CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

giovedì 24 febbraio 2022

PERCHE' L'UOMO E' SOGGETTO... (31)

 

























Precedenti capitoli: 


della Perenne Follia (29/30) 


Prosegue con l'argomento di cui l'uomo:


Soggetto a diventar imbecille (32) 







& Il piano della rinascita








Convinto che spetti solo al cittadino virtuoso rendere alla sua patria onori, cui ella possa dare il suo riconoscimento, da trent’anni lavoro per meritare di offrirvi un omaggio pubblico; e, supplendo questa felice occasione in parte a ciò che i miei sforzi non hanno potuto fare, ho creduto che mi sarebbe permesso di consultare qui piuttosto l’ardore che mi anima, che il diritto che dovrebbe autorizzarmi. 

 

Miei cari concittadini, anzi fratelli miei, poiché i vincoli del sangue al pari delle leggi ci uniscono quasi tutti, m’è dolce di non poter pensare a voi senza pensare nello stesso tempo a tutti i beni di cui godete, di cui nessuno di voi forse apprezza il valore meglio di me che li ho perduti. Più rifletto sulla vostra condizione politica e civile, e meno so immaginare che la natura delle cose umane possa comportarne una migliore.




Grande e bello spettacolo veder l’uomo uscir quasi dal nulla per mezzo dei suoi propri sforzi; disperdere, con le luci della ragione, le tenebre in cui la natura l’aveva avviluppato; innalzarsi al di sopra di se stesso; lanciarsi con lo spirito fino alle regioni celesti: percorrere a passi di gigante, al pari del sole, la vasta distesa dell’universo; e, ciò che è ancor più grande e difficile, rientrare in se stesso per studiarvi l’uomo e conoscerne la natura, i doveri e il fine. Tutte queste meraviglie si son rinnovate da poche generazioni in qua.

 

L’Europa era ricaduta nella barbarie delle prime età. I popoli di questa parte del mondo, oggi così illuminati, vivevano pochi secoli fa in uno stato peggiore dell’ignoranza. Un certo gergo scientifico, più spregevole ancora dell’ignoranza, aveva usurpato il nome della scienza, ed opponeva al suo ritorno un ostacolo quasi invincibile. Occorreva una rivoluzione per ricondurre gli uomini al senso comune; ed essa venne infine dalla parte da cui meno si sarebbe attesa. Lo stupido mussulmano, l’eterno flagello delle lettere, la fece rinascer fra noi. La caduta del trono di Costantino portò in Italia gli avanzi dell’antica Grecia. La Francia a sua volta s’arricchì di queste preziose spoglie. Ben presto le scienze seguirono le lettere; all’arte di scrivere si unì l’arte di pensare; graduazione che sembra strana e non è forse che troppo naturale: e si cominciò a sentire il principal vantaggio del commercio delle muse, quello di render gli uomini più socievoli, inspirando loro il desiderio di piacer gli uni agli altri per mezzo, di opere degne della vicendevole approvazione.




Lo spirito ha i suoi bisogni al pari del corpo. Questi sono il fondamento della società, quelli ne fanno l’ornamento. Mentre il governo e le leggi provvedono alla sicurezza e al benessere degli uomini consociati, le scienze, le lettere e le arti, meno dispotiche e forse più potenti, stendono ghirlande di fiori sulle catene di ferro ond’essi son carichi, soffocano in loro il sentimento di quella libertà originaria per la quale sembravan nati, fan loro amare la loro schiavitù e ne formano i così detti ‘popoli civili’. Il bisogno innalzò i troni: le scienze e le arti li hanno rafforzati.

 

Potenti della terra, amate gl’ingegni e proteggete chi li coltiva. Popoli civili, coltivateli: schiavi felici, voi dovete loro quel gusto delicato e fine di cui vi vantate; quella dolcezza di carattere e quella urbanità di costumi che rendono così avvincenti e facili fra voi i rapporti; in una parola, le apparenze di tutte le virtù, pur senza il possesso di alcuna.




Appunto per questa specie di civiltà, che è tanto più amabile quanto meno ostenti di mostrarsi, si distinsero altre volte Atene e Roma ai giorni così vantati della loro magnificenza e del loro splendore; appunto per essa, senza dubbio, il nostro secolo e la nostra nazione prevarranno su tutti i tempi e su tutti i popoli. Un tono filosofico senza pedanteria, modi naturali e tuttavia graziosi, ugualmente lontani dalla rustichezza tedesca e dalla mimica oltremontana: ecco i frutti del gusto acquisito con buoni studi e perfezionato nelle relazioni mondane.

 

Come sarebbe dolce viver fra noi, se il contegno esteriore fosse sempre l’immagine delle disposizioni del cuore, se la decenza fosse la virtù, se le nostre massime ci servissero di regola, se la vera filosofia fosse inseparabile dal titolo di filosofo!

 

Ma tanti pregi van troppo di rado insieme, e la virtù non procede affatto in così gran pompa. La ricchezza dell’adornamento può rivelare un uomo opulento e la sua eleganza un uomo di gusto; ma l’uomo sano e robusto si riconosce da altri segni: sotto l’abito rustico d’un agricoltore, non sotto la doratura d’un cortigiano si troverà la forza e il vigore del corpo. L’adornamento non è meno estraneo alla virtù, la quale è la forza e il vigore dell’anima. L’uomo dabbene è un atleta che si compiace a lottar nudo; egli disprezza tutti quei vili ornamenti che impaccerebbero l’uso delle sue forze, e che per la maggior parte non son stati inventati che per nascondere qualche deformità.




Prima che l’arte avesse ingentilite le nostre maniere e appreso alle nostre passioni a esprimersi in un linguaggio affettato, i nostri costumi eran rozzi, ma naturali; e, le differenze di condotta manifestavano a colpo d’occhio le differenze di carattere. La natura umana, in fondo, non era migliore; ma gli uomini trovavano la loro sicurezza nella facilità di penetrarsi vicendevolmente; e questo vantaggio, di cui noi non sentiamo più il pregio, risparmiava loro gran somma di vizi.

 

Oggi, che le ricerche più sottili e un gusto più fine hanno ridotto a principi l’arte di piacere, regna nei nostri costumi una vile e ingannevole uniformità, e tutti gli spiriti sembrano esser stati fusi in uno stesso stampo: senza posa la civiltà esige, la convenienza ordina; senza posa si seguono gli usi e mai il proprio genio. Non si osa più apparire ciò che si è; e, in questa costrizione continua, gli uomini, che formano quel gregge che si chiama società, posti nelle stesse circostanze, faran tutte le stesse cose, se motivi più potenti non ne li distolgano.

 

Non si saprà, quindi, mai bene con chi si abbia a fare: bisognerà dunque, per conoscere il proprio amico, attendere le grandi occasioni, cioè aspettare che non ne sia più tempo; perché proprio per tali occasioni sarebbe stato essenziale conoscerlo.

 

Qual corteo di vizi accompagnerà mai quest’incertezza!




Non più amicizie sincere, non più vera stima, non più fondata fiducia. I sospetti, le ombrosità, le paure, la freddezza, la circospezione, l’odio, il tradimento si nasconderanno continuamente sotto questo velo uniforme e perfido di cortesia, sotto questa urbanità tanto decantata, che dobbiamo alla luce di civiltà del nostro secolo.

 

Non si profanerà più con giuramenti il nome del Signore dell’universo; ma lo s’insulterà con bestemmie, senza che le nostre orecchie scrupolose ne siano offese.

 

Non si vanterà il proprio merito, ma si avvilirà quello altrui. 


Non si oltraggerà rozzamente il proprio nemico, ma lo si calunnierà destramente.

 

Gli odii nazionali si spegneranno, ma con essi anche l’amore di patria. All’ignoranza disprezzata si sostituirà un pericoloso pirronismo. Vi saranno eccessi banditi, vizi disonorati, ma altri saranno decorati del nome di virtù; bisognerà o averli o fingerli. Vanti chi vuole la sobrietà dei saggi di questo tempo; per me non ci vedo che un raffinamento di una intemperanza, altrettanto degna del mio elogio quanto la loro artificiosa semplicità.




Tale è la purezza che i nostri costumi hanno acquistata; così siamo diventati gente per bene. Spetta alle lettere, alle scienze e alle arti rivendicare ciò che loro appartiene in un’opera così salutare. Aggiungerò solo una riflessione, cioè che un abitante di qualche lontana contrada, che cercasse di formarsi un’idea dei costumi europei fondandosi sullo stato delle scienze fra noi, sulla perfezione delle nostre arti, sulla decenza dei nostri spettacoli, sulla cortesia delle nostre maniere, sull’affabilità dei nostri discorsi, sulle nostre continue dimostrazioni di benevolenza e su questa gara tumultuosa di uomini di ogni età e di ogni stato, che sembrano affaccendati dal levar dell’aurora fino al tramontar del sole a rendersi servigi reciprocamente; questo straniero, dico, intuirebbe dei nostri costumi esattamente il contrario di quello che sono.

 

Dove non vi sia effetto, non vi è alcuna causa da cercare; ma qui l’effetto è certo, la depravazione è reale; e le nostre anime si sono corrotte a misura che le nostre scienze e le nostre arti sono progredite verso la perfezione.

 

Si dirà che è una disgrazia particolare al nostro tempo?

 

No, signori: i mali cagionati dalla nostra vana curiosità sono vecchi come il mondo.




L’innalzamento e l’abbassamento giornaliero delle acque dell’Oceano non sono stati assoggettati al corso dell’astro che ci rischiara durante la notte più regolarmente che la sorte dei costumi e della probità al progresso delle scienze e delle arti. Si è visto la virtù fuggirsene a misura che la luce loro s’innalzava sul nostro orizzonte, e lo stesso fenomeno è stato osservato in tutti i tempi e in tutti i luoghi.

 

[…] Non senza sorpresa né senza scandalo si rileva il disaccordo che regna su questa importante materia fra i diversi autori che ne han trattato. Fra i più autorevoli scrittori a stento se ne trovan due che sian dello stesso avviso su questo punto. Senza parlare degli antichi filosofi, che sembrano essersi preso l’impegno di contradirsi fra loro sui principi più fondamentali, i giureconsulti romani sottopongono indifferentemente l’uomo e tutti gli altri animali alla stessa legge naturale, perché considerano sotto questo nome piuttosto la legge, che la natura impone a se stessa, che quella che prescrive; o piuttosto, in causa dell’accezione particolare, in cui questi giuristi intendono la parola legge, che sembrano aver preso in questo caso unicamente quale espressione dei rapporti generali, stabiliti dalla natura fra tutti gli esseri animati per la loro comune conservazione.




I moderni non riconoscendo, sotto il nome di legge, che una regola prescritta ad un essere morale, cioè intelligente, libero e considerato nei suoi rapporti con altri esseri, limitano di conseguenza al solo animale dotato di ragione, cioè all’uomo, la competenza della legge naturale; ma, definendo questa legge ognuno a modo suo, tutti la fondano su principi così metafisici, che anche fra noi ben pochi sono in grado di comprenderli, ben lungi dal poter trovarli da sé. Di modo che tutte le definizioni di questi sapienti, del resto in perpetua contradizione fra loro, s’accordan solo in questo punto, che è impossibile intender la legge di natura, e per conseguenza obbedirla, senz’essere un eminente ragionatore e un profondo metafisico: ciò che significa precisamente che gli uomini han dovuto usare, per la fondazione della società, poteri intellettuali, che si sviluppan solo a gran stento e in ben pochi uomini nel seno della società stessa.

 

Conoscendo così poco la natura, e accordandosi così male sul significato della parola legge, sarà ben difficile convenire in una buona definizione della legge naturale.




Così tutte quelle che si trovan nei libri, oltre il difetto di non esser mai uniformi, han quello pure di esser tratte da una quantità di conoscenze, che gli uomini non han punto naturalmente, e da vantaggi di cui non possono concepir l’idea, se non dopo essere usciti dallo stato di natura. Si cominciano a ricercare le regole di cui, per l’utilità comune, sarebbe opportuno che gli uomini convenissero fra loro; e poi si dà il nome di legge naturale alla collezione di tali regole, senz’altra prova che il bene che si trova poter resultare dalla loro pratica universale. Ecco certamente una maniera assai comoda di costruir definizioni e di spiegar la natura delle cose per via di convenienze presso che arbitrarie.

 

Ma, fin che non conosceremo l’uomo naturale, invano vorremo determinar la legge che egli ha ricevuto, o quella che meglio convenga alla sua costituzione. Tutto quel che possiamo vedere con la massima chiarezza, a proposito di questa legge, è che non solo, perché sia legge, occorre che la volontà di colui che essa obbliga possa sottoporvisi con conoscenza ma che bisogna ancora, perché sia naturale, che parli immediatamente con la voce della natura.




Lasciando dunque tutti i libri scientifici, che non ci apprendono che a veder gli uomini quali si sono fatti, e meditando sulle prime e più semplici operazioni dell’anima umana, credo di scorgervi due principi anteriori alla ragione: uno dei quali ci interessa ardentemente al nostro benessere e alla conservazione di noi stessi, e l’altro c’ispira una ripugnanza naturale a veder perire o soffrire ogni essere sensibile, e principalmente i nostri simili.

 

Dal concorso e dalla combinazione, che il nostro spirito sa fare di questi due principi, senza che sia necessario farvi entrare quello della socievolezza, mi sembrano scaturire tutte le regole del diritto naturale; regole che la ragione è in seguito costretta a ristabilire su altri fondamenti, quando, per i suoi sviluppi successivi, sia riuscita a soffocare la natura.

 

In questo modo non si è obbligati a fare dell’uomo un filosofo prima di farne un uomo; i suoi doveri verso gli altri non gli sono unicamente dettati dai tardivi insegnamenti della saggezza; e fin che non resisterà all’impulso interno della compassione, egli non farà mai del male a un altro uomo, e neanche ad alcun essere sensibile, eccettuato il caso legittimo in cui, essendo in giuoco la sua conservazione, sia obbligato a dare la preferenza a se stesso.


(Prosegue...)









 

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