CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

mercoledì 15 dicembre 2021

PIONIERI... (10)

 
























Precedenti capitoli:


Dei pionieri...










Della Sibilla  (6/9)


Prosegue ancora con i...








Pionieri (d'Abruzzo)  (11)









Il 6 gennaio 1909 Vittorio Sella ricevette dal duca degli Abruzzi una lettera annotata confidenziale, con l’invito a partecipare a una spedizione diretta nel Karakorum. Il Duca aveva finalmente ricevuto dalle autorità britanniche il permesso di scalare il K2 e di eseguire esplorazioni e rilevamenti nella regione del Baltoro, al fine di disegnarne la mappa. Pensava di selezionare un piccolo gruppo di quattro o cinque alpinisti con sette o otto tra guide e portatori valdostani, e concludeva:

 

Vuole Lei essere il fotografo? Si sente ancora disposto o ne ha abbastanza di spedizioni e del mio carattere qualche volta non troppo facile durante i viaggi?

 

Era la prima volta che il Duca si preoccupava del suo carattere, e per la prima volta Sella non era entusiasta dell’invito. Anche nelle precedenti occasioni aveva avuto, all’inizio, qualche esitazione, ma ora i dubbi erano molteplici. Vittorio Sella faceva parte di un’antica famiglia biellese che aveva raggiunto una notevole prosperità con l’industria manifatturiera.




Vittorio, che partecipava come tutta la famiglia all’attività dell’azienda – che si era allargata, nel 1886, con la fondazione di un istituto di credito, la Banca Sella –, aveva due grandi passioni: la montagna e la fotografia. Ma l’educazione nella quale era cresciuto, tipica della borghesia piemontese dell’Ottocento, era basata su un rigido senso del dovere e del risparmio e gli rendeva increscioso dedicarsi a queste attività a scapito del lavoro. Eppure, entrambe le passioni erano condivise in famiglia. Lo zio Quintino era stato il fondatore del Club Alpino Italiano e i suoi figli avevano compiuto numerose prime ascensioni. Anche il padre, Giuseppe Venanzio, morto quando Vittorio era ancora in tenera età, era stato un alpinista, e i suoi figli, Vittorio, Carlo, Gaudenzio ed Erminio, avevano continuato a frequentare la montagna. Anche l’inclinazione di Vittorio per la fotografia era ereditata dal padre, che era stato un pioniere in quel campo e aveva scritto un trattato, Il Plico del fotografo: il primo manuale di fotografia pubblicato in Italia.




 Nella casa paterna il giovane Vittorio, che dopo gli studi tecnici aveva preso lezioni di disegno e di pittura da Luigi Ciardi – eccellente pittore e affrescatore biellese –, disponeva delle apparecchiature e del materiale lasciato dal padre, e riuscì a unire felicemente alle tecniche fotografiche quelle pittoriche – lo studio della prospettiva e del taglio dell’inquadratura – sviluppando quello stile personale che fece di lui uno dei più grandi fotografi di montagna di tutti i tempi. La montagna era infatti il suo terreno preferito anche per praticare la fotografia: specialmente l’alta montagna, terreno vergine da esplorare e da documentare. Fu subito apprezzato e stimato, anche a livello internazionale, come alpinista e come fotografo ma, fino a quando le esposizioni delle sue fotografie non cominciarono a fruttargli, oltre che premi e onorificenze, anche vantaggi economici, faticò sempre a liberarsi di un senso di disagio nei confronti della famiglia nel perseguire le attività che gli davano maggior piacere.




Nel 1899, alle sue attività si era aggiunta un’opera di bonifica intrapresa col cognato Edgardo Mosca nella piana della Nurra in Sardegna, per la creazione di un’impresa vitivinicola. L’invito del Duca a partecipare alla nuova spedizione giungeva in un momento in cui Vittorio – che avrebbe compiuto cinquant’anni di lì a pochi mesi – era particolarmente riluttante ad assentarsi per un lungo periodo.

 

A ciò si aggiungeva l’irritazione sperimentata a volte nel corso delle precedenti spedizioni, quando avrebbe voluto avere maggior tempo a disposizione per fotografare e si lamentava della scarsa disposizione del Duca e dei suoi compagni ad apprezzare la bellezza del paesaggio.




Ma a parte le sue qualità di fotografo, Vittorio Sella era stato un componente importante delle spedizioni alpinistiche del Duca, specialmente al Sant’Elia, dove la sua esperienza alpinistica era stata determinante nella scelta dell’itinerario che portò alla vetta. Inoltre, con Freshfield al Kangchenjunga, aveva fatto esperienza proprio tra le alte montagne dell’Himalaya. Al Duca sarebbe spiaciuto molto non averlo con sé in questa spedizione. Insistette e Vittorio accettò. In un primo tempo pareva che Cagni sarebbe stato della partita, e questo probabilmente incoraggiò Sella ad accettare.

 

Vittorio Sella aveva molta stima e amicizia per Cagni.

 

È l’anima di tutto scriveva di lui alla moglie, dal Ruwenzori,

 

e ogni giorno più ammiro in lui la fibra straordinaria.




Cagni invece non poté partecipare per ragioni di servizio, ma Vittorio si era già impegnato e partì. Generazioni di alpinisti gli sono grate per quella decisione, perché le sue fotografie del Karakorum non solo costituirono un documento prezioso per i successivi esploratori e alpinisti, ma sono ancora oggi tra le immagine più belle ed emozionanti delle montagne più alte della Terra.

 

Dopo la rottura del fidanzamento con miss Elkins, il duca degli Abruzzi diradò le sue comparizioni in pubblico per eludere i reporter che ancora gli davano la caccia. Non riuscì a evitarli del tutto e in aggiunta alcuni giornali ipotizzarono che la sua sparizione dalla scena fosse dovuta a risentimento per una mancata nomina ad ammiraglio. Qualcuno scrisse persino che Luigi di Savoia avrebbe dato le dimissioni e sarebbe andato in America a sposare Katherine.




Il Duca non nascose la sua irritazione per quelle illazioni e trascinato dall’esasperazione arrivò a dichiarare che non voleva più saperne di essere un principe e un ufficiale. Non l’avesse mai detto. Il suo sfogo venne interpretato come una conferma delle voci che circolavano e gli procurò ulteriori guai. Infatti, un gruppo di ufficiali della marina inviò alla regina Margherita una petizione in favore del Duca e contro le sue dimissioni, il che provocò una reazione da parte del ministero della Marina e l’arresto degli ufficiali. In seguito gli ufficiali vennero rilasciati, ma furono ammoniti per aver scavalcato i canali ufficiali rivolgendosi direttamente alla regina e il Duca venne ritenuto responsabile dell’incidente provocato, si disse, dal suo comportamento irrazionale.




 Questo episodio lo scoraggiò ancor più dal partecipare a eventi pubblici. Si ritirò completamente e non fu più visto fino al giorno successivo al terremoto di Messina, che il 28 dicembre 1908 aveva sconvolto i territori di Reggio Calabria e di Messina provocando oltre centocinquantamila morti. Nel caos generale tutti avevano perso la testa; Luigi di Savoia fu uno dei primi ad accorrere con la sua nave per coordinare le operazioni di soccorso.

 

Anche Umberto Cagni prese parte ai soccorsi. C’era grande necessità di pali e travi per puntellare edifici crollanti e costruire ricoveri d’urgenza e si racconta che Cagni, avvistata una nave inglese che trasportava legname, abbordasse il capitano e pretendesse senza troppe cerimonie di disporre del carico. Al capitano che gli faceva notare che si trovava a bordo di una nave di Sua Maestà Britannica, pare che Cagni avesse risposto:

 

Prima il legname, poi tratterò con Sua Maestà Britannica.




Nel gennaio 1909 il duca degli Abruzzi si dedicò all’organizzazione della spedizione al K2 e si recò in Inghilterra in incognito, sotto il nome del suo aiutante di campo Negrotto. A Londra si immerse nella consultazione di mappe e di relazioni di viaggio presso la Royal Geographical Society e l’Alpine Club. Provvide anche all’acquisto di attrezzature che gli sarebbero servite per la spedizione. Sulla via del ritorno, si fermò a Parigi per acquistare altre attrezzature e materiale medico di pronto soccorso.

 

In marzo, un anno dopo l’inizio del coinvolgimento della stampa nel suo romanzo d’amore con miss Elkins, i giornali trascinavano ancora l’argomento, dando ora la colpa della rottura alla regina Margherita. Qualche giornalista tentò di raggiungere il Duca per intervistarlo, ma nessuno sapeva dire dove fosse. Il 26 marzo, senza annunci o fanfare, il Duca e i suoi compagni si erano imbarcati a Marsiglia, sulla nave passeggeri Oceana, diretti a Bombay.




Proseguirono in treno per Rawalpindi. Davanti a loro, lontano, a settentrione, li attendeva il Karakorum: una catena montagnosa lunga 400 chilometri che sorge a nord della terminazione occidentale del sistema himalayano e forma un confine naturale tra l’India e la Cina. Il Karakorum comprende quattro montagne che superano gli 8000 metri di altezza nonché una ventina di cime che oltrepassano i 7000. Le carte tracciate fino ad allora in modo approssimativo dai rari viaggiatori fornivano scarsi elementi di riconoscimento e la regione era ancora una delle meno conosciute del pianeta. Una delle ambizioni del Duca era quella di realizzare carte topografiche dettagliate e il più possibile complete della regione.




Prima che al Karakorum, il Duca aveva pensato al Sikkim, all’estremità orientale della catena himalayana, ma la spedizione di Freshfield del 1899-1902 aveva già riportato misurazioni e mappe soddisfacenti, oltre alle fotografie di Vittorio Sella. Anche la regione del Nanga Parbat, a circa 200 chilometri a ovest del K2, era stata visitata e descritta dopo il tragico tentativo di Mummery. Inoltre al Duca piaceva avere sempre una strategia di riserva, e vicino al Nanga Parbat non vi erano cime minori, più facilmente accessibili, a cui volgersi in caso di fallimento dell’obiettivo principale.

 

Il K2 era quindi la scelta più opportuna e interessante, tanto più che il Duca aveva in programma una serie di rilevamenti scientifici sulla reazione del fisico umano ad altitudini elevate, e poteva unire gli scopi scientifici a quelli sportivi in un’area dove abbondavano cime superiori in altezza al record raggiunto nel 1907 da due norvegesi, C.W. Rubeson e Monrad Aas che erano saliti sul Kabru, nel Sikkim, fino a 7315 metri, battendo il record precedente dell’inglese T.G. Longstaff, di 7134 metri, sulla cima del Trisul nel Garwhal. Ovviamente il Duca sperava di raggiungere la vetta del K2, e a quella meta aveva teso tutti i suoi sforzi.




Il primo europeo a visitare la regione e a darle il nome di Karakorum (o Karakoram) – che in turco significa ghiaia nera – era stato l’inglese W. Moorcraft, seguito da geografi di diverse nazionalità: G.T. Vigne nel 1835, il dottor Falconer nel 1841, il dottor Thompson nel 1847-, Rudolph Schlagintweit nel 1856 e il topografo colonnello Godwin Austen nel 1860-61. Ma fu solo con l’arrivo dei primi alpinisti che si venne a sapere delle enormi dimensioni di quei ghiacciai e di quei picchi. Per il duca degli Abruzzi questa spedizione era anche la più grande sfida logistica che avesse mai affrontato. Recarsi in quella regione immensa e remota voleva dire essere tagliati fuori dal mondo civilizzato per mesi e mesi ed era necessario predisporre un’organizzazione che assicurasse i rifornimenti per tutto quel tempo. Anche l’avvicinamento lungo il bacino glaciale del Baltoro era più arduo di quanto il Duca avesse sperimentato fino ad allora, con passi innevati da superare, fiumi turbinosi da attraversare e vaste zone desertiche da percorrere.




La preparazione di questa spedizione impegnò il Duca al massimo delle sue risorse. Gli fu preziosa l’esperienza di Vittorio Sella e si procurò tende simili a quelle da lui usate al Kangchenjunga, che potevano riparare dal freddo e anche dal calore, e disegnò egli stesso sacchi da bivacco composti di quattro strati, uno di lana di cammello, uno di piumino, uno di pelliccia di montone e uno, esterno, di tela impermeabile. Non trascurò alcun dettaglio che potesse aggiungere comfort o sicurezza all’equipaggiamento: rispetto alle precedenti, la sua era una spedizione di lusso.

 

Uno dei primi esploratori del Karakorum era stato, nel 1887, il colonnello Sir Francis Younghusband, allora ventiquattrenne ufficiale della Guardia dei Dragoni del re d’Inghilterra. In una missione esplorativa aveva attraversato il deserto del Gobi dalla Manciuria, per 1600 chilometri. Si era quindi diretto verso l’India, ma, trovando la carovaniera del Karakorum infestata da predoni in forze esorbitanti, decise di proseguire attraverso il passo Mustang (5486 metri). Non aveva esperienza alpinistica, né guide che conoscessero la zona. I suoi uomini non disponevano di attrezzatura adatta. Younghusband stesso non aveva scarponi e portava le stesse calzature usate dai suoi portatori. Impiegarono bastoni come piccozze per superare nevai e pendii ghiacciati; Younghusband temeva continuamente che i suoi uomini cadessero morti dalla fatica, ma l’impresa riuscì e incredibilmente tutti raggiunsero il passo e scesero indenni sul ghiacciaio del Baltoro schivando le valanghe che cadevano numerose dai fianchi delle alte montagne.




Due anni dopo, Younghusband ritornò con un’attrezzatura migliore ed esplorò l’avvicinamento al K2 da nord-est. Le esplorazioni di Younghusband non avevano scopi scientifici né tantomeno sportivi, ma di penetrazione politica.

 

La prima spedizione con scopi dichiaratamente alpinistici fu, nel 1892, quella dello scrittore e critico d’arte britannico Martin Conway, supportata dalla Royal Geographical Society. Conway esplorò tre ghiacciai attorno al K2 e ne disegnò le mappe. Scalò anche due montagne, il Crystal Peak (5913 metri) e il Pioneer Peak (6888 metri). Il duca degli Abruzzi studiò accuratamente le sue carte topografiche e gli furono utili anche le osservazioni dei coniugi americani Bullock-Workman, che avevano effettuato quattro esplorazioni in Himalaya, nel 1899, 1902, 1903 e 1908, salendo oltre i 7000 metri, e si erano spinti fino in Karakorum, scalando alcune cime minori.




La montagna che il Duca intendeva salire, chiamata dalle popolazioni locali Chogori o Grande Montagna, era il K2, la seconda del mondo, in ordine di altezza. Era stata così chiamata, provvisoriamente, dalla sigla attribuitale nel 1856 dal capitano T.G. Montgomerie che aveva effettuato rilevamenti topografici nella zona per conto del Trigonometric Survey of India. Era chiamata anche Godwin Austen, dal nome dell’esploratore che per primo l’aveva osservata. Montgomerie le aveva attribuito un’altezza di 8619 metri, molto vicina a quella di 8611 in seguito codificata.




Prima del Duca c’era stato un solo tentativo di scalata della montagna, nel 1902, da parte di una piccola spedizione guidata da Oscar Eckenstein, un arrampicatore britannico vivace sostenitore dell’alpinismo senza guide, che si era messo in contrasto con Conway, di vedute più conservatrici, ed era stato espulso dalla spedizione di Conway del 1892. Eckenstein, che ha il merito di avere introdotto nell’arrampicata tecniche innovative e di aver disegnato ramponi con caratteristiche moderne e la piccozza con il manico corto, non era ben visto nell’ambiente alpinistico dell’Alpine Club, e aveva fondato un gruppo secessionista, il Climber’s Club, frequentato da arrampicatori anticonformisti che condividevano le sue vedute. Uno dei suoi compagni di scalate era Aleister Crowley, che aveva iniziato ad arrampicare con Norman Collie – il compagno di Mummery sulle Alpi e al Nanga Parbat. 




In seguito, col suo comportamento e le sue dichiarazioni, Crowley si era inimicato gli alpinisti inglesi a un punto tale che vennero deliberatamente ignorate o sottaciute ufficialmente molte sue prime ascensioni, effettuate con Collie o con Eckenstein sulle pareti delle isole britanniche. Anche le sue spedizioni e ascensioni in giro per il mondo, comprese le esplorazioni di zone sconosciute della Mongolia e della Cina, vennero volutamente ignorate o sminuite.

 

Crowley divenne famoso più tardi per gli esperimenti condotti nel campo dell’occulto e della magia nera, che aveva iniziato nel tentativo di riprodurre le sensazioni mistiche provate nell’arrampicata in alta quota. Personaggio controverso, odiato dai più, venne soprannominato The Beast (La Bestia o La Belva) o ‘L’uomo più malvagio d’Inghilterra’ e allontanato da tutte le cerchie alpinistiche. A quel punto però la sua carriera alpinistica era già stata compromessa da una sfortunata spedizione al Kangchenjunga, nel 1905, in cui persero la vita un alpinista e tre portatori, in quanto pare che in quell’occasione Crowley si fosse rifiutato di prendere parte ai soccorsi.




Nel 1902 Crowley faceva parte della spedizione di Eckenstein al K2. La spedizione era cominciata male: all’arrivo in India, Eckenstein era stato imprigionato. Si disse che era stato Conway a usare la sua influenza per farlo arrestare allo scopo di impedirgli di superare i suoi record di altezza in Karakorum, ma non c’è prova di questa diceria. Eckenstein comunque venne rilasciato dopo qualche giorno e raggiunse i suoi compagni, che intanto avevano proseguito sotto la guida di Crowley. Era un gruppo male assortito di individualisti scarsamente concilianti. Sotto il comando di Crowley le tensioni si erano acuite, esasperate dalla convivenza forzata a causa del tempo quasi sempre brutto. Crowley aveva bastonato alcuni portatori per punirli e farsi rispettare e il risultato fu una serie di diserzioni, che lasciò la spedizione a corto di uomini e anche dei viveri e delle attrezzature che i fuggiaschi si erano portate via.




Nonostante questi problemi, la spedizione attraversò i ghiacciai e giunse ai piedi del K2. A quel punto Crowley voleva che si salisse lungo la cresta sud-est, conosciuta in seguito come Sperone Abruzzi, che riteneva si potesse superare in un solo giorno, mentre un altro membro della spedizione, il dottore svizzero Jules Jacot-Guillarmod, sosteneva che la montagna dovesse essere attaccata da nord-est. Vi fu una votazione e vinse Guillarmod, che partì con l’austriaco V. Wesseley lungo la cresta nord-est, in mezzo alla tormenta. Riuscirono a raggiungere 6553 metri di altezza prima di rinunciare e ridiscendere sotto la neve che continuava a cadere.




Come già Mummery e Collie al Nanga Parbat, Eckenstein e i suoi compagni erano stati tratti in inganno dalle dimensioni della montagna e dalle distanze enormemente superiori a quelle da loro valutate. A ciò si aggiunsero le defezioni dei portatori, malesseri e malattie che colpirono un po’ tutti, la mancanza di viveri e la discordia generale. Il tempo poi era sempre brutto – in sessantotto giorni ne ebbero solo quattro di vero bel tempo. Tutto considerato il risultato di Guillarmod e Wesseley fu straordinario, visto che la via da loro scelta era molto difficile. Venne ripercorsa solo nel 1976 da una spedizione polacca fino quasi sulla cima. La prima ascensione in vetta al K2 lungo la cresta nord-est fu compiuta nel 1978 da una spedizione americana che tuttavia traversò la parete est sotto la piramide sommitale, seguendo per l’ultimo tratto lo Sperone Abruzzi.


(Prosegue con i pionieri d'Abruzzo)










Nessun commento:

Posta un commento