CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
30 MAGGIO 1924

giovedì 23 dicembre 2021

LA STELLA... (12)

 























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Polare  (13)








Permetta Maestà, ch’io dedichi queste pagine alla memoria del compianto Re. Il Suo aiuto morale e materiale mi permise di compiere questo Viaggio, che per il risultato ottenuto Gli avrebbe procurato una gioia ben grande, se da una mano scellerata la Sua vita non fosse stata improvvisamente troncata prima del ritorno della spedizione.




Nei tempi antichi re e principi erano i capi bellicosi dei loro concittadini, gli autori di gesta eroiche. Al giorno d’oggi sono così occupati a pensare come governare con saggezza, per non naufragare nelle gelide acque così come nei vasti cieli di velenose nubi purpuree, che non hanno la possibilità di essere eroi.

 

Solo modesti nonni!

 

Ma c’è almeno un principio di questi tempi moderni che si è dimostrato uguale, e a cui si ispirano, e questo è l’indomita conquista. Questi fu il Principe Luigi Amedeo di Savoia-Aosta, Duca degli Abruzzi; il cui nome completo, tra l’altro, è Luigi Amadeo Giuseppe Maria Ferdinando Francesco.




Degli odierni… seppur in ugual medesimo Polo… abbiamo perso memoria.

 

Il principe Luigi è un italiano, figlio di Amadeo, ex re di Spagna. Era anche nipote del re Umberto d’Italia, e quindi cugino di primo grado dell’attuale re d’Italia, Vittorio Emanuele. Luigi nacque a Madrid il 29 gennaio 1873. Studiò al collegio navale di Livorno.

 

Fu lì che mostrò per la prima volta il suo spirito veramente democratico. Preferì essere chiamato per nome e non si lasciò mai chiamare Duca o Altezza Reale. Dal college entrò nella marina italiana, dove ottenne un buon primato di obbedienza e intelligenza.




Ma stabilirsi come un semplice principe o duca non avrebbe mai soddisfatto il carattere avventuroso di Luigi. Voleva fare grandi cose e compiere azioni pericolose. La sua prima impresa è stata la salita del Mt. St. Elia in Alaska. Fino a quando non lo realizzò nel 1897, la grande vetta non era mai stata scalata.

 

Fu nel 1900 che guidò una spedizione nella regione artica che batté il record di estremo nord di Nansen, sfortunatamente il duca stesso fu gravemente congelato e non poté lasciare la nave; ma il capitano Umberto Cagni raggiunse la latitudine 86° 33’, e si avvicinò al Polo di poche miglia di Nansen.




La nave del Duca, la Stella polare, salpò da Christiania il 12 giugno 1899. Gravemente schiacciate dal ghiaccio, ebbero un duro compito per impedirne l’affondamento. Ma questo fu fatto, e Cagni con una festa partì sui ghiacci dell’Oceano Artico per il Polo. Le loro sofferenze furono terribili e solo sforzi eroici li riportarono in vita. La spedizione tornò a casa nel 1900, dove tutti furono onorati.

 

Rimembriamo e seguiamo l’attuale… Stella Polare… in medesima ispirata aspirazione… navigare in diversi mari…

 

Dacché si dica riconosciamo l’indubbio merito al Cagni della agognata conquista.

 

Dedicata a tutti i Cagni dell’Italia unita & afflitta!




Di tutti gli animali, che vivono nelle regioni settentrionali, nessuno merita tanta attenzione come il  cane.  Il  compagno dell’uomo  in  tutti  i  climi, dalle  isole  del  mezzogiorno,  dove esso  si  ciba  di  banana,  al  mar  polare, dove  il  suo  cibo  è  il  pesce,  qui lavora  in  modo  al  quale  non  è  abituato nelle  regioni  più  favorite  dalla natura. La necessità ha insegnato agli abitanti delle regioni settentrionali ad adoperare pel tiro questi animali relativamente deboli.  Su tutte le coste del mar polare, dal fiume Obi allo stretto di Behring in roenlandia, nel Camciatca e nelle isole Curili, i cani servono a trainare le slitte cariche di persone e di materiale per distanze considerevoli.

 

I cani presentano molta rassomiglianza coi lupi, hanno musi lunghi, aguzzi e sporgenti, orecchie acuminate e dritte, lunga coda a pennacchio; qualcuno ha il  pelo  liscio,  altri  lo  hanno  ricciuto;  il  mantello  è vario,  nero,  bruno,  rosso-bruno,  bianco  e  macchiato.




Variano in altezza, ma si ritiene che un buon cane da slitta non deve aver meno di due piedi e sette pollici e mezzo di altezza (metri 0,78), e tre piedi e  tre  quarti  di  pollice  di  lunghezza (metri  0,94). Il loro abbaiare è simile all’urlo dei lupi.  Essi passano la vita all’aperto, nell’estate scavano nella terra buche per restare più al fresco, o si tuffano nell’acqua per evitare le zanzare, nell’inverno  si  proteggono   seppellendosi  nella neve  e  giacciono  arrotolati  col  muso  coperto  dalla  coda.

 

In loro compagnia abbiamo passato il Natale…

 

La notte polare principiava schiarata  dalla  luna.




 D’ora  innanzi ogni  mese,  per  la  durata di  quindici  giorni,  il  nostro  satellite ci  avrebbe  illuminati  in modo  sufficiente  da  poter  lavorare e  passeggiare  all’esterno senza  bisogno  di  fanali.  Quando mancava  la  luna  si  era  nell’oscurità  assoluta.  La scarsa luce  crepuscolare, che  si  discerneva  all’ora di  mezzogiorno,  diventò ogni  giorno  più  debole,  finché nella  prima  settimana  di  dicembre scomparve del  tutto  anche  nelle  giornate  chiare. Né io né i miei  compagni  restammo  colpiti  dalla  limpidezza del  cielo.  Nelle giornate serene  gli  astri,  per  un  continuo polverio  di  neve  sospeso  nell’atmosfera,  non  brillavano, come  molte  volte  m’è  stato  dato  di  vedere  nelle  regioni tropicali  ed  anche  nel  nostro  paese.  Il paesaggio  appariva invero  molto  chiaro,  ma  questo  si  doveva  attribuire  all’intenso riflesso  del  ghiaccio.




I cani, dopo l’uragano dei primi  giorni  di  novembre,  non avevano  più  riparo  nelle  tempeste,  e  si  rifugiavano  in  parte nel  nostro  vestibolo,  in  parte  nel  casotto  degli  strumenti. Qualcuno rimaneva all’aperto; se i più  forti  resistevano, i  più deboli  alla  lunga  avrebbero  finito  per  soccombere.  Accadeva qualche volta che, rimanendo qualche tempo accovacciati, per  il  calore  del  corpo  si  scioglieva  la  neve  sotto  di  essi,  e nel  rigelo  la  coda  rimaneva  saldata  al  ghiaccio,  e  le  povere bestie  non  potevano  più  liberarsi.

 

Si pensò  di  riparare  i  cani  in  rifugi  scavati  nella  stessa neve  trasportata  ed  ammucchiata  dal  drift,  che  qualche  giorno prima  aveva  minacciato  di  seppellirli.  Tutta la  gente  si  diede con  slancio  a  questo  nuovo  lavoro,  scavando  colle  pale  e  colle piccozze  due  caverne  alte  un  metro  e  più,  ampie  parecchi metri  quadrati,  aerate  per  mezzo  dei  manica-venti  della  macchina.




Alla  luce  delle  lanterne  queste  grotte  avevano  un aspetto  fantastico.  Entro esse  si  chiusero  tutti  i  cani;  ma questi  colle zampe e coi denti scavarono  lateralmente  alle porte  un  passaggio  donde  uscirono.  Le nostre guide, da buoni montanari, s’impuntarono  nel  volerli  imprigionare,  e portarono  presso  le  porte  casse  di  galletta,  e  poi  acqua  che lasciarono  gelare  intorno  ad  esse,  formando  così  un  vero muro  in  cui  le  unghie  dei  cani  non  avrebbero  potuto  fare una  breccia.  Tutto ciò  fu  inutile:  gli  animali  scavarono  allora, lateralmente  alle  casse,  dei  tunnels,  lunghi  taluni  da  5 a  6  metri.  Certe volte uscirono all’aperto  con  sforzi  inauditi dai  manica-venti,  il  cui  bordo  interno  era  alto  metri  1,20  e più  sul  suolo. La loro perseveranza e  la  loro  astuzia,  superiori alle  nostre,  ci  persuasero  a  rinunciare  di  tenerli  sempre rinchiusi  e  a  lasciare  che,  durante  le  tempeste,  si  recassero da  loro  nei  ripari.




Accennavo intanto alle modificazioni che il mio piano preventivo avrebbe avuto nella pratica. Infatti col dottore Cavalli si  era  già quasi  fissata  definitivamente la  razione  quotidiana  di  viveri a  1300  grammi  per  ciascuno, non  tenendo  conto degli  involucri.  Si prevedeva che,  compresi  questi, essa  avrebbe  superato  i 1500,  peso  stabilito  fin  dal principio.  Per questo aumento nella razione, si  reputava  necessario diminuire  il  numero  delle  persone  di  ogni  gruppo, da  quattro  a  tre,  ma  lasciando  invariato  quello  delle  slitte.

 

Il  23  nel  pomeriggio  uscimmo  come  al  solito,  la  temperatura era  sui  - 2°,  ed  il  vento  spirava  leggerissimo  da maestro. Ci dirigemmo  con  passo  spedito  verso  il  fondo  della baia;  la  neve  migliore  degli  altri  giorni  permise  un’andatura assai  più  rapida  della  solita.  Mentre andavamo innanzi, il vento rinfrescò alquanto,  sollevando  una  leggera  foschia che  impediva  distinguere  le  slitte,  e  lasciava  scorgere  appena il  fanale  di  Petigax  che  camminava  in  testa  al  gruppo. 




Dopo un’ora e  mezzo  di  marcia,  Cagni,  che  era  all’avanguardia,  si fermò  perché  le  altre  slitte  lo  potessero  raggiungere.  Proprio in quel momento il  vento  si  mise  a  soffiare  con  violenza, con  una  direzione  diversa  da  quella  di  prima,  e  la  temperatura  si  abbassò  rapidamente  a  - 20°.  Le  traccia  lasciate dalle  slitte  nella  neve,  che  solo  si  vedevano  in  qualche  punto ove  questa  era  più  molle,  furono  in  breve  tempo  coperte,  e diventò  per  noi  difficile  orientarci  in  quella  posizione.

 

Si  riprese  la  via  del  ritorno. 

 

Cagni,  che  si  trovava  con Petigax  e  con  me  nella  prima  slitta,  aveva  molta  fiducia  che i  cani  sapessero  trovare  da  sé  la  strada  della  capanna;  ma, dopo  pochi  minuti,  ci  dovemmo  persuadere  che  essi  avevano perduto  le  traccie  fatte  nel  venire.  Le  slitte  intanto  incominciarono a  correre  con  una  notevole  velocità,  e  divenne evidente  che  si  stava  scendendo  un  pendio  abbastanza  forte.




Dove mai c’eravamo sviati, poiché mentre  credevamo  di  essere sul  ghiaccio  della  baia,  ci  trovavamo  invece  sul  ghiacciaio dell’isola?

 

Mi spinsi innanzi con  Petigax,  ma  non  si  era  fatta  una ventina  di  metri,  che  sotto  il  fanale  si  vide  il  ghiacciaio  finire improvvisamente.  Cercammo di arrestare i compagni colle grida;  inutilmente,  che  i  cani  vedendo  innanzi  a  loro  il  fanale di  Petigax  vi  si  diressero  sopra  al  galoppo,  e  due  slitte  coi cani,  Cagni  ed  io  precipitammo  dal  ghiacciaio  sulla  baia: un  salto  di  sette  od  otto  metri.  Le altre slitte per fortuna si arrestarono.  Le prime parole di Cagni, confuse coi  lamenti dei  cani,  mi  resero  dapprima inquieto,  ma  presto  fui  rassicurato. Egli come me non s’era fatto alcun  male.  Tranquillizzati i  ompagni,  che  chiedevano  ansiosamente  di  noi  dall’alto del  ghiacciaio,  rimanemmo  ad  attendere  che  ci  potessero raggiungere. 

 

Dove  eravamo?




Nella  giornata  del  24  infierì  una  forte  bufera  di  neve da  ponente.  La forza  del  vento  era  tale  che  Querini  non  poté recarsi  nel  casotto  degli  strumenti,  distante  appena  trenta  me- tri dalla  tenda. Per  giungervi  sarebbe  stato  necessario  essere legati  con  una  corda.  Questa bufera  ci  fece  perdere  la  speranza di  ritrovare  le  nostre  slitte,  ed  infatti,  sebbene  ripetute ricerche  siano  state fatte  non  solo  nell’inverno, ma  anche più  tardi  nell’estate, esse  rimasero  affatto infruttuose. Il Natale fu da noi festeggiato colla maggior pompa possibile.  Le nostre tende avevano avuto in quella occasione una buona lavata. Questa pulizia era vivamente desiderata. Ad operazione finita provammo la sensazione che la capanna non  fosse  più  la stessa,  e  sedendoci  a  tavola  per  la  colazione,  sebbene  l’acqua sola  avesse  fatto  il  miracolo,  tutto  ci  parve  bello.

 

 Si avvicinava la fine dell’anno, ed anche questa festa fu  celebrata  con  tutto  l’entusiasmo  possibile. Chi  più  contribuì all’allegria  di  quei  giorni  fu  il  dottore.

(S.A.R)


(Prosegue con la polare...)










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