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circa la Marcia
Il presidente eletto McKinley e un corteo di
familiari e dignitari seguirono i giudici della Corte Suprema in tonaca nera
lungo i corridoi di marmo che conducevano dalla galleria del Senato alla
facciata est del Campidoglio poco dopo l’una del pomeriggio del 4 marzo
1897. Mentre la fila cupa si avvicinava alle porte, un caloroso applauso
riempì il corridoio, trasformandosi in un ‘grande boato’ quando McKinley uscì
alla luce brillante del sole per prestare giuramento.
Davanti a lui si erano radunate sulla piazza da
trenta a quarantamila persone, alcune delle quali avevano aspettato per oltre
tre ore. La folla era così densa che sembrava ondeggiare avanti e indietro all’unisono
come ‘una grande distesa d’acqua’.
Alcuni dei più avventurosi trovarono punti di osservazione
intrufolandosi sulle scale del Campidoglio, mettendosi in fila sul tetto e
persino appollaiandosi sugli alberi spogli.
Camminando sui gradini di legno di un palco
temporaneo, McKinley si diresse verso il podio, dove una brezza tesa tirava le
bandierine. Suo fratello Abner correva in giro a dirigere gli operatori dei
cinetoscopi, l’ultima invenzione di Edison, nel tentativo di catturare l’inaugurazione
in immagini in movimento. Come sempre, McKinley era superbamente agghindato per
l’occasione, anche se questa volta i suoi abiti erano stati scelti tenendo a mente
il simbolismo: la sua redingote era fatta di lana pettinata nazionale, non
importata, come si diceva ai giornali. Un calzolaio di Canton che era stato
tamburino a Gettysburg gli aveva cucito le scarpe.
McKinley si sedette su una sedia di pelle rossa e si voltò per accertarsi che i membri del suo gruppo fossero comodi. La madre McKinley, agile e nervosa all’età di ottantasette anni, stringeva un mazzo di rose. Non impressionata dalla pompa e dalla cerimonia, rimase convinta che il suo prezioso figlio avrebbe fatto meglio a unirsi alla chiesa e diventare vescovo. Un passante dall’orecchio acuto sentì il fratello di McKinley, Abner, dire la mattina prima dell’inaugurazione:
‘Madre, questo impero che costruiremo
è meglio di un vescovato’.
Il presidente Cleveland, che si curava la gotta,
era seduto proprio alla destra di McKinley, con il piede avvolto in una morbida
scarpa.
Con Ida attentamente sorvegliata dagli amici sul
podio, McKinley ripeté il giuramento d’ufficio dopo il giudice capo Melville
Fuller, lo invitò ad appoggiare la mano su una Bibbia fatta di carta dell’Ohio,
rilegata in blu scuro con una ‘sottile linea dorata lungo il bordo esterno’.
Togliendosi il cilindro e la redingote, McKinley si
voltò quindi verso la folla in attesa. Fissandosi gli occhiali al naso, una
rara ammissione pubblica di un’imperfezione, infilò la mano nella tasca del
cappotto e recuperò il testo arrotolato del suo discorso. Apparentemente ‘leggermente
nervoso’, pensò un reporter del New York Times, fece cautamente riferimento ai
suoi appunti mentre iniziava a parlare.
Gradualmente McKinley sembrò acquisire sicurezza e alzò la voce in modo
che la maggior parte delle decine di migliaia di persone lì riunite potessero
sentire parlare. Solo a metà strada, tuttavia, menzionò la questione che
avrebbe dominato la sua presidenza. Il paese avrebbe ‘mirato a perseguire una
politica estera ferma e dignitosa, che sarà giusta, imparziale, sempre attenta
al nostro onore nazionale’.
‘Ma’,
…aggiunse,
‘Non vogliamo guerre di conquista;
dobbiamo evitare la tentazione dell’aggressione territoriale. Non si dovrebbe
mai entrare in guerra finché ogni agenzia di pace non abbia fallito; la pace è
preferibile alla guerra in quasi ogni evenienza’.
Era audace per un presidente americano parlare di
una ‘politica estera dignitosa’ con la faccia seria. La tradizione di
isolazionismo che era iniziata con George Washington e il suo avvertimento
contro gli intrighi stranieri manteneva una forte attrazione sulla psiche americana.
Si arrivò a definire una strategia internazionale coerente con la Dottrina Monroe del
1823, che stabiliva che qualsiasi mossa degli europei per colonizzare le
Americhe o interferire con i paesi confinanti sarebbe stata trattata come un
atto di aggressione agli Stati Uniti.
Nel 1845, il giornalista John O’Sullivan diede un nome alla spinta incessante
dell’America verso l’esterno: ‘Destino Manifesto’. L’idea che l’Onnipotente
avesse ordinato all’America grandi cause motivò i leader delle carovane dirette
a ovest. Dio, così procedeva il pensiero popolare, aveva scelto gli Stati Uniti
per guidare il mondo fuori dall’oppressione delle monarchie europee e dall’arretratezza
dei paesi ancora in via di sviluppo verso una nuova èra illuminata basata su
valori come la libertà, una solida economia di mercato e gli insegnamenti della
chiesa protestante.
In modo simmetrico, una dimostrazione di grandezza americana ne rafforzò un’altra. Charles Darwin ratificò tale pensiero nel 1871 nel suo libro L’Origine della specie.
‘A quanto pare c’è molta verità nella
convinzione che il meraviglioso progresso degli Stati Uniti, così come il
carattere del popolo, siano il risultato della selezione naturale; perché gli
uomini più energici, irrequieti e coraggiosi provenienti da tutte le parti d’Europa
sono emigrati durante gli ultimi dieci o dodici generazioni in questo grande
paese, e qui hanno avuto il loro maggior successo’.
Ciò di cui avevano bisogno per realizzare le loro
grandi ambizioni era un documento credibile e dettagliato
Il pastore congregazionalista Josiah Strong
catturò l’atmosfera sociale in cui fondata la fede del futuro impero nel suo
bestseller del 1885, Our Country:
Its Possible Future and Its Present Crisis.
Strong aveva viaggiato molto nell’Ovest americano come membro della Home Missionary Society e aveva sviluppato una teoria secondo cui dietro le grandi nazioni del
mondo c’era una forza geografica. Ogni nuovo impero, notò, sembrava spostarsi
sempre più a ovest.
Il culmine di quella marcia sarebbe avvenuta negli Stati Uniti. Le nazioni anglosassoni, sosteneva, possedevano un genio per la colonizzazione e la loro energia nativa e la fede in un Dio cristiano assicuravano il loro predominio. Come teoria scientifica, non era affatto a tenuta stagna. Strong, ad esempio, sottolineò il fatto che le dimensioni relativamente grandi degli americani, e non solo in altezza, indicavano che possedevano la ‘base fisica’ necessaria per raggiungere una civiltà superiore.
‘C’è spazio per un ragionevole dubbio
che questa razza, a meno che non sia devitalizzata dall’alcool e dal tabacco,
sia destinata a spodestare molte razze più deboli, ad assimilarne altre e a
plasmare le restanti, fino a quando, in un senso molto vero e importante, avrà
anglosassonizzato l’umanità?’
Per quanto abili fossero questi uomini nel far
correre i cuori dei patrioti americani, operavano in gran parte nel regno della
retorica e della teoria.
‘La teoria’ sarebbe arrivata cinque anni dopo da una fonte improbabile: l’ufficiale
di marina Alfred Thayer Mahan.
...Mahan, per gran parte della sua carriera, non era stato certo l’orgoglio della marina americana. Sebbene fosse arrivato a comandare la sua nave, la sua abilità marinara era, nella migliore delle ipotesi, traballante. In effetti, preferiva di gran lunga la tranquillità di un buon libro ai doveri di comando di una nave da combattimento e si assicurava sempre di portare con sé molti volumi nei lunghi viaggi.
Fedele alla sua natura, durante una missione in Perù, trovò il tempo di lasciare la nave e visitare una biblioteca locale. Lì prese una copia della Storia di Roma di Theodor Mommsen e, sfogliandone le pagine, fu colpito da una rivelazione. Il potere marittimo, non gli eserciti terrestri, era stato il fattore decisivo nell’ascesa di grandi imperi. L’argomento, concluse, sarebbe stato un ottimo motivo per una serie di lezioni che avrebbe tenuto al Naval War College*.
[& IL CAPITOLO... INTERO, ovvero, NELLA SUA REALE INTEREZZA]
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