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Eretico (31)
[Il mio
diario] è come una foglia che pende sopra la mia testa sul sentiero…
Piego il
ramoscello e scrivo su di essa la mia preghiera; poi, nel lasciarla andare, il
ramo spedisce lo scarabocchio fino in cielo. Come se, invece di restare chiuso
nella mia scrivania, fosse un foglio pubblico come qualsiasi cosa in natura.
È papiro
sulla riva del fiume; è cartapecora nei pascoli; è pergamena sulle colline. Lo
trovo ovunque, libero come le foglie che sfilano lungo i viottoli in autunno.
Il corvo,
l’oca, l’aquila portano la mia penna, e il vento spinge le pagine tanto lontano
quanto me. Oppure, se la mia fantasia non vola ma va a tentoni tra poltiglia e
fango, scriverò con una canna.
Il grillo,
il gorgoglio del ruscello, il fruscio del vento fra gli alberi mi parlano tutti
in modo sobrio ma incoraggiante del continuo progresso dell’universo. Mi salta
il cuore in gola al suono del vento nel bosco.
Io, che solo
ieri avevo una vita così dispersiva e superficiale, ritrovo all’improvviso il
mio spirito, la mia spiritualità, attraverso l’udito. Vedo un cardellino che attraversa
cinguettando la giornata ferma e cupa, e mi vengono in mente gli stormi
pigolanti che presto annunceranno la stagione contemplativa.
Ah, se potessi
vivere in modo che non vi fosse alcun momento dispersivo in tutta la mia vita!
Che nella stagione della frivolezza, quando i piccoli frutti sono maturi,
possano essere maturi anche i miei frutti. Che io possa sempre far corrispondere
alla natura i miei stati d’animo! Che in ogni stagione in cui una parte della
natura è particolarmente prospera, allora una corrispondente parte di me possa
riuscire a prosperare.
Ah,
camminerei, mi sederei e dormirei con devozione naturale. E se sapessi recitare
ad alta voce o a me stesso, nel costeggiare le rive del torrente, un’allegra
preghiera come gli uccelli! Per la gioia potrei abbracciare la terra; mi darà
diletto esservi sepolto.
Ti ringrazio,
Dio. Io non merito nulla.
Non sono
degno della minima considerazione, eppure mi è dato motivo di giubilo. Sono
impuro e indegno, eppure il mondo viene indorato per il mio diletto, giorni
festosi sono preparati per me, e il mio cammino è cosparso di fiori.
Perché ci
danno piacere le vaste distese innevate, il crepuscolo del bosco incurvato e
quasi sepolto?
Non è forse
tutto ciò consono a virtù, giustizia, purezza, coraggio, magnanimità?
Forse che
non ci rallegra quella vista?
E tutto ciò
non corrisponde forse alle tracce di una vita più elevata di quella della
lontra, una vita che non è soltanto passata lasciando un’impronta, ma esiste
con la sua bellezza, la sua musica, il suo profumo, la sua dolcezza, per invigorirci
e rinnovarci?
Dove c’è un
perfetto governo del mondo secondo le leggi più elevate, forse non c’è traccia
d’intelligenza laggiù, che sia nella neve o sulla terra, o in noi stessi?
Nessun’altra
pista che un cane non sappia odorare?
Non ve n’è alcuna
che un angelo possa distinguere e seguire?
Alcuna per
guidare un uomo nel suo pellegrinaggio, che l’acqua non nasconda?
Non c’è
odore di santità che si possa percepire?
Forse la
pista è troppo vecchia, e i mortali hanno perso l’usta?
Se uno
potesse decifrare il significato della neve, non sarebbe forse sulla scia di
una qualche vita più elevata che è stata in circolo durante la notte?
Non ci sono
cacciatori che cerchino qualcosa di più elevato delle volpi, con una capacità
di giudizio più acuta dei sensi dei segugi, che si radunino a una musica più
nobile di quella del corno da caccia?
Quando
desidero rinnovarmi, vado in cerca del bosco più buio, della palude più densa e
interminabile e, per l’uomo civile, più tetra. Entro in una palude come in un
luogo sacro – un sancta sanctorum. Là è la forza, il midollo della Natura.
Il bosco
selvatico copre il terriccio vergine – e lo stesso suolo è buono per uomini e
animali.
La salvezza
di una città non è dovuta agli uomini retti che la abitano più che ai boschi e
alle paludi che la circondano.
Una
comunità sopra la quale svetta una foresta primitiva, mentre un’altra foresta
primitiva marcisce al di sotto, tale città è atta a far crescere non solo
granturco e patate, ma poeti e filosofi nelle epoche a venire. Su un suolo
siffatto sono nati Omero, Confucio e gli altri, e da quella landa deserta viene
il riformatore che si nutre di locuste e miele selvatico.
Queste
foglie hanno ancora una specie di vita.
Sono
straordinariamente belle nel loro stato appassito.
Se
resistono, è come la perseveranza dei santi.
Hanno
colori integri e forme più perfette che mai.
Ora che la
folla e il trambusto dell’estate sono passati, ho modo di ammirarle a
piacimento. Le loro sagome non mi stancano mai l’occhio. […] Che colori
piacevoli e armoniosi all’interno e all’esterno, sopra e sotto. La superficie
superiore liscia, delicatamente tinta di marrone, color ghianda, quella
inferiore innervata e chiarissima (a volte argentea o cinerea).
Con quanta
poesia rendono l’anima, come santi o creature innocenti e benefiche!
Sono
spirituali: sebbene abbiano perduto la linfa, non hanno in realtà reso l’anima.
Raramente toccate da vermi o insetti, sono più belle che mai.
Alcuni
arbusti sono completamente nudi di foglie, sparpagliate color cuoio sul
terreno. Si tratta di una pianta molto interessante: è figlia di ottobre e
novembre, eppure mi fa pensare all’inizio della primavera.
I suoi
fiori sanno di primavera, come gli amenti del salice; per il colore oltre che
per la fragranza appartengono all’alba dell’anno col suo color zafferano,
suggerendo così fra tutti questi segni dell’autunno – foglie cadute e brina –
che la vita della Natura, in virtù della quale essa prospera eternamente, è
intatta.
Si erge qui
all’ombra sul fianco della collina, mentre il sole che spunta dalla cima
accende i ciuffi e i fiori gialli più alti. La composizione dei suoi fiori,
così snodata e angolare, non si può confondere con nessun’altra.
Mi stendo
con gioia, supino sotto i suoi rami.
Mentre le
sue foglie cadono, sgorgano i fiori.
L’autunno,
allora, è in realtà una primavera.
Tutto
l’anno è una primavera.
Vedo due merli
alti sopra di me, diretti a sud, ma io nei miei pensieri vado a nord con questi
fiori di amamelide. È un luogo incantato.
Questa è
una parte dell’immortalità dell’anima!
L’altro
giorno, dopo aver camminato un paio d’ore per i boschi, sono arrivato alla base
di un alto pioppo tremulo, che non ricordo di aver visto prima, erto in mezzo
ai boschi del paese vicino, ancora fitto di foglie mutate in un giallo
verdastro.
È forse il
più grande della sua specie che io conosca.
È stato per
puro caso che mi ci sono imbattuto, e se fossi stato mandato a trovarlo mi
sarebbe sembrato, come si dice, di cercare un ago in un pagliaio.
Mi è
rimasto nascosto tutta l’estate, e probabilmente per tanti anni, ma ora, salendo
in una direzione diversa sulla stessa collina da cui ho visto le querce scarlatte,
e guardandomi in giro appena prima del tramonto, quando tutti gli altri alberi
visibili per miglia sono rossastri o verdi, distinguo il mio nuovo amico dal
suo colore giallo.
Ha
raggiunto la fama, finalmente, e la ricompensa per aver vissuto in tale
solitudine e oscurità. È l’albero che si distingue di più in tutto il panorama,
e agli occhi di tutti sarebbe il centro dell’attenzione.
Così
ricopre il suo ruolo nel coro.
È come se
anche lui mi avesse riconosciuto, e con piacere, venendomi incontro a metà
strada, e ora l’amicizia nata in modo così propizio sarà, io credo, perenne.
Il mio
occhio vaga al di là della vallata fino ai boschi di pini che bordano il
versante opposto, e nel loro aspetto trova qualcosa che si rivolge alla mia natura.
Può darsi che nel mio stato d’animo io stessi chiedendo alla Natura stessa di
darmi un segno. Non so cosa sia stato ad attirare il mio sguardo. Ho provato
una contentezza passeggera, in ogni caso, per qualcosa che ho visto. Sono certo
che l’occhio si sia posato con piacere sui pini bianchi, che ora riflettono una
luce argentea, con i piani infiniti dei loro rami, strato su strato, una specie
di struttura basaltica, un polveroso dirupo di pino stratificato in orizzontale.
Questo in
ogni caso ho ricavato dalla mia passeggiata pomeridiana: un cenno di
riconoscimento dal bosco, una specie di saluto.
(H.D. Thoreau)
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