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circa il Sé originario (8)
Prosegue con:
il culto dell'Albero (10)
Creta sorge all’estrema periferia di un arco montuoso che dalla Grecia, attraverso il Mar Egeo, raggiunge l’Asia Minore.
Il Mar Egeo non ha mai costituito una barriera fra popoli
diversi. Se ne era già accorto Schliemann quando, a Micene e a Tirinto, aveva
trovato oggetti provenienti da terre lontane. Evans avrebbe rinvenuto a Creta
avorio dell'Africa e statue dell'Egitto. Nel piccolo mondo dell’antichità,
pacifico e rapace a un tempo, il commercio e la guerra costituivano le molle
essenziali del traffico, così come nel nostro gran mondo di oggi. Le isole
formavano con le due madrepatrie una unità economica e culturale. E come
madrepatria non si vuol qui designare la terraferma, poiché risultò ben presto
che la vera madrepatria - in quanto fu la sede di un atto creativo - era un’isola,
Creta.
Secondo la leggenda, lo stesso Zeus vi sarebbe stato
generato da Rea, la Madre Terra, nell’antro di Ditte. Le api gli portarono il
miele, la capra Amaltea gli porse la mammella, le ninfe lo custodirono. Giovani
valorosi si riunirono per difenderlo dal suo stesso padre, Crono, divoratore
dei propri figli. A Creta avrebbe regnato Minosse, il leggendario figlio di
Zeus, il sovrano potentissimo che gli antichi nominavano solo con parole di
gloria.
Evans scavò presso Cnosso.
Immediatamente al disotto della superficie del suolo si incontrarono le mura antiche, e già dopo un paio d’ore di lavoro si cominciarono ad avere risultati positivi. Dopo due settimane Evans stupefatto si trovò di fronte ai resti di un edificio che ricopriva una superficie di otto are, e nel corso dell’anno affiorarono i resti di un palazzo dell’estensione di due ettari e mezzo. La pianta era chiara e affine (nonostante importanti differenze esteriori) a quella dei palazzi di Tirinto e di Micene, ma era tanto superiore per grandiosità, fasto e bellezza, da mostrare che le rocche della terraferma non potevano essere state altro che stanziamenti secondari, capoluoghi di colonie o province avanzate.
Intorno a un enorme quadrato, il cortile maggiore, sorgevano
su tutti i lati ali di costruzioni, muri di mattoni vuoti, tetti piani sorretti
da pilastri. Le stanze, i corridoi, gli atri dei diversi piani presentavano una
pianta così confusa, offrivano ai visitatori tante possibilità di smarrirsi,
che l’espressione labirinto affiorava
anche sulle labbra del semplice turista, ignaro della leggenda che attribuisce
al re Minosse un labirinto, costruito da Dedalo, e modello di tutti i labirinti
che furono costruiti in seguito.
Evans non esitò ad annunciare al mondo di aver trovato il palazzo di Minosse, figlio di Zeus, padre di Arianna e di Fedra, signore del labirinto e dello spaventoso Minotauro, il mostro mezzo uomo e mezzo toro che vi abitava. Evans andava scoprendo meraviglie. Il popolo che qui aveva dimorato - un popolo di cui Schliemann aveva solo trovato tracce coloniali e su cui fino allora non si erano avute che notizie leggendarie - aveva vissuto nella ricchezza e nel piacere, e forse era già scivolato in quella molle decadenza che reca in sé il germe della rovina e facilmente attecchisce su un giaciglio di rose.
Una civiltà decadente è il frutto della massima fioritura
economica. Creta era, allora come oggi, la terra del vino e dell’olio di oliva.
E in quanto isola, era al centro del commercio marittimo. Il particolare che
sorprese tutto il mondo, in questi primi scavi, fu la mancanza, nel più ricco
palazzo della preistoria greca, di qualsiasi fortificazione e di mura
difensive; ma i beni commerciali dell’isola avevano bisogno, per la propria
tutela, di una forza più vigorosa e più offensiva delle mura: una flotta
padrona dei mari!
Agli occhi del navigante di quel tempo che si
approssimava a Creta, il palazzo non appariva come una fortezza, ma con le sue
candide colonne, con le sue pareti decorate di stucchi, splendenti sotto il
sole dell’isola, come una gemma preziosa del mare, scintillante in tutte le sue
sfaccettature.
Evans scoprì i magazzini. Gli orci stavano l’uno accanto all’altro; orci colossali, un tempo pieni di olio, riccamente ornati con motivi simili a quelli che si erano trovati anche a Tirinto. Evans si prese la pena di misurare la capacità dei magazzini per l'olio, e arrivò a 75.000 litri. Tale era la provvista per un solo palazzo!
Chi erano i beneficiari di tanta ricchezza?
Dopo breve tempo Evans
scoprì che non tutto apparteneva alla stessa epoca, e non tutte le mura avevano
la stessa età, né tutte le ceramiche e le pitture recavano il segno dello
stesso stile. Ben presto, attraverso un’acuta indagine, egli riconobbe periodi
diversi di questa civiltà, e distinse - con una suddivisione in uso ancora oggi
- un periodo minoico antico dal III al
II millennio, un periodo minoico medio fino al 1600 circa, e un periodo minoico
tardo – l’epoca più breve con un improvviso epilogo - fino circa al 1250 a. C.
C’erano poi tracce di attività umana anche anteriori al primo periodo, risalenti all’epoca che chiamiamo neolitica, in cui si ignorava ancora l’impiego del metallo e tutti gli utensili erano di pietra. Evans faceva risalire queste tracce ad una antichità di 10.000 anni, mentre altri studiosi non vanno così lontano, e si limitano a datarle ad almeno 5000 anni fa.
Come si giunse alla possibilità di una datazione e di una
divisione in periodi?
Per ogni epoca Evans
trovò oggetti di provenienza straniera, ceramiche e vasellame egizio
esattamente databile dai periodi delle dinastie faraoniche. L’epoca di maggior
fioritura fu riconosciuta nel periodo di transizione fra il medio e il tardo
minoico (circa 1600 a.C.), quando verosimilmente visse un Minosse, signore
della flotta e dominatore del mare. Era il tempo in cui la vita era piena di
fasto e di benessere. Si praticava il culto della bellezza. Gli affreschi
rappresentavano giovinetti che errano per i prati raccogliendo fiori di croco
in calici sottili e fanciulle che indugiano su campi di gigli. La civiltà
minacciava di risolversi in puro sfarzo. La pittura non era più un’ornamentazione
sorretta da una rigida forma, ma un’orgia di colori e un allucinato splendore;
le dimore non sorgevano più da una necessità, ma dal lusso; l'abbigliamento non
era più espressione di un bisogno imposto dalla natura e dalla consuetudine, ma
oggetto di gusto e di raffinatezza.
Non c’è da meravigliarsi se Evans usò l’aggettivo ‘moderno’ per illustrare quanto aveva scoperto. Quella costruzione grande quanto Buckingham Palace celava condotti di scolo, lussuose stanze per abluzioni, impianti di ventilazione, depositi di assorbimento e pozzi per rifiuti. E ancora più evidente era il parallelo coi nostri tempi se ci si rivolgeva al contegno, all'abbigliamento, alla moda degli uomini.
All’inizio del periodo medio minoico le donne portavano
ancora un alto berretto a punta, e un lungo vestito decorato di strisce
colorate aperto sul davanti e fermato da una cintura, con un colletto alto e
rigido che lasciava scoperti i seni. Questa antica foggia si trasformò nel
periodo di massima fioritura della civiltà minoica in un costume più raffinato.
Il semplice vestito diventa un corpetto con maniche strettamente aderenti, che
mette in evidenza le forme e lascia scoperto il petto, ma questa volta con
provocante civetteria. Le sottane sono lunghe e pieghettate, ricche e decorate,
alcune con la rappresentazione di una collina da cui crescono stilizzati fiori
di loto. Sulla sottana è un grembiule variopinto. Sul capo le donne portano un’alta
cuffia, trasformazione del vecchio berretto a punta.
Non vien voglia di vedere nel loro abbigliamento una
grottesca ultramodernità?
E se i capelli corti sono un segno di modernità, queste donne, con le teste rasate come quelle degli uomini, sono più moderne che mai! Così esse ci appaiono dalle immagini che ne sono rimaste: con movimenti di grazia indolente, distese con stanca leggiadria sulle sedie da giardino, giocando con un guanto o conversando con un fascino tutto parigino nello sguardo e nell’espressione... e ci sembra inverosimile che siano dame di un tempo trascorso da millenni. E per renderci conto della lontananza di questo tempo dobbiamo rivolgerci all’abbigliamento maschile, formato di un semplice grembiule intorno ai lombi.
Fra tutte le meravigliose figure scoperte da Evans (delle
quali ‘perfino i nostri incolti operai sentirono il fascino’) ce n’è una di cui
conosciamo il soggetto: il danzatore sul toro.
Un danzatore?
un artista?
Questa fu l’opinione di Schliemann quando la vide
riprodotta a Tirinto, questo oscuro avamposto dove non c’era nulla che potesse
ricordargli un’antica leggenda di tori, vittime e sangue fumante nei templi. Ma
Evans non era forse nella terra dove aveva regnato Minosse, il monarca che
custodiva il Minotauro, il mostro di aspetto taurino?
Che cosa narrava la leggenda?
Minosse, signore di Creta, di Cnosso e di tutto il mare ellenico, aveva inviato il figlio Androgeo a partecipare ai giochi ateniesi. Più forte di tutti i Greci, questi riuscì vincitore, ma cadde vittima della gelosia di Egeo, re di Atene. Minosse sdegnato spedì ad Atene la sua flotta, invase la città, l’assoggettò e richiese un’atroce espiazione. Ogni nove anni gli Ateniesi dovevano mandare il fiore della loro gioventù, sette giovanetti e sette fanciulle, come vittime per il mostro di Minosse. Il tragico sacrificio stava per compiersi per la terza volta, quando Teseo, il figlio di Egeo rientrato in patria dopo un lungo viaggio, durante il quale aveva compiuto imprese eroiche, si offrì di navigare alla volta di Creta e di uccidere il mostro.
‘Sul
mare di Creta navigava la prua raggiante di azzurro della nave. Essa portava
Teseo e sette coppie di giovani ioni’.
Vele nere ondeggiavano sull’albero maestro, e bianche ne
avrebbe alzate Teseo, al suo ritorno, se l’impresa avesse avuto esito felice.
Arianna, la figlia di Minosse, vide il principe votato alla morte e se ne
innamorò. Gli diede una spada per combattere e un gomitolo di lana, di cui ella
volle reggere un capo quando Teseo si addentrò nel Labirinto per dare la caccia
al mostro. Dopo una terribile lotta Teseo vinse la belva, ritrovò l’uscita
mediante il filo di lana, e in tutta fretta, con Arianna e i compagni, prese la
via del ritorno. Ma era ancora così eccitato per la insperata salvezza che non
pensò di sostituire le vele secondo quanto aveva convenuto. Egeo credette che
il colore funereo fosse un segno di morte e si precipitò in mare.
Non poteva questa leggenda fornire la spiegazione della pittura?
Due fanciulle e un giovanetto giocano con un toro.
Ma era realmente un gioco?
O non erano piuttosto in ballo la vita e la morte?
Non poteva trattarsi qui del sacrificio al Minotauro,
che, a sua volta, non significava forse altro che ‘toro di Minosse?’
Altri interrogativi si presentarono quando si paragonò più attentamente la leggenda con la realtà che si era scoperta. Un nucleo di verità era chiaro: il Labirinto. Si poteva ammettere che la vittoria di Teseo adombrasse la conquista e la distruzione del palazzo da parte di popoli venuti dalla terraferma; ma appariva inverosimile al massimo grado che alle origini della distruzione del regno di Minosse dovesse porsi una vendetta personale del monarca, il crudele sacrificio richiesto come espiazione dell’uccisione del figlio.
Il regno però fu distrutto.
E la distruzione avvenne in modo così violento e
repentino che i conquistatori non ebbero il tempo di vedere, di udire o di
imparare nulla, allo stesso modo come tremila anni più tardi, ad opera di un
pugno di Spagnoli, il regno di Montezuma fu ridotto a un tacito cumulo di
rovine e di pietre.
Come?
Perché?
L’origine e la fine del ricco popolo di Creta è ancora
oggi il problema insoluto di tutti gli archeologi e di tutti gli scienziati che
si interessano di storia antica. Secondo Omero, vivevano nell’isola cinque
popoli di lingua differente. Secondo Erodoto, Minosse non era greco, mentre
secondo Tucidide lo era. Evans, che
più d'ogni altro si interessò alla questione, propende per un’origine libico-africana.
Eduard Meyer, il maggiore storico dell’antichità, si limita ad osservare che,
probabilmente, i Cretesi non provenivano dall’Asia Minore. Dörpfeld, il vecchio
collaboratore di Schliemann, ancora nel
1932, ottantenne, controbatte la teoria di Evans e menziona la Fenicia come luogo di origine dell’arte
cretese-micenea.
Dov’è il filo di Arianna che ci condurrà fuori dal
labirinto dei pro e dei contro?
La scrittura potrebbe essere questo filo. Evans andò a Creta appunto per la scrittura. Nel 1894 ne aveva già descritto i primi caratteri. Egli scoprì innumerevoli iscrizioni ideografiche, e, presso Cnosso, duemila tavolette di argilla coi segni di un sistema grafico lineare. Ma nel 1935 Hans Jensen, in un fondamentale lavoro su La scrittura, constata: ‘La decifrazione della scrittura cretese è ancora nella sua fase preliminare, per cui non siamo ancora venuti in chiaro della sua natura’.
Oscura come le origini e le iscrizioni è la fine del regno di Creta. Esistono teorie numerose quanto audaci. Evans riconobbe chiaramente tre stadi della distruzione: il palazzo fu ricostruito due volte e alla terza fu definitivamente distrutto.
Se gettiamo un’occhiata panoramica alla storia di quei giorni, vediamo irrompere in Grecia orde di immigranti, Achei dalla pelle chiara provenienti dal nord, dalle terre danubiane o forse dalla Russia meridionale, che travolgono le città dei popoli dalla pelle scura, distruggono Micene e Tirinto; questa vasta ondata di genti barbariche si espande oltre il mare e raggiunge Creta. Poco più tardi vediamo nuovi eserciti in marcia, i Dori che scacciano gli Achei, ma apportano una cultura inferiore. E se gli Achei distruttori seppero ‘prendere possesso’ dell’eredità, mostrandosi degni di essere celebrati da Omero, i Dori furono soltanto dei distruttori.
Ma con essi si iniziava la nuova grecità.
Così andarono le cose, secondo alcuni. Secondo altri, le
vicende si svolsero in tutt’altro modo.
Evans scoprì che la distruzione del palazzo di Minosse doveva
essersi svolta con la violenza di un cataclisma. Pompei era l’esempio classico
di un simile fenomeno. Qui, nelle stanze del palazzo, Evans incontrò gli stessi segni di morte e di distruzione
improvvisa che d’Elbœuf e Venuti avevano trovato per la prima volta ai piedi
del Vesuvio: suppellettili abbandonate, opere d’arte e manufatti non terminati,
un’attività domestica bruscamente interrotta.
Evans ne dedusse una teoria che venne confermata dalla sua stessa esperienza. La sera del 26 giugno 1926, alle nove e trenta, Evans stava a letto leggendo, quando sopraggiunse un terremoto. Il letto si scosse, le pareti della casa tremarono, alcuni oggetti caddero, e un secchio si vuotò dell’acqua che conteneva, la terra sussultò e scricchiolò e quindi muggì come se fosse tornato in vita il Minotauro. La scossa fu breve, e appena terminata Evans corse al palazzo. Le ricostruzioni da lui compiute avevano resistito. Dove era stato possibile, egli aveva impiegato sostegni e pilastri di cemento armato. Ma nei paesi circostanti fino a Candia, la capitale, il terremoto aveva prodotto grandi distruzioni.
Questa esperienza personale convalidò la teoria di Evans. Creta è uno dei paesi di Europa
maggiormente travagliati dai terremoti. Solo la violenza di un simile
cataclisma, che d’un tratto scosse e spalancò la terra ingoiando l’opera dell’uomo,
poté distruggere il palazzo di Minosse al punto che, sulle sue rovine, non
furono ricostruite che un paio di misere capanne.
Questa è l’opinione di Evans.
Ma i più non la condividono. Forse un giorno verranno
altri chiarimenti.
Tuttavia Evans poté chiudere il cerchio che per primo Schliemann, con la sua fede, aveva visto brillare fra la cenere micenea. L’uno e l’altro furono degli scopritori. Ora è venuto il tempo degli interpreti, il tempo di coloro che ritroveranno il filo di Arianna.
Dove brucia la lucerna di colui che saprà decifrare la
scrittura cretese?
Essa manderebbe tanta luce da illuminare un’Europa
rimasta sepolta nell’oscurità dei secoli per tre millenni. Con questa domanda
terminavo il capitolo nel 1949. Verso
la metà dell’anno seguente venne la prima risposta: Ernst Sittig, professore di
Tubinga, aveva risolto il problema, quello stesso cui avevano lavorato il
finlandese Sundwall per quarant’anni, poi il tedesco Bossert, l’italiano
Meriggi e il ceco Hrozný (il decifratore dei testi ittiti cuneiformi di
Boghazköy), finché nel 1948 Alice
Kober di New York, rassegnata, aveva dichiarato:
‘Una
lingua sconosciuta, scritta in una scrittura sconosciuta, non può essere
decifrata...’.
Sembrò il trionfo.
Sittig aveva applicato per primo alla filologia classica, in tutte le sue implicazioni, l’arte (e la scienza) di decifrare i messaggi militari segreti, arte perfezionata nel corso di due guerre mondiali sulla base di metodi statistico- matematici fondati sul calcolo delle frequenze. A tutta prima credette di aver decifrato undici, poi persino trenta segni della cosiddetta ‘scrittura cretese lineare B’. Ma verso la metà del 1953 arrivò un’altra risposta. Nelle mani del giovane inglese Michael Ventris era caduta una tavoletta d’argilla (trovata a Pilo da Blegen), recante un raggruppamento di segni in cui Sittig non s’era ancora imbattuto, tavoletta che il geniale Ventris - di professione architetto, cioè nuovamente un outsider - poté leggere ineccepibilmente come greco.
Ciò tolse ogni valore alla lettera di Sittig: non trenta,
ma solo tre delle sue interpretazioni erano giuste. Incominciò allora una lotta
che durerà ancora a lungo. La filologia classica si sta avvicinando alla
soluzione definitiva del problema della decifrazione: la maggior parte delle
tavolette cretesi sono leggibili. Ma per quale motivo, allora, nel centro d’una
civiltà autonoma e altamente sviluppata, i Cretesi scrivevano con la loro
scrittura, circa 600 anni prima di Omero, la lingua dei greci, cioè di un
popolo che non aveva in nessun modo raggiunto un alto grado di civiltà?
Coesistevano più lingue una accanto all’altra?
C’è forse qualcosa di erroneo nella nostra cronologia greca antica? O lo stesso Omero diventa di nuovo un problema?
Nel 1963 il professor Leonard R. Palmer di Oxford, nel suo libro Mycenaeans and Minoans, avanzò nuove interpretazioni. Gli studiosi lo criticarono ed attaccarono con tale veemenza da costringerlo a pubblicare dopo solo due anni una nuova edizione ‘fondamentalmente riveduta e ampliata’. Orbene - altri anni di ricerca chiariranno molte cose. Intanto rivolgiamo la nostra attenzione a un paese, la cui scrittura fu anch’essa un enigma per molto tempo (enigma che, come vedremo, fu sciolto in modo quasi drammatico), un paese che fin dall’inizio ci ha parlato attraverso i più imponenti monumenti lasciatici dal mondo antico: il paese del Nilo.
(C. W. Ceram)
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