CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

sabato 9 novembre 2019

QUANDO L'ANIMA ERA PURA (26)












































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Quando l'Anima era pura (27)














Dal punto di vista della vita selvatica il Tibet nel quale sono cresciuto era un paradiso. I viaggiatori che si sono spinti fin lì prima della metà del secolo, ne hanno tutti reso testimonianza.

Gli animali venivano cacciati solo di rado, se non nelle aree più remote e inadatte alla coltivazione. Ogni anno, il governo emanava un proclama a protezione della vita animale:

Nessuno, nobile o umile che sia, nuocerà o userà violenza alle creature della terra e dell’acqua’,

decretava.




Quando ero giovane, non appena lasciavo Lhasa incontravo un gran numero di animali di specie diverse. Questa presenza costante della vita animale è anche il ricordo più importante che conservo del mio viaggio di tre mesi attraverso il Tibet, da Taktser, la mia città natale, a Lhasa, dove sono stato ufficialmente proclamato Dalai Lama all’età di quattro anni. Mandrie sterminate di kiang, asini selvatici, e drong, yak, pascolavano liberamente nelle pianure. Schiere di gowa, la timida gazzella tibetana, di wa, il cervo dalle labbra bianche, o di tso, la nostra maestosa antilope, fuggivano all’avvicinarsi della nostra carovana.




Ricordo anche di essere rimasto affascinato dalle piccole chibi, o pika, una specie di marmotte che popolavano le zone erbose. Erano così carine. E mi piaceva osservare gli uccelli, il nobile gho, l’aquila con la barba che planava sopra i monasteri arroccati sulle montagne, le anatre, nangbar, che volavano in stormi, e il wookpa, il gufo, il cui verso ne rivelava la presenza di notte.

Anche a Lhasa non ci si sentiva minimamente separati dalla natura.




Nel mio appartamento in cima al Potala, il palazzo d’inverno dei Dalai Lama, da fanciullo ho trascorso ore e ore a studiare il comportamento dei khyungkar dal becco rosso, che nidificavano negli interstizi del muro. Nelle paludi dietro il Norbulingka, il palazzo d’estate, vedevo spesso coppie di gru giapponesi dal collo nero, uccelli simbolo dell’eleganza e della grazia. Per non parlare dell’autentica gloria della fauna tibetana, l’orso e la volpe di montagna, il lupo, il leopardo delle nevi, la lince, terrore dei contadini nomadi, o il panda maggiore, originario della regione di frontiera tra Tibet e Cina.




 Purtroppo questo tripudio di vita selvatica non esiste più. Tutti i tibetani con cui ho parlato, gente che è tornata nel paese a trenta o quarant’anni di distanza, sono stati colpiti dall’assenza di vita animale. Un tempo le bestie selvatiche si spingevano vicino alle case, oggi non se ne vedono quasi da nessuna parte.

Le problematiche ambientali sono nuove per me.

In Tibet, pensavamo che la natura fosse pura.




Di fronte a un fiume, non ci si poneva la questione se fosse sicuro o meno berne l’acqua. Ma dai tempi dell’esilio in India la situazione è cambiata, anche in altri paesi. È così che, poco alla volta, i tibetani hanno imparato e si sono resi conto che certe cose sono inutilizzabili. In realtà, quando abbiamo stabilito i nostri insediamenti in India, molti di noi si sono ammalati di stomaco perché avevano bevuto acqua contaminata.

È grazie all’esperienza e all’incontro con gli esperti che ci siamo fatti una cultura sulle questioni ambientali. Il Tibet è un grande paese con un vasto territorio di alta quota, dal clima freddo e secco. Queste condizioni possono aver creato una forma di protezione naturale per l’ambiente, mantenendolo pulito e fresco. Nei pascoli settentrionali, nelle zone minerarie, nelle foreste e nelle valli fluviali vivevano un tempo molti animali selvatici, pesci e uccelli. A tal proposito, ecco un aneddoto curioso.




I cinesi stabilitisi in Tibet dopo il 1959 erano agricoltori che costruivano strade e amavano molto la carne. Avevano l’abitudine di andare a caccia di anatre, stretti nell’uniforme dell’esercito o in abiti cinesi che mettevano in allarme gli uccelli e li facevano volare via. Alla fine i suddetti cacciatori hanno risolto indossando abiti tibetani.

È una storia vera!

Succedevano cose del genere, in particolare negli anni Settanta e Ottanta, quando ancora di uccelli ce n’erano tantissimi. Recentemente, diverse migliaia di tibetani hanno fatto ritorno al loro luogo di nascita.




Tutti riferiscono che, quaranta o cinquant’anni fa, quegli stessi posti erano ammantati da immense foreste. Oggi le montagne sono calve come teste di monaci. Non ci sono più grandi alberi e, a volte, persino le radici sono state strappate e rimosse. Questa è la situazione attuale. In passato era facile incontrare grosse mandrie di animali selvatici, ma oggi non ne rimane più quasi nessuna.

Quando ero un fanciullo che studiava il buddhismo, mi venne insegnato che bisogna prendersi cura della natura, perché la pratica della non violenza non si applica soltanto agli esseri umani, ma a tutti gli esseri senzienti.




Tutto ciò che è animato possiede una consapevolezza. E là dove vi è consapevolezza, vi sono sentimenti quali il dolore, il piacere e la gioia.

Nessun essere senziente vuole soffrire.

Tutti, invece, cercano la felicità.

A noi praticanti buddhisti l’idea della non violenza e il proposito di porre fine a ogni sofferenza sono così familiari che prestiamo attenzione a non danneggiare o distruggere la vita nemmeno in modo inconsapevole. Ovviamente, non crediamo che gli alberi o i fiori abbiano un’anima, tuttavia li trattiamo con rispetto. Sviluppiamo quindi un senso di responsabilità universale nei riguardi dell’umanità e della natura.




Allo scopo di mantenere il delicato equilibrio di tutte le esistenze, il decimo mese dell’anno lunare un decreto, o Tsatsig, veniva promulgato per conto del governo centrale dei Dalai Lama a protezione di piante e animali.

A differenza delle società occidentali, che non hanno mai smesso di sottomettere la vita naturale al loro progetto di civiltà, i tibetani si sono sempre sforzati di vivere in armonia con i loro spazi aperti, traboccanti di fauna e flora selvatiche.

Hanno investito di un’aura divina la manifestazione di tutti gli esseri, animati e no.

Nel mondo che accoglie gli uomini, le energie invisibili non umane conferivano le loro forme singolari al paesaggio e ai suoi elementi. Le montagne imponenti, le vaste foreste, le rocce di forma insolita erano ritenute dimore degli spiriti e, come tali, erano oggetto di venerazione.




La presenza umana non vi era tollerata, e ai bambini era proibito giocarci.

Allo stesso modo, erano considerati sacri anche i fiumi, i corsi d’acqua e i ruscelli, regni dei Naga, spiriti dell’acqua dal volto umano e il corpo di un drago. Gli abitanti del posto tributavano loro il rispetto che si deve ai luoghi di culto, evitando d’immergervi le mani, di farci il bagno o di lavarci i vestiti. Per non contaminarli, si accontentavano di prendere la quantità di acqua di cui avevano bisogno per poi attendere alle proprie faccende da un’altra parte.

Queste credenze sono state denigrate dalla propaganda cinese e qualificate come ‘retrograde’ in nome della modernizzazione a tappe forzate imposta al Tibet dalla Repubblica popolare. A scuola, i bambini sono stati costretti a sterminare mosche, zanzare, topi e uccelli, animali che i funzionari, incaricati d’indottrinare la popolazione, avevano battezzato ‘i quattro parassiti’, paragonandoli ai ricchi proprietari che un tempo approfittavano del lavoro del popolo.




Queste misure sono state colpi mirati all’anima dei tibetani, con l’intento di sconvolgerne lo stile di vita così come la coscienza. I sentimenti di noi tibetani verso la natura sono frutto dei nostri costumi in generale e non soltanto del buddhismo. Nel caso del buddhismo giapponese o di quello thailandese, di ambienti cioè diversi dal nostro, emergeranno un’altra cultura, altri comportamenti.


La nostra natura, unica nel suo genere, ci ha fortemente influenzati. Noi non viviamo su una piccola isola sovrappopolata. Storicamente il nostro vasto territorio, così poco abitato, non è stato per noi motivo di inquietudine, né lo sono stati i nostri remoti confinanti. Noi non abbiamo maturato un sentimento di oppressione, come molte altre comunità. 













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