CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
30 MAGGIO 1924

venerdì 3 febbraio 2017

CORRI UOMO CORRI! (7)




















Precedenti capitoli:

Salvare noi stessi (6)

Prosegue in:

Corri uomo corri! (8)  &

Polizza 'Walker' (9)














Si ficcò in bocca tre fette di prosciutto cotto e raggiunse l’estremità del corridoio per imboccare le scale, passando davanti alle caldaie. A metà strada c’era un pianerottolo, e la rampa di scale girava a destra. Fu allora - stava guardando verso l’alto che vide il detective per la prima volta…
Walker aveva appena chiuso la porta della cella frigorifero, dopo aver sparato a Luke in mezzo agli occhi, e stava giusto scendendo nel seminterrato per sistemare anche il terzo inserviente. Ma l’assassinio di Luke l’aveva sconvolto a tal punto da costringerlo a fermarsi un istante per recuperare un po’ di fiato e ricaricare la pistola. Se ne stava fermo in cima alle scale, il fianco sinistro rivolto verso Jimmy e il revolver con silenziatore che gli ciondolava dalla mano destra.
‘Come spegnere la luce’, borbottava a se stesso…
Avvertì la presenza di Jimmy e fece un salto per vedere chi fosse. Il primo pensiero che passò per la testa a Jimmy, alla vista del volto teso, scheletrico e paonazzo di Walker, fu di trovarsi davanti al Fantasma dell’Opera.




Walker sembrava dotato di poteri sovrumani, e alto tre metri. Il soprabito aperto gli pendeva di dosso come un cencioso mantello ottocentesco, e gli occhi di rosso, un vero sguardo da pazzo erano semicoperti da un ciuffo di capelli biondi.
‘Cazzo se è sbronzo questo figlio di puttana’, pensò Jimmy…
Fat Sam non doveva averlo calmato neanche un po’. Sentì una fitta al basso ventre, ma non si fermò. Non voleva certo far credere a quel figlio di troia che aveva paura di lui. In fin dei conti, pensò, sua madre è solo una troia bionda. 
Walker scoprì i denti come un cane mordace e sollevò la pistola ad altezza di tiro, senza dire una parola.
D’istinto Jimmy si abbassò un istante prima che partisse il colpo. Il proiettile gli passò di striscio sulla parte sinistra del torace. Jimmy si sentì esplodere il cranio dalla rabbia, come se tutte le sue emozioni, tutte le sue sensazioni avessero raggiunto la massima pressione per poi scoppiare. Per un breve momento si sentì dotato di una sensibilità soprannaturale, quasi come in punto di morte. Il viso di Walker gli parve cento volte più grande; ne vide il sudore sgorgare da pori larghi come il fondo di un bicchiere di whisky; scorse una barbetta biondiccia spuntare da una mascella bianca e squadrata, peli simili a festuche in un campo ammantato di neve; vide il netto contorno delle otturazioni nell’irregolare dentatura giallastra del detective. Un’istantanea che bruciò, nel suo ricordo, all’acida fiamma della collera. Durò solo un’attimo, senza che il corpo di Jimmy interrompesse la sua secca traiettoria istintiva.
‘Saltagli addosso, a quel figlio di puttana!’. 




Lo incalzava una parte del suo cervello. ‘Strappagli la pistola e fanne polpette, di quella testa di cazzo!’. Ma l’altra parte urlava una cosa sola.

CORRI, UOMO, CORRI!

I muscoli frustati dal panico, gli si tendevano in un’incredibile frenesia, come uno stallone selvaggio, in una morsa di terrore cieco. Prima che Walker potesse sparare di nuovo, Jimmy si era già voltato e, in un grottesco passo di danza, aveva iniziato a ridiscendere le scale. Il secondo colpo gli scalfì la parte posteriore del collo e gli penetrò nella rabbia come un ferro rovente, facendogli saltare - furibondo com'era - il relè che teneva sotto controllo, la paura. Era in una posizione assai scomoda, la gamba sinistra accavallata sulla destra, il braccio sinistro alzato a proteggersi, il destro che brancolava in avanti e il tronco piegato in due verso il basso, come un’acrobata all’inizio di un salto mortale. Ma i suoi muscoli incordati furono capaci di muoversi con la velocità di un serpente che attacca. Le gambe si tennero con estrema violenza per spingerlo dalla parte opposta del pianerottolo. Sbatté nel muro col fianco destro, ammaccandoselo tutto fin dalla spalla.  



‘FIGLIO DI PUTTANA!’.
Imprecò annaspando a denti stretti…
Si staccò dal muro girando su se stesso e fece allo stesso tempo forza su gamba, braccio e fianco destro, ruotando come un derviscio. Fu così rapido da riuscire a voltare l’angolo e portarsi fuori tiro prima che il terzo colpo di Walker s’infilasse nell’intonaco della parete nel punto esatto in cui, un’istante prima, si proiettava l’ombra della sua testa. Con una capriola arrivò in fondo alle scale. Ormai era lanciato, e non c’era più modo di fermarsi, come quando si inizia un esercizio in palestra; quindi si rassegnò a sbattere sul terzo gradino con le palme delle mani e ruotare in aria, atterrando accovacciato sul cemento del corridoio senza aver ancora esaurito la spinta.




Walker partì alla carica giù per le scale brancolando alla semicieca. Mancò l’ultimo gradino prima del pianerottolo e andò a finire contro il muro, battendo dapprima col fianco per poi ritrovarsi a quattro zampe sul pavimento.
‘ASPETTA UN ATTIMO, NEGRO DI MERDA!’. Urlò d’istinto…
Jimmy lo udì e si trasse con forza immane dalla sua posizione accucciata. La mente di entrambi era ottenebrata dal loro massimo e momentaneo desiderio: per l’uno, uccidere, e per l’altro sopravvivere…
Fu così che il lato grottesco della faccenda andò perduto, ovvero Walker che ordinava a Jimmy di fermarsi e farsi ammazzare.
Voltato l’angolo, Jimmy s’infilò nella stanza dell’immondizia, con la vaga idea di filarsela dal montacarichi. Con le suole di gomma scivolò sul cemento, su una macchia d’unto, e finì a sbattere in corsa contro lo stipite della porta, ammaccandosi la gamba sinistra dalla caviglia al fianco. Riuscì a portarsi fuori tiro prima che Walker potesse prendere di nuovo la mira, ma lo sentì precipitarsi giù per le scale in una scarica di passi. Poi si rese conto che quando il montacarichi non era in funzione era impossibile sollevarne le massicce ante. Nell’andarsene, prima, aveva spento tutte le luci, e adesso pensò di prendere lo sbirro in trappola col favore delle tenebre. Ma dal corridoio, attraverso la porta aperta, filtrava fin troppo chiarore, e per chiuderla sarebbe stato costretto a un salto all’indietro. 




Si fermò, sbandando, e ruotò su se stesso, ma era ormai andato troppo oltre. Walker stava già varcando la soglia, di corsa ma attento, con il revolver proteso in avanti e pronto ad aprire il fuoco. L’ultima manovra aveva fatto perdere a Jimmy qualche secondo prezioso, lasciandolo in brache di tela. Non sapeva dove nascondersi, non aveva tempo per rimpiattarsi, né qualcosa da tirargli addosso. Il secchio metallico da dieci litri che conteneva gli stracci la spugna e il detergente che Jimmy usava per lucidare l’acciaio era sul pavimento alla sua destra. Con riflesso puramente istintivo, il gesto cieco e irrazionale di chi cerca di salvare la pelle, gli mollò un calcio neanche fosse un pallone da spedire in porta, lasciandolo dritto contro la pistola spianata, come l’edicolante giù all’angolo della sesta, informatore del distretto, dentro il suo scatolone di cartone.
Walker sparò con un attimo di ritardo, e la pallottola trapassò il secchio metallico che già volava a mezz’aria, per poi colpire Jimmy al torace, appena sopra il cuore. Il secchio ne aveva rallentato la corsa a tal punto da impedire di uccidere, lasciandogli però la capacità d’impatto di un violentissimo cazzotto. Jimmy non aveva ancora recuperato l'equilibrio, dopo la pedata al secchio, e se ne volò a gambe all’aria. Secchio che, tuttavia prese Walker in pieno petto e lo fece cadere a sua volta.




Jimmy si mise in tutta fretta a quattro zampe, e non si era ancora rimesso in piedi che già correva. Sentiva il sangue sgorgargli dal petto. Ignorava la gravità della ferita, ma sapeva di doversi sbrigare. Si era accorto che il secchio aveva buttato giù Walker, ma aveva capito che era il caso di tagliare la corda prima che lo sbirro riuscisse a tirarsi su e riprendere la mira. Con l’angolo dell’occhio scorse la pila di bidoni (fece anche in tempo a buttarci una vecchia fattura... falsa della... premiata Compagnia) della spazzatura, appena lavati. Ruotando su se stesso, senza smettere di correre, ne fece saltar via due e se li scagliò alle spalle in direzione di Walker, che stava annaspando per tornare sulle gambe. I bidoni lo fecero volare di nuovo per aria e Jimmy, ruotando ancora una volta su se stesso, gliene lanciò addosso altri due. Il frastuono dei bidoni sul cemento fu tale da destare i morti, e Jimmy non riusciva a capire se Walker avesse ripreso a sparare o no. La semioscurità di quella stanza già era terrificante di suo, anche senza quel rumore che gli impediva di udire gli spari. Ma Walker non era ancora riuscito a sparare di nuovo. Stava cercando, a forza di braccia e gomiti di respingere i bidoni, il volto livido di rabbia.




‘Levatevi dalle palle, perdio!’ gridava, blaterando imprecazioni incomprensibili, come se quei bidoni godessero vita propria e la capacità di udire le sue parole… Poi vide Jimmy che sfrecciava verso un’altra porta, in fondo alla stanza; ma si prospettava un tiro difficile, quello, tra la penombra e i bidoni che ancora rimbalzavano in giro. Nella pistola era rimasto un solo colpo, e non aveva il tempo di ricaricare. Inciampò nel tentativo di rincorrere il negro, batté gli stinchi sui bidoni saltellanti e attaccò a bestemmiare come un ossesso.
Jimmy piombò con una spallata sulla porticina di legno, senza neanche fermarsi a vedere se fosse chiusa a chiave o no. La serratura arrugginita saltò via di schianto, e la fragile porta andò a sbattere contro il muro di uno stretto e scurissimo passaggio che correva sotto l’edificio attiguo, sulla Trentasettesima. Sapeva che quel passaggio portava una serie di altri corridoi che collegavano i seminterrati di tutti gli edifici dell’isolato. Da qualche parte, lo incalzavano i suoi pensieri disperati, c’era di sicuro un portinaio ancora sveglio. Negli altri palazzi di pietra ci doveva pur essere qualche essere vivente, qualche donna di servizio, qualche portiere di notte, qualche guardiano notturno; degli occhi insomma, cui far vedere com’era ridotto e raccontare la storia. Ma le uniche persone in giro sembravano essere lui e quel poliziotto armato e impazzito, in un mondo di orrore sempre più nero. Si mise a correre alla cieca nel buio, confidando nella buona sorte, singhiozzando senza neanche rendersene conto, col sangue che gli scorreva giù per il petto e si radunava in una massa tiepida e appiccicaticcia appena sopra la cintura.  




Walker gli corse dietro, rimbalzando da una parete all’altra senza mai smettere di imprecare.  Dovette resistere all’irrefrenabile tentazione di estrarre la pistola d’ordinanza e annaffiare il buio con una doccia di pallottole calibro 38.
 Jimmy sbatté a tutta forza contro un muro, picchiando sui mattoni con la fronte. Andò giù come un sasso, rimbecillito ma ancora cosciente.
Walker lo udì lamentarsi e si fermò, cercando di aguzzare la vista e cogliere lo sguardo del negro. Aveva sempre sentito dire che gli occhi di un negro brillano nell’oscurità come quelli di un animale, e la sua pistola era pronta ad aprire il fuoco al minimo scintillio. Lo sentiva muoversi, quel negro, ma non riusciva a vedere un accidente…
Jimmy si alzò lentamente in piedi. Gli pareva di essere stato preso a frustate con una catena di ferro massiccio, e fu solo la volontà di sopravvivenza che lo spinse a correre di nuovo. E di colpo si ritrovò a volare a mezz’aria. Il passaggio piegava secco a destra, e si abbassava di tre gradini. Atterrò sulle ginocchia e sulle palme delle mani, che il ruvido cemento s’affrettò subito a spellare. Il dolore - acuto, improvviso - ebbe l’effetto di uno stimolante: in men che non si dica, Jimmy saltò in piedi e riprese a correre.




Ma la pausa nel buio aveva fatto riacquistare il raziocinio a Walker. Il detective si frugò nella tasca interna della giacca e ne estrasse una torcia sottile come una penna stilografica. Il minuscolo raggio gli consentì di scorgere la svolta del corridoio e i gradini.
Nel frattempo, Jimmy aveva girato un altro angolo ed era scomparso alla vista.
Per un istante Walker valutò se ricaricare la pistola. Mentre cercava la torcia, la mano gli era finita sui proiettili di scorta che teneva in tasca, ed era sicuro che ce ne fossero di ancora buoni. Ma non poteva rischiare di perdere tempo, tra quel labirinto di corridoi e il negro che già aveva preso un certo vantaggio.
Jimmy si era messo a correre trascinando la mano sinistra lungo la parete, e con la destra a precederlo. Al buio, svoltò due angoli e piombò di colpo in un tozzo corridoio illuminato. Non udiva più i passi del suo inseguitore. Sentì montargli la speranza. Sulla destra vide una porta chiusa. La aprì, guardando all’interno. C’era un letto disfatto, una toletta bruciata dalle cicche e vestiti luridi penzolanti dalle sedie, oltre a una bottiglia di whisky vuota, con tanto di bicchiere, su un tavolo coperto da una cerata. Ma non c’era anima viva. Era di certo la stanza dell’aiutante di chissà quale portinaio. Nell’uscire, richiudendo la porta, udì dei passi alle sue spalle.
‘Aiuto!’ urlò, trascinandosi in avanti. ‘Aiuto!’ qualcuno mi aiuti!'
Nessuna risposta!




Svoltò all’estremità del passaggio proprio mentre Walker lo imboccava all’estremità opposta, e si ritrovò nell’ennesimo corridoio. Uno sguardo sulla sinistra gli consentì di scorgere una lunga distesa di parete intonacata e ben illuminata, e un pavimento pulito. Girò a destra e si trovò di fronte a una massiccia porta di quercia. Li udiva benissimo, ora, quei passi. Non c’era tempo di girare di nuovo l’angolo e prendere quell’assassino per la collottola. Se la porta non si apriva, poteva considerarsi un uomo morto.
‘Ehi!’, sentì una voce.
‘Ehi!’.
Non si voltò.
Quella voce significava morte...
Coraggio, fatti ammazzare, gli gridava quel figlio di troia. Si sentiva lo stomaco grande come un pisello, e la nausea che gli era salita alla bocca sapeva di vomito rancido. Fece per afferrare la maniglia. Ecco come finisce la carriera del figlio della signora Johnson, pensò con una dose di quella amara autoironia che ai bianchi piace chiamare ‘umorismo da negri’. Provò la maniglia. La sentì girare. Spinse la porta. Si aprì.




‘Ehi! Ehi, laggiù!’, udì di nuovo la voce.
‘Ehi lo vai a dire a tua nonna’, pensò.
La luce che filtrava dal corridoio, attraverso la porta aperta, gli fece vedere quella che sembrava una batteria di macchine per cucire elettriche, che giravano con lento movimento circolare in uno stanzone quadrato. Jimmy si sentiva così stordito che gli parve di galleggiare sulla loro scia. Lo sforzo fatto per restare in piedi gli aveva fatto tirare in dentro lo stomaco, e il sangue aveva ormai preso a calargli, caldo e appiccicoso, giù per la gamba. Forse si era anche pisciato addosso. Inebetito, cercò la serratura senza neanche rendersi conto di cosa stesse facendo. Era una Yale; quando abbassò la leva che rilasciava il paletto, la serratura scattò all’istante a chiudere la porta.
‘Ehi! Ma chi cazzo è che urla?’. ‘Non la udì, Jimmy, questa voce. E neanche il rumore strascicato dei passi che scendevano lungo il corridoio e si accostavano alla porta. Non udì l’uomo provare la maniglia e scrollare la porta e attaccare a sbraitare con la voce irritata, mezza ubriaca. ‘Apri la porta e vieni fuori. Non me ne frega un cazzo di chi sei. Ho un lavoro da finire, io’.

…Aveva già perso i sensi prima di toccare il pavimento….





















mercoledì 1 febbraio 2017

A CACCIA DELLA BESTIA FEROCE




















La caccia......
















continua.....














Il 5 luglio 1792 Giuseppe Antonio Gaudenzio, un fanciullo di dieci anni del
luogo di Cusago, conduce al pascolo una bestia e dopo essersi internato
nei vicini boschi non ricompare più.
Passati alcuni giorni si ritrovano solo il suo cappello e la giubbina insangui-
nata; poco dopo, i calzoni pure intrisi di sangue e le interiora.
Il fatto non può essere investigato a fondo perché nessuno ne fu testimone;
solo si teme che il ragazzo possa essere stato divorato dai lupi, che nei bos-
chi di Cusago abbondano.
Dopo qualche giorno, il Pretore del vicino borgo di Abbiategrasso denuncia
alla Conferenza Governativa che nel distretto della sua giurisdizione si trova
una bestia feroce che ha divorato una ragazza.




L'autorità centrale si premura allora di fare sul momento ogni tentativo per
liberare lo Stato dal pericolo di altri uguali infortunii: con decreto del succes-
sivo 14 luglio, destinato ai Delegati Provinciali, dispone un premio di 50 zec-
chini a chi ucciderà la bestia e una caccia generale nei luoghi in cui si crede
che si sia ritirata. A tal fine i Delegati dovranno corrispondere fra di loro e
prendere gli opportuni concerti con i Pretori, gli Ispettori degli uomini d'armi
e gli Intendenti di Finanza.
Faranno poi esporre il seguente avviso nei consueti luoghi della città, diraman-
dolo al tempo stesso nelle comunità di propria competenza:





In questo momento giunge alla notizia della Conferenza Governativa, che la
campagna di questo Ducato trovasi infestata da una feroce bestia di colore
cenericcio grigia quasi al nero, dalla grandezza di un grosso cane, e dalla qua-
le furono già sbranati due fanciulli. Premurosa la medesima Conferenza di da-
re tutti li più solleciti provvedimenti, che servir possano a liberare la Provincia
dalla detta infestazione, ha disposto che debba essere subito combinata una
generale caccia con tutti gli uomini d'armi delle comunità, col satellizio di tut-
te le curie e colle guardie di Finanza. Al tempo stesso rende inoltre noto, che
da questa Tesoreria Camerale verrà pagato il premio di 50 zecchini effettivi
a chiunque, o nell'atto della suddetta generale caccia, o in altra occasione
avrà uccisa la predetta feroce bestia: somma, che verrà subito sborsata dal
Regio Cassiere Don Giuseppe Porta, in vista del certificato, che rilascerà il
Regio Delegato della Provincia, nel di cui territorio la detta bestia sarà stata
ammazzata.




La conferenza sollecita quindi il Magistrato Politico Camerale a suggerire
eventuali altri provvedimenti, ma il Magistrato ritiene efficaci quelli presi e
ordina l'archiviazione del carteggio.
Il 13 luglio l'ispettore Generale delle Cacce invia il figlio, scortato da guar-
diacaccia, compari e altri uomini armati, a perlustrare le località dove si
pretende che si aggiri la bestia.
Per dieci giorni continui si battono con la dovuta vigilanza campagne e bos-
chi, ma senza che si incontri alcuna fiera: si ode soltanto l'urlo dei lupi inter-
nati nel bosco, dove il giovane col suo seguito passa qualche notte per ten-
tare di sorprenderli.
Secondo le istruzioni ricevute dal padre, non omette di raccogliere detta-
gliate informazioni, chiedendo in ogni villaggio, a tutte le persone in cui si
imbatte, se hanno testimonianze oculari o notizie certe della temuta bestia.





Ma non gli riesce di saper nulle di preciso, anzi tocca con mano che l'as-
serita esistenza del mostro è un mero sogno della fantasia riscaldata dalle
femmine, troppo facili a credere a chicchessia: tanto che l'ispettore delle
Cacce Borri, dopo i racconti del figlio, si conferma ancor più nel convin-
cimento che la campagna è infestata da soli lupi o lupe; e che molti avve-
nimenti sono sognati, come provano i seguenti casi.
Una popolana detta Bellabocca, in quel di Corbetta, stava lavorando in
una vigna; poco lontano v'era il marito che segava l'erba. Ad un tratto s'-
udì la moglie gridare: la Bestia, la Bestia!
Accorse il marito con l'arnese che stava usando, detto tra il popolo il
'seghezz', e accorsero anche altri contadini armati di forche e bastoni,
ma inutilmente; poiché nessuno di essi poté vedere la Bestia.




Il figlio dell'Ispettore, che in quel frangente si trovava là, si diede briga
di interrogare ben bene la donnicciola sull'accaduto per inseguir la bes-
tia se il fatto era reale.
La Bellabocca, che poc'anzi aveva sofferto di salasso prescritto dal
chirurgo, rispose:
'La bestia m'ha afferrata con i denti la gonna; lo vista con una arnese
in mano che sembrava la seghazz del mio povero marito; indi da ques-
ta vigna è saltata sulla strada che vi corre sotto e da qui si è allontanata
nella vicina campagna'.
Allora il giovane esaminò coi guardiacaccia la gonna di quella donna
in stato delirante, ma non riscontrò alcun segno della lamentata aggres-
sione: perlustrò con scrupolo anche la strada polverosa sulla quale
sarebbe saltata la bestia con il suo arnese, ma non vi seppe scorgere
alcuna impronta stampata dalle sue zampe.
Solo più tardi ebbe modo di scorgere il marito della donna  che torna-
va dalla taverna in compagnia di alcuni amici, in branco e un po' alticci,
con vicino a loro, a mo' di preda, una mulatta insolita per quelli luoghi,
nera...nera e dalla natura felina......

(la caccia alla Bestia .....prosegue.....)

(L'uomo e la Bestia antropofaga)














sabato 28 gennaio 2017

SALVARE NOI STESSI (5)





































Precedenti capitoli:

Nell'infinito tornaconto...(4)  ...Da ciò che conta veramente... (3)

Prosegue in:

Salvare noi stessi (6)













In un testo tra i più recenti del Nuovo Testamento, la prima Epistola di Pietro, scrivendo quasi certamente da una comunità dell’Asia Minore ad altre comunità dell’Asia Minore in una situazione di tensione, se non di vera e propria persecuzione, precisa quelli che a suo avviso dovrebbero essere gli obblighi dei credenti (nel nostro caso cristiani e non) verso gli atei, coloro cioè, propensi al più bieco materialismo privo di principi, affermando:

‘Carissimi, io vi esorto come stranieri ad astenervi dai desideri della carne che fanno guerra all’anima’

Infatti, prosegue l’autore, la condotta del credente tra gli atei deve essere irreprensibile: essi non devono prestare il fianco alle calunnie dei denigratori non meno di quelle dei calunniatori.




Si tratta, per quanto ci consta, del più antico documento di una concezione destinata a grande fortuna: la concezione della Fede come comunità mondiale peregrinante su questa piccola Terra. Per meglio comprendere questa novità, occorre tener presente che, il nostro breve intervento, si compone di tre distinte concezioni profondamente diverse ma unite nell’intento di fede verso la finalità di una riflessione certamente più profonda di quanto possa apparire ad una approssimata lettura. Due concezioni una antropologica-individualistica di matrice greco-ellenistica e la concezione teologico-collettiva propria della tradizione ebraica.
Iniziamo dalla seconda di matrice biblica, a partire dal testo fondamentale di Gn 12, 1, là dove il Signore ingiunge ad Abramo: Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che ti indicherò’, individua nello stesso Israele un popolo pellegrino, la cui condizione permanente di Straniero non terminerà nemmeno con l’arrivo nella terra promessa, dal momento che anche questa terra appartiene a Dio e, pertanto, Israele permane in essa ospite e forestiero (Lv 25, 23)




Ne consegue che, mentre la metafora dello Straniero indica, nella tradizione filosofica ellenistica, una condizione di estraniazione dell’Anima, il vero sé dell’uomo, rispetto alle sue concrete condizioni esistenziali, nella Bibbia, di contro, essa serve ad indicare una relazione tra Dio e l’uomo, inteso nella sua totalità (non vi è privilegia mento di una componente quale l’Anima) e come popolo, sullo sfondo di una concezione positiva del mondo, creatura di Dio.
Queste due concezioni si erano incontrate, nell’ambito del giudaismo ellenistico, nel pensiero di Filone Alessandrino, che, alla luce della sua particolare filosofia mosaica, le aveva rilette e fuse, dando luogo a una reinterpretazione destinata ad influenzare anche la tradizione cristiana. Il suo particolare platonismo porta Filone ad estendere la situazione di estraneità al mondo dal popolo eletto all’uomo in quanti tale.  
Adamo, in seguito al peccato, fu cacciato dal paradiso ed esiliato. Di conseguenza, ogni figlio di Adamo si trova a partecipare di questa condizione di esilio. La sua vera patria, infatti, è il cielo; ognuno di noi entra nel cosmo come una città straniera, in cui è destinato a soggiornare temporaneamente. Emerge così, un secondo tema, legato ma distinto dal primo: la vera patria di questo Straniero è non tanto il cielo, ma la città celeste, o meglio, da buon abitante di Alessandria, la megalopoli di cui a rigore l’unico cittadino è Dio.  




Se è vero che Filone universalizza il tema del popolo eletto come popolo migrante, pellegrino, è altresì vero che sullo sfondo delle sue preoccupazioni etiche egli lo individualizza. Per un verso, riprendendo spunti platonici, egli applica la metafora dello Straniero al dato etico- evolutivo; per un altro, però, ciò che gli preme mettere in luce è che la condizione di Straniero deve essere consapevolmente vissuta dal saggio. Il comportamento biblico di questo comportamento etico-religioso, cui deve aspirare il saggio se vuole ritornare nella sua vera patria, gli è fornito da Giacobbe.
Un ultimo spunto merita di essere sottolineato: proprio perché la vera patria dell’amico di Dio è la città intelligibile, egli deve volontariamente mantenersi in questa condizione di estraneità al corpo e al mondo. Se la sua residenza è celeste, lo sarà anche la propria familiarità con Dio. Di conseguenza, egli dovrà conservare la sua situazione di Straniero nel soggiorno temporaneo nei confronti del corpo e del mondo, con la conseguente situazione di estraneità. Il vero amico di Dio – questo in fondo il senso ultimo della spiritualità di Filone, precorritrice di certa ascesi cristiana – è colui che, estraniandosi dal mondo e rinunciando ai suoi beni, potrà così rifugiarsi presso Dio....


















martedì 24 gennaio 2017

CIO' CHE NON MUORE RISORGE (gennaio...) (1)








































Prosegue in:
















Ciò che non muore..... risorge (2)  &












Ciò che conta! (3)














I Frammenti qui raccolti sono prevalentemente il frutto del lavoro, dei viaggi e dei discorsi fatti e continuo a fare da quando, nel Gennaio del 1965, divenni senatore.
Al senato di questa grande nazione i problemi vengono trattati man mano che si presentano, e tutta la mia attenzione è ora rivolta a quel personaggio che occupa, democraticamente o meno, a seconda di come si ragiona ed accorda a questa retta condizione della medesima pensata, elevata condizione. Ragion per cui tutta la mia attenzione rivolta, giacché non del tutto privato della linfa non meno del democratico impegno, alla crisi di ogni momento ed avverso a chi di ugual principio abusa in nome e per conto di questo ed in cui l’evoluzione mi nomina difensore e custode.
Perciò in tali e brevi Frammenti non intendo delineare nessuno schema grandioso, nessun programma globale per la comune nazione o per il mondo, ma mi limito ad esaminare e ad approfondire le nostre reazioni di fronte ai problemi che ci stanno aggredendo con la maggiore urgenza e gravità se confrontati con quanto assunto con pochi e sgrammaticati tratti di penna, chi la penna non dovrebbe impugnare per medesime finalità ma pur in ragione di una certa e diffusa alfabetizzazione ne fa uso ricorrente ed improprio confondendo scrittura e cultura, lettura e sapere, business ed economia…




Proseguo…
Dalla fondazione della repubblica, da quando Thomas Jefferson, a trentadue anni, scrisse la Dichiarazione di indipendenza, Henry Knox, a ventisei, organizzò un corpo di artiglieria, Alexander Hamilton, a diciannove, andò a combattere per l’indipendenza, e Rutledge e Lynch, a ventisette, firmarono la Dichiarazione per la Carolina del Sud, ed ancora quando la Clinton e poi Obama riformarono a ragione ciò di cui il mio intervento circa la consapevolezza di una sanità ed assistenza per tutti, e quando quest’ultimo ha maturato retta consapevolezza ed urgenza di un piano ecologico per le nostre ed altrui ricchezze, ebbene…, mai giovane generazione di americani è stata più brillante, più preparata, più intimamente consapevole di quella attuale.
Nel Peace corps, nel Northern student movement, in Appalachia, sulle strade polverose del Mississippi e sugli stretti sentieri delle Ande, questa generazione di giovani ha mostrato idealismo e un amor di patria eguagliati in pochi paesi e superati in nessuno….




Si è tentati di far risalire alla guerra tutti i problemi della nostra gioventù malcontenta; ma sarebbe un errore!
E non si può neppure far risalire la causa del malcontento a un individuo, a un governo, a un partito politico; la diagnosi deve essere più profonda e più ampia.
Prendiamo per esempio la nostra economia, la stupefacente macchina produttiva che, a conti fatti, ci ha resi più ricchi (ed ancora di più come qualcuno promette con pochi e sgrammaticati tratti di penna - ma di quale comune ricchezza o difesa parla lascio alla limitata visione associata al pressapochismo circa la stessa economia la quale è cosa troppo seria per essere così infranta in ragione del comune principio che fa’ di ogni uomo ‘ricco di mondo’ nella povertà nonché brevità del contrario sottoscritto e nell'inganno firmato in nome della stessa [ricchezza] offesa nella finalità di un principio privato: questione di miglior convenienza e veduta a lunga scadenza - questa forse più retta scienza….) di qualsiasi popolo nella storia, e che ci sostenta e ci mantiene tutti.
È una economia imprenditoriale, il che significa che la maggior parte degli abitanti di questa grande nazione è occupata in qualche genere d’affari. Era certamente giusto, anche se non molto edificante, quanto disse Coolidge: “Gli affari dell’America sono gli affari”. Eppure sappiamo da una recente ed ancor attuale indagine che solo ilo 12% degli studenti universitari seniors desidera una carriera nel mondo degli affari o ritiene che questa carriera possa essere degna e soddisfacente. Senza dubbio uno dei motivi è che mentre le grandi aziende rappresentano un vastissimo settore della vita americana, il loro ruolo nella soluzione dei problemi vitali del paese è minimo.




Diritti civili, povertà, disoccupazione, igiene, istruzione, sanità (sottolineo quest’ultimo argomento): ecco solo alcune gravi crisi di fronte a cui l’intervento della classe imprenditoriale, con alcune importanti eccezioni, è stato e continua ad essere molto inferiore a quanto ci si potesse aspettare.  Possiamo prendere atto di talune eccezioni, ma indiscusso ed indubbio che il mondo imprenditoriale nel suo complesso non ha raccolto la sfida per una ‘nuova frontiera’ della nazione, eccetto un diffuso dissenso che dalla frontiera migrato verso l’uno e l’altro polo di questo mondo così maltrattato!
Naturalmente si può ribattere che il compito dell’imprenditore è il profitto (è business dice il ‘quarantacinquesimo’ della lista…. degli imprenditori di certo non dei Padri Fondatori giacché vi è notevole confine… tra quelli e questa limitata ‘ragione’), che tentare di più vorrebbe dire fare meno di quanto è dovuto agli azionisti. Ma, chiedono i giovani, che valore ha questa obiezione quando una sola azienda, come la General Motors o un’altra consimile conserva dei profitti annui superiori al prodotto nazionale di un qualche paese del mondo? Per dei giovani educati da solidi principi accompagnati da retti ideali e per i moralisti di ogni tempo, l’etica che misura ogni cosa sulla base del profitto che se ne può ricavare è ancora più sgradita!




Infatti hanno ben visto alti funzionari (nonché acclamati ministri) delle nostre aziende ingannare elettori e democrazia e complottare accordi non solo sui prezzi, ma anche sui principi su cui la democrazia siede e presiede taluni incarichi e di cui la stessa dovrebbe tutelarci dall’opposto in ragione della comune difesa, talché anche questa è divenuta business con cui ingannare il popolo e non solo il giovane morto in una inutile guerra… in difesa e per conto di questa democrazia ‘disdetta’…
E come dicevo…, questi giovani hanno visto alti funzionari delle nostre più grandi aziende complottare accordi sui prezzi, complottare circa il principio della verità affinché le loro stesse aziende ne potessero trarre il maggior profitto ed illecito guadagno di cui inaffidabili soci in affari; incontrandosi in squallide riunioni segrete per rubare qualche miliardo al mese dalle tasche di milioni di cittadini e non solo americani!
Ci hanno visto mandare la gente in prigione perché in possesso di marijuana, mentre ci rifiutiamo di limitare la vendita o la pubblicità delle emissioni di gas nocivi che ogni anno uccidono migliaia di cittadini nel mondo visto che il nostro paese nell’aspettativa di diventar ancor più ricco grazie a questo impegno è quello che più inquina al mondo…

















domenica 22 gennaio 2017

LE NOSTRE MONTAGNE DA SALVARE


































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Le nostre montagne da salvare (2)













        
Uno dei gruppi montuosi importantissimi costituenti l’Appennino centrale è quello del Terminillo, la di cui vetta più alta s’eleva a 2213 metri sul livello del mare. Esso sorge interamente nell’Abruzzo, e facili e brevi sono le vie di accesso; finora però è stato poco percorso e per nulla studiato.
Eppure le sue rocce di massiccio e grigiastro calcare che ne costituiscono il nocciolo centrale, le sue creste curiose nella loro denudazione, gli aspri e ripidi valloni che le acque hanno scavato nella compatta massa calcarea, le brulle e selvagge gole nelle quali cupi scorrono fiumi e torrenti, i ripidi pendii su cui si arrampicano pecore e capre in cerca di un misero pasto di pochi licheni, fanno vivo contrasto con le circostanti vallate, colline e pianure verdeggianti, ricche di prodotti, bene irrigate.
La disposizione orografica dell’Italia media presenta la riunione di tanti gruppi, di tante ristrette giogaie staccate, nelle quali lo spartiacque fra il mare Adriatico ed il Mediterraneo corre spesso non sulle più elevate cime, ma per piccoli sollevamenti. Questo sistema di gruppi si trova disposto con una regolarità grandissima; ciascun gruppo è foggiato a guisa di segmento di cerchio con la convessità rivolta verso l’Adriatico, rimanendo, in parte, come sovrapposto a quello che gli sorge verso nord, in modo che, incominciando dal sud, la parte estrema settentrionale di ogni gruppo ricopre verso est la parte estrema meridionale del gruppo sovrastante.




Nella regione Abruzzese che si stende dalle sorgenti della Nera a quelle del Trigno la conformazione orografica è rappresentata da un vasto altipiano, l’altipiano abruzzese, foggiato ad elisse allungata in direzione NO.-SE. e sostenuto verso l’Adriatico da un piano inclinato in direzione NE., solcato da numerose correnti.
L’altipiano appartiene all’Appennino Centrale propriamente detto e si formò geologicamente durante l’età terziaria, quando una pressione laterale, diretta da SO. a NE. o viceversa (è ancor controverso), incurvò e pieghettò gli strati sottomarini di quel mare che si stendeva là ove oggi sorge l’Italia, i quali uscirono all’aria nei culmini delle loro crespe, mentre la supposta Tirrenia, regione montuosa che al termine dell’età mesozoica emergeva ove ora è il letto del mar Tirreno, andava sprofondandosi e sommergendosi. Questo altipiano comprende tutta la provincia di Aquila, i confini della quale corrono precisamente sulla cresta della catena che ne forma l’orlo in forma di conca elissoidale. Oltre alle due linee che racchiudono l’altipiano, v’è una terza linea trasversale che divide l’altipiano in due parti: in conca Aquilana percorsa dall’Aterno, e in conca di Avezzano, le di cui acque sono raccolte dal Liri e dal Velino. Il versante NE. poi, cioè il piano inclinato suddetto, è diviso in due parti dal fiume Aterno-Pescara, le quali formano le provincie di Teramo a N. e di Chieti a S.




Fra le tre linee poi si stendono parecchi altri gruppi montuosi, non molto alti e lunghi, i quali racchiudono vasti altipiani a diversa altezza, con facili passaggi dall’una all’altro fra la interruzione dei gruppi stessi. L’asse maggiore dell’elisse formata dalle tre linee o gruppi principali è appoggiato coll’estremità settentrionale ai Monti Sibillini e con la meridionale ai monti napoletani per mezzo della cresta che congiunge il Monte Meta ai monti d’Isernia ed al Monte Miletto. Delle tre linee, quella che costituisce l’orlo orientale dell’altipiano è formata da una serie di gruppi divisi in due dal corso del Pescara: essa comincia presso il gruppo dei Monti Sibillini alla gola di Arquata, per la quale esce il Tronto, coi Monti della Laga, tronco montuoso estendentesi dal Tronto al Vòmano per circa 30 km. in direzione di S. a SE. Prosegue, dopo la gola da cui esce il Vòmano fra Monte Cardito e Monte Piano, nel Gruppo del Gran Sasso (2921 m.) il quale ha il suo asse di direzione non nel prolungamento dell’asse dei Monti Sibillini e della Laga, ma sensibilmente piegato verso oriente fino al Monte della Guardiola a 32 km. dal mare. Dal Monte della Guardiola la linea riprende la direzione di SE, e si abbassa ed assottiglia sul Pescara col Monte Roccatagliata (975 m.). Tutte le diramazioni che partono da questi gruppi vanno a finire, ramificandosi, nell’Adriatico e formano i monti della provincia di Teramo. Al di là della gola o Passo di Popoli, sorgono a continuare la linea orientale le montagne del Morrone ed il gruppo della Maiella (2795 m.). Fin qui la linea si è mantenuta pressoché parallela alla costa adriatica: ora si spiana nell’altipiano delle Cinque Miglia, poi volge verso O. rialzandosi nei Monti di Castel di Sangro coi quali va a riunirsi al Gruppo di Monte Meta. Tutte le diramazioni verso l’Adriatico delle montagne del Morrone e della Maiella, coi Monti di Atessa, formano i monti della provincia di Chieti (Abruzzo Citeriore).




La seconda linea che forma l’orlo occidentale dell’altipiano, a principiare dal N., è nel primo tratto costituita dal gruppo di Monte Terminillo che si stacca dai Sibillini e viene verso S. separando la valle del Velino e del Tronto, e cioè la conca aquilana, dagli altipiani di Leonessa, di Cascia e di Norcia i quali, inclinati verso la Nera, mandano a questa le loro acque per mezzo del torrente Corno. Nel secondo tratto la linea occidentale, incominciando con basse montagne fra Antrodoco e Cittaducale, per i monti del Turano e del Salto, si rialza col gruppo di Monte Autore nella provincia Romana, per arrivare sempre alta a Sora contro il Liri, al di là del quale segue una diramazione del Monte Meta.
Al fiume Velino comincia pure la linea centrale trasversale che divide in due parti l’altipiano abruzzese, separando così le acque del Velino e dell’Aterno da quelle del Salto. Si stacca di fronte al Terminillo e per i Monti Nuria (1892 m.), fra le Serre (1594 m.) e Monte Rotondo (2487 m.) viene verso SE. al Monte Velino (2487 m.) che è il più elevato nell’interno dell’altipiano, e poi al Monte Sirente (2349 m.). Di qui la linea piega più a mezzodì, racchiudendo col piano di Sulmona e le ultime pendici della Maiella l’altipiano delle Cinque Miglia, per finire sul Sangro a Castel di Sangro.




Il gruppo del Terminillo dunque, del quale intraprendiamo la descrizione, appartiene, anzi è la prima parte dell’orlo occidentale che circoscrive l’altipiano abruzzese. Quasi tutte le sue acque si versano nel Mediterraneo per mezzo dei fiumi Velino, Nera e Corno: esso quindi non appartiene, se non per le ultime sue diramazioni, alla linea spartiacque dei due mari. I limiti che possiamo assegnare al gruppo del Terminillo sono a S., partendoci dal confine della provincia d’Aquila con quella di Perugia, il corso del fiume Velino che scorre dapprima nella bella e fertile piana di Rieti e, ricevuto al confine dell’Abruzzo Aquilano il fiume Salto, passa sotto Cittaducale e si volge a SE. con corso tortuoso per addentrarsi in anguste gole nelle quali correva l’antica via Salaria.
Ad Antrodoco il confine meridionale del gruppo lascia il Velino e segue il corso del rio Corno; poi risale verso NE. la ripida valle fino a Sella di Corno (1000 m.) e scendendo pel versante opposto nella valle del Raiale raggiunge il fiume Aterno (che dopo la confluenza col Gizio nel piano di Sulmona prende il nome di Pescara). Il corso superiore dell’Aterno, dalle sue sorgenti che sono a NE. di Montereale in territorio di Aringo nel monte Capo Cancelli a 1347 m., segna il confine orientale, il quale da tali sorgenti pel Passo dell’Aringo prosegue lungo il fosso Basciano, lungo la stretta sua valle fino alla confluenza col Tronto a N. di Amatrice e poi per buon tratto lungo il fiume Tronto fino alla confluenza con la Neia. Qui comincia il confine settentrionale che segue il fosso la Neia dapprima e sale poi al Monte Pozzoni (1912 m.) a N. di Cittareale e raggiunge il confine montuoso della provincia aquilana coll’Umbria. Questo confine in direzione di NO. segna pure il limite da questo lato del gruppo del Terminillo, il quale passa per il Monte Oro (1295 m.), per il Monte del Trognano (1321 m.), per la Forca di Rescia e il Monte d’Ocri (1230 m.), attraversa il fosso Corno, e per la cima del Carpellone (1462 m.) volge a S. formando il limite occidentale: pel monte La Pelosa (1635 m.), il Colle Lungo (1652 m.), il Monte di Corno (1735 m.), i Monti di Ceresa (1522) e il colle La Forca (1294 m.) scende a raggiungere la valle del Velino nel punto già accennato della confluenza col Salto. Tutto il territorio compreso entro questi limiti, abitato già dai Sabini, è assai interessante per il suo carattere e la sua varietà e può distinguersi in quattro principali giogaie.




Quella che possiamo chiamare giogaia centrale contiene la vetta più elevata, il Terminillo propriamente detto. Essa è un imponente massiccio di compatto calcare a grossi strati orizzontali verso l’alto e verticali verso il basso. La giogaia è racchiusa fra il corso superiore del Velino a E., da Antrodoco a Posta, fra il fosso Carpellone ed il piano di Leonessa a N., fra il fosso di Cantalice e il piano di Rieti a O., e a S. fra il corso inferiore del Velino da Rieti ad Antrodoco.  
Il più terribile e spaventoso monte dei Sabini era il Mons Tetricus, dalla qual voce il grammatico Servio derivò il nome di tetrici agli uomini tristi e dolenti. Tetricae horrentes rupes, dice Virgilio; ed è ormai riconosciuto essere l’odierno Terminello, ora corrotto in Terminillo. Sovra tutti i monti, infatti, che si elevano nell’antico territorio dei Sabini, è desso il più orrido all’aspetto a causa dell’asperità delle sue rocce. Lunghe costiere adducono alla vetta più elevata, mentre profondi e stretti burroni solcano specialmente il pendio settentrionale del monte; citeremo la costiera NO. che dal Monte Acquasanta (1850 m.) per i Sassatelli (2079 m.) giunge alla vetta più elevata (2213 m.), la costiera S.SO. che da questa vetta va al Terminilletto (2108 m.), e la costiera meno importante ma più lunga che in direzione dapprima di E. volge poi a N. e va a rilegarsi al Monte Porcini (2081 m.), costiere curiosissime, esili, scagliose, tormentate, ripide, a pareti fiancheggiate da precipizi, le quali s’innalzano sul pendio ripidissimo del monte, quasi ponti arditi a rilegarne le cime. Aggruppati intorno alla vetta centrale, altri monti in questa giogaia sorgono quasi a difesa del gigante.




Noteremo a N. il Monte di Cambio (2084 m.) dal quale si dirama ad E. il Monte Iazzo (1854 m.) e più dappresso il Monte Porcini (2081 m.) che si dirama in una lunga costiera, ad E. della punta più elevata, costiera che cessa nel monte i Valloni (2028 m.) cadente a picco sul vallone Ravara. A S., per tacere d’altri meno importanti, sta il monte detto Euce dagli scrittori dei primi anni del secolo, Enze in carte posteriori, ed Ove (1580 m.) nella carta dell’Istituto Geografico Militare a provare la strana corruzione che avviene nei nomi topografici. A NE. della giogaia centrale sorge la seconda giogaia con la direzione di NE. Essa comincia di fronte ai Sibillini e termina di fronte alla centrale: è racchiusa a E. fra il corso superiore del Velino da Posta a Cittareale ed il corso del Tronto, fra i territori di Norcia a N., fra quelli di Cascia e di Leonessa a O., e fra il fosso di Carpellone a S. La giogaia come lunga costiera comincia a N. col Monte della Serra (1780 m.) formando il confine dell’Abruzzo coll’Umbria, prosegue coi monti i Ticcioni (1617 m.), coi monti i Pozzoni (1912 m.) e, staccandosi dal confine per addentrarsi nell’Abruzzo, continua coi monti La Speluca (1799 m.) a NO. di Cittareale, San Venanzio (1808 m.). La Boragine (1829 m.) e termina al monte La Cerasa (1550 m.) a N. di Posta. [136] La terza giogaia è a E. e a SE. della prima, e a S. della seconda. Essa è composta di un’ammasso di monti raggruppati senza apparente regolarità. È limitata a O. dal corso del Velino da Antrodoco a Posta: a N. dalla Neia, a NE. dal Tronto dalla sua confluenza con la Neia fino alle sorgenti che sono nel territorio di Poggio Cancelli, a SE. dal corso superiore dell’Aterno e a S. dal corso del Raiale e dal rio di Corno.




Le vette principali di questo aggruppamento, procedendo da N. a S. sono il Monte Rota (1536 m.) a NE. di Cittareale, il Monte (1407 m.) a E. di detta città, il monte del Cimitero (1231 m.), il Colle Verrico (1306 m.) e più ad E. la costa dell’Aringo col monte Capo Cancelli (1391 m.) ove sono le sorgenti dell’Aterno, a NO. di Montereale, il Monte Gabbia (1502 m.), il Monte Rua (1238 m.), a SO. di Pizzoli, e principali sovra tutti il Monte Calvo (1901 m.), a N. di Rocca di Corno, ed il Monte Giano (1826 m.) a NE. di Antrodoco. La quarta ed ultima giogaia che forma il gruppo del Terminillo è situata a NO. della centrale, a SO. della seconda giogaia. È anch’essa una lunga costiera, racchiusa fra il fosso di Cantalice e il piano di Leonessa a E., e la valle Nerina ed il piano di Rieti a O. Questa giogaia segna parte del confine fra l’Abruzzo e l’Umbria, cominciando alla cima del Carpellone (1462 m.) a NO. di Leonessa. Prosegue pel Colle Pérsico (1310 m.) pel monte La Pelosa (1647 m.), a SE. del quale è il Monte Tilia (1779 m.) sovrastante a Leonessa, pei monti di Corno (1738 m.) pel Passo della Fara (1525 m.), pel Colle La Tavola (1695 m.), ed il Monte Palloroso (1592 m.), per cessare con piccole diramazioni nel piano di Rieti. È in quest’ultima giogaia che si son voluti riconoscere situati i monti Fiscellus, Gúrgures, e Severus degli antichi. Il Monte Fiscello fu causa, per la sua topografia, di molti dissidi. Plinio lo ripose alla sorgiva del fiume Nera: Sabini Velinos adcolunt lacus roscidis collibus, Nar amnis exaurit illos e monte Fiscello labens (lib. III, cap. 12). Silio lo attribuisce ai Vestini: . . .  Vestina iuventus Agmina densavit venatu dura ferarum, Qui, Fiscelle, tuas arces, Pinnamque virentem, Pascuaque haud tarde redeuntia tondet Avellae. Da Varrone lo si unì col Tétrico, confermando così che doveva essere dal lato dei Piceni e dei Vestini, nella parte dei Sabini che guardava i Vestini, dove scorre un ramo del fiume Nar (Nera). 




Seguendo queste indicazioni, il Monte Fiscello è stato riconosciuto in quella parte della costiera che s’erge fra i territori di Leonessa, di Labbro e di Morro, dove si univa alla catena dei monti Tétrici, ed è forse il monte La Pelosa (1647 m.) che domina a N. sul vallone detto di Fuscello, corruzione dell’antico nome. Quanto ai monti Gúrguri, Varrone parlando dell’antica trasmigrazione dei bestiami dai pascoli di Puglia nell’inverno, a quelli dei monti nell’estate, dice che dalle amene pianure Reatine di qua e di là dal Velino, i muli si menavano nell’estate sugli alti monti Gúrguri: itaque greges ovium longe abiguntur ex Apulia in Samnium aestivatum..... Muli e Rosea campestri aestate exiguntur in Gurgures altos montes.

























sabato 14 gennaio 2017

AMMAZZARE IL TEMPO (chi lo ha ucciso?) (8)


















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Ammazzare il Tempo (7)

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Ammazzare il Tempo (chi lo ha ucciso?) (9)














In un momento in cui si guarda con sempre maggiore attenzione alla  probabilità di sostanziali e rapidi mutamenti climatici nel prossimo futuro, dovuti all’immissione antropogenica di gas serra nell’atmosfera, è possibile trarre delle vitali lezioni dallo studio della storia dell’ambiente.
I mutamenti che avvengono in varie componenti del sistema globale sono in grado di condurre a mutamenti climatici su scala planetaria: di tali cosiddetti fattori di forzamento fanno parte le alterazioni naturali della composizione dell’atmosfera, la posizione dei continenti sulla superficie terrestre, la configurazione dei bacini oceanici, la topografia dei continenti e la quantità di radiazione ricevuta.




Anche se tutti questi fattori sono in uno stato di continuo mutamento, essi cambiano a velocità assai diverse. Così, i primi tre assumono una reale importanza solo su una scala temporale che superi i 10 milioni di anni, mentre il sollevamento delle catene montuose ha avuto un impatto rilevantissimo negli ultimi 5 milioni di anni, causando gli sconvolgimenti climatici che contrassegnarono la transizione del periodo geologico Terziario al Quaternario, più o meno 2,4 milioni di anni fa.
Le nostre informazioni più dettagliate sui fenomeni di mutamento globale del clima, tuttavia si riferiscono alla scala temporale geologicamente assai breve dell’ultimo milione di anni.




Durante questo periodo, la maggior parte dei fattori di forzamento del clima sono mutati tanto poco da poter essere considerati virtualmente costanti; coloro che studiano il clima del passato li chiamano anche, in alternativa, ‘condizioni al contorno’.

Tali condizioni limite determinano lo stato generale del clima globale e la grandezza delle sue variazioni in risposta ai fattori di forzamento a variazione più rapida. I più importanti mutamenti climatici dell’ultimo milione di anni sono fondamentalmente dipesi dalle variazioni nella quantità di radiazione solare ricevuta dalla Terra, anche se sono stati accompagnati da cambiamenti naturali nella concentrazione di alcuni gas serra nell’atmosfera.




La quantità di luce solare che riceve la Terra varia secondo parecchie diverse scale temporali. Le variazioni più importanti, comunque, consistono in un numero abbastanza piccolo di fluttuazioni periodiche, fra le quali quelle a scala temporale più breve sono il ciclo giornaliero e quello annuale.
A scala temporale più ampia, le variazioni dell’orbita terrestre attorno al sole fanno variare la quantità di radiazione solare ricevuta e si crede che questa sia la causa dell’alternanza tra periodi glaciali e interglaciali.
Questo andamento alternante si è verificato negli ultimi 750.000 anni, con una periodicità vicina ai 100.000 anni. L’ultimo periodo glaciale è finito circa 10.000 anni fa ed è solo durante l’ultima parte del presente periodo inter-glaciale, generalmente chiamato post-glaciale, che si è sviluppata la civiltà umana.




Questi mutamenti climatici, di grande entità pur se geologicamente recenti, sono registrati in considerevole dettaglio dai fossili e da altri indicatori ambientali che si sono conservati nei sedimenti accumulati sul fondo degli oceani e dei laghi, ed anche in depositi di loess, strati formati da particelle assai fini trasportate dal vento che in alcune regioni continentali possono avere grande spessore.
La nostra conoscenza dei climi ambientali del passato – paleoclimi e paleoambienti – si fonda sul dettagliato studio stratigrafico di questi depositi e sulla ricostruzione degli ecosistemi – paleoecologia – di cui un tempo facevano parte gli organismi di cui studiamo i fossili.




Lo studio di questi materiali, e in particolare di quelli relativi agli ultimi 250.000 anni, può offrirci una certa comprensione di vari aspetti del sistema globale, che possono esser direttamente rilevanti per le previsioni sia del clima futuro sia delle risposte degli ecosistemi a tali mutamenti.
In modo particolare, i settori in cui si possono fare progressi sono:
1) la sensibilità del clima globale sia alle variazioni del bilancio radioattivo sia ai naturali mutamenti nel contenuto di gas serra dell’atmosfera;
2) i meccanismi con cui muta su scala globale;
3) i climi, globali e regionali, esistenti in tempi in cui la temperatura media globale è stata nettamente più bassa e/o un poco più alta dell’attuale;
4) la velocità dei mutamenti climatici del passato;
5) il modo in cui gli organismi e gli ecosistemi rispondono ai mutamenti del clima;
6) la velocità con cui possono aver luogo tali risposte.

































Anche se, come nella maggior parte dei campi dell’impresa scientifica, molto rimane ignoto, o noto solo in maniera imperfetta, ciò che sappiamo permette già di giungere ad alcune conclusioni che non vanno ignorate quando si considera il possibile impatto dell’effetto serra di origine antropica.
Si sosterrà, altresì, che la più importante lezione è che – ammesso che non si prendano delle misure per frenare le emissioni di gas serra – i mutamenti climatici previsti per il prossimo secolo daranno luogo a climi più caldi di quanto non abbia mai sperimentato la Terra almeno per diversi milioni di anni, e che tali mutamenti climatici si verificheranno più in fretta, di almeno un ordine di grandezza, dei più rapidi mutamenti climatici del recente passato geologico.
Le implicazioni di questo fatto per la capacità di risposta degli organismi e degli ecosistemi sono assai profonde; molti ecosistemi muteranno drasticamente ed è assai reale la prospettiva che molti organismi si possano trovare minacciati di estinzione.




La prima applicazione degli studi paleoclimatici ad essere oggetto di vasta attenzione è stata forse la possibilità di utilizzare i climi più caldi del passato come analoghi per il mondo più caldo del futuro.
Una buona massa di prove indica concordemente che verso la metà del periodo post-glaciale, cioè circa 6.000 anni fa, molte zone ad alte latitudini dell’emisfero nord erano più calde di oggi. Similmente, varie linee di indagine convergono a indicare che durante l’ultimo periodo inter-glaciale, circa 125.000 anni fa, il clima globale era più caldo di quanto non sia mai stato nel periodo post-glaciale, e c’è un generale accordo sul fatto che il mondo è stato più caldo ancora nel tardo Terziario, qualcosa come 3 o 4 milioni di anni fa.
Peraltro, l’uso di questi periodi come analoghi per un mondo progressivamente più caldo, come ha proposto in particolare Budyko, si scontra con dei problemi che sembrano insuperabili, come ha sottolineato il gruppo di lavoro degli scienziati dell’IPCC.


(Prosegue....)