che ora riflettono una luce argentea, con i piani infiniti dei loro rami, strato su strato, una specie di struttura basaltica, un polveroso dirupo di pino stratificato in orizzontale.

Questo in ogni caso ho ricavato dalla mia passeggiata pomeridiana: un cenno di riconoscimento dal bosco, una specie di saluto.

(H.D. Thoreau)











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