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Quando l'Anima era pura (27)
Dal punto
di vista della vita selvatica il Tibet nel quale sono cresciuto era un paradiso.
I viaggiatori che si sono spinti fin lì prima della metà del secolo, ne hanno
tutti reso testimonianza.
Gli animali
venivano cacciati solo di rado, se non nelle aree più remote e inadatte alla
coltivazione. Ogni anno, il governo emanava un proclama a protezione della vita
animale:
‘Nessuno, nobile o umile che sia, nuocerà o
userà violenza alle creature della terra e dell’acqua’,
decretava.
Quando ero
giovane, non appena lasciavo Lhasa incontravo un gran numero di animali di
specie diverse. Questa presenza costante della vita animale è anche il ricordo
più importante che conservo del mio viaggio di tre mesi attraverso il Tibet, da
Taktser, la mia città natale, a Lhasa, dove sono stato ufficialmente proclamato
Dalai Lama all’età di quattro anni. Mandrie sterminate di kiang, asini
selvatici, e drong, yak, pascolavano liberamente nelle pianure. Schiere di
gowa, la timida gazzella tibetana, di wa, il cervo dalle labbra bianche, o di
tso, la nostra maestosa antilope, fuggivano all’avvicinarsi della nostra
carovana.
Ricordo anche
di essere rimasto affascinato dalle piccole chibi, o pika, una specie di
marmotte che popolavano le zone erbose. Erano così carine. E mi piaceva
osservare gli uccelli, il nobile gho, l’aquila con la barba che planava sopra i
monasteri arroccati sulle montagne, le anatre, nangbar, che volavano in stormi,
e il wookpa, il gufo, il cui verso ne rivelava la presenza di notte.
Anche a
Lhasa non ci si sentiva minimamente separati dalla natura.
Nel mio appartamento
in cima al Potala, il palazzo d’inverno dei Dalai Lama, da fanciullo ho
trascorso ore e ore a studiare il comportamento dei khyungkar dal becco rosso,
che nidificavano negli interstizi del muro. Nelle paludi dietro il Norbulingka,
il palazzo d’estate, vedevo spesso coppie di gru giapponesi dal collo nero,
uccelli simbolo dell’eleganza e della grazia. Per non parlare dell’autentica
gloria della fauna tibetana, l’orso e la volpe di montagna, il lupo, il
leopardo delle nevi, la lince, terrore dei contadini nomadi, o il panda
maggiore, originario della regione di frontiera tra Tibet e Cina.
Purtroppo
questo tripudio di vita selvatica non esiste più. Tutti i tibetani con cui ho
parlato, gente che è tornata nel paese a trenta o quarant’anni di distanza,
sono stati colpiti dall’assenza di vita animale. Un tempo le bestie selvatiche
si spingevano vicino alle case, oggi non se ne vedono quasi da nessuna parte.
Le
problematiche ambientali sono nuove per me.
In Tibet,
pensavamo che la natura fosse pura.
Di fronte a
un fiume, non ci si poneva la questione se fosse sicuro o meno berne l’acqua.
Ma dai tempi dell’esilio in India la situazione è cambiata, anche in altri
paesi. È così che, poco alla volta, i tibetani hanno imparato e si sono resi
conto che certe cose sono inutilizzabili. In realtà, quando abbiamo stabilito i
nostri insediamenti in India, molti di noi si sono ammalati di stomaco perché
avevano bevuto acqua contaminata.
È grazie
all’esperienza e all’incontro con gli esperti che ci siamo fatti una cultura
sulle questioni ambientali. Il Tibet è un grande paese con un vasto territorio
di alta quota, dal clima freddo e secco. Queste condizioni possono aver creato
una forma di protezione naturale per l’ambiente, mantenendolo pulito e fresco.
Nei pascoli settentrionali, nelle zone minerarie, nelle foreste e nelle valli
fluviali vivevano un tempo molti animali selvatici, pesci e uccelli. A tal
proposito, ecco un aneddoto curioso.
I cinesi
stabilitisi in Tibet dopo il 1959 erano agricoltori che costruivano strade e
amavano molto la carne. Avevano l’abitudine di
andare a caccia di anatre, stretti nell’uniforme dell’esercito o in abiti
cinesi che mettevano in allarme gli uccelli e li facevano volare via. Alla fine i suddetti cacciatori hanno risolto indossando abiti
tibetani.
È una
storia vera!
Succedevano
cose del genere, in particolare negli anni Settanta e Ottanta, quando ancora di
uccelli ce n’erano tantissimi. Recentemente, diverse migliaia di tibetani hanno
fatto ritorno al loro luogo di nascita.
Tutti
riferiscono che, quaranta o cinquant’anni fa, quegli stessi posti erano
ammantati da immense foreste. Oggi le montagne sono calve come teste di monaci.
Non ci sono più grandi alberi e, a volte, persino le radici sono state
strappate e rimosse. Questa è la situazione attuale. In passato era facile incontrare
grosse mandrie di animali selvatici, ma oggi non ne rimane più quasi nessuna.
Quando ero
un fanciullo che studiava il buddhismo, mi venne insegnato che bisogna
prendersi cura della natura, perché la pratica della non violenza non si
applica soltanto agli esseri umani, ma a tutti gli esseri senzienti.
Tutto ciò che
è animato possiede una consapevolezza. E là dove vi è consapevolezza, vi sono
sentimenti quali il dolore, il piacere e la gioia.
Nessun
essere senziente vuole soffrire.
Tutti, invece,
cercano la felicità.
A noi
praticanti buddhisti l’idea della non violenza e il proposito di porre fine a
ogni sofferenza sono così familiari che prestiamo attenzione a non danneggiare
o distruggere la vita nemmeno in modo inconsapevole. Ovviamente, non crediamo
che gli alberi o i fiori abbiano un’anima, tuttavia li trattiamo con rispetto.
Sviluppiamo quindi un senso di responsabilità universale nei riguardi
dell’umanità e della natura.
Allo scopo
di mantenere il delicato equilibrio di tutte le esistenze, il decimo mese
dell’anno lunare un decreto, o Tsatsig, veniva promulgato per conto del governo
centrale dei Dalai Lama a protezione di piante e animali.
A differenza delle società occidentali, che non
hanno mai smesso di sottomettere la vita naturale al loro progetto di civiltà, i tibetani si sono
sempre sforzati di vivere in armonia con i loro spazi aperti, traboccanti di
fauna e flora selvatiche.
Hanno
investito di un’aura divina la manifestazione di tutti gli esseri, animati e
no.
Nel mondo
che accoglie gli uomini, le energie invisibili non umane conferivano le loro
forme singolari al paesaggio e ai suoi elementi. Le montagne imponenti, le
vaste foreste, le rocce di forma insolita erano ritenute dimore degli spiriti
e, come tali, erano oggetto di venerazione.
La presenza umana non vi era tollerata, e ai
bambini era proibito giocarci.
Allo stesso
modo, erano considerati sacri anche i fiumi, i corsi d’acqua e i ruscelli, regni
dei Naga, spiriti dell’acqua dal volto umano e il corpo di un drago. Gli abitanti
del posto tributavano loro il rispetto che si deve ai luoghi di culto, evitando
d’immergervi le mani, di farci il bagno o di lavarci i vestiti. Per non contaminarli,
si accontentavano di prendere la quantità di acqua di cui avevano bisogno per
poi attendere alle proprie faccende da un’altra parte.
Queste
credenze sono state denigrate dalla propaganda cinese e qualificate come ‘retrograde’
in nome della modernizzazione a tappe forzate imposta al Tibet dalla Repubblica
popolare. A scuola, i bambini sono stati costretti a sterminare mosche,
zanzare, topi e uccelli, animali che i funzionari, incaricati d’indottrinare la
popolazione, avevano battezzato ‘i quattro parassiti’, paragonandoli ai ricchi
proprietari che un tempo approfittavano del lavoro del popolo.
Queste
misure sono state colpi mirati all’anima dei tibetani, con l’intento di
sconvolgerne lo stile di vita così come la coscienza. I sentimenti di noi
tibetani verso la natura sono frutto dei nostri costumi in generale e non
soltanto del buddhismo. Nel caso del buddhismo giapponese o di quello
thailandese, di ambienti cioè diversi dal nostro, emergeranno un’altra cultura,
altri comportamenti.
La nostra
natura, unica nel suo genere, ci ha fortemente influenzati. Noi non viviamo su
una piccola isola sovrappopolata. Storicamente il nostro vasto territorio, così
poco abitato, non è stato per noi motivo di inquietudine, né lo sono stati i
nostri remoti confinanti. Noi non abbiamo maturato un sentimento di
oppressione, come molte altre comunità.
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