CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

domenica 14 marzo 2021

RACCONTI DELLA DOMENICA ovvero un Sogno

 























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Della Domenica...


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Seconda parte (dei racconti della domenica)


& un naufragio psicologico...








In prossimità dell’Anno Santo, un certo Antonio Huber, dottore laico in teologia, aveva largheggiato nel peccare.

 

“Antonio, caro Antonio”

 

…si era detto

 

“indulgenze come questa volta non ti capiteranno tutti i giorni. Orsù, approfitta. Poi quelli laggiù, a Roma, provvederanno”.




Così non aveva più represso la solita propensione per il male. Donnine allegre, innanzi tutto. Ma questo non fu il peggio: malignità, invidie, vanità stolte, amore sfrenato di se stesso, gusto per le sventure altrui.

 

Tanto, a Roma lo avrebbero purgato.

 

Ben presto però si sentì sazio, e giù nella profondità della coscienza – ne aveva ancora! – una voce mormorava mormorava. Forse ne aveva fatte troppe. Era tempo di andare, prima che si facesse tardi. Inoltre, era venuta primavera, la stagione più propizia, quando il paradiso non sembra poi così lontano.




Antonio partì in auto, pellegrino.

 

Giunse vicino a Roma ch’era da poco passato mezzogiorno. Si sentiva stanco, aveva voglia di dormire. Dormiva infatti tutta la terra intorno. A vista d’occhio non un’anima viva. Vuota la strada, coi tremuli miraggi sull’asfalto.

 

C’era la campagna, classica, le praterie solitarie, il sole, la pace meridiana, qua e là i morti ruderi, richiami di cicale, quella grandezza misteriosa. Antonio fermò la macchina, accese una sigaretta; scendendo il sonno su di lui, le dita si dischiusero, la sigaretta cadde. Si riscosse per una specie di turbinio nero sopra il capo.




Alzò gli occhi. Erano corvi, una decina.

 

Ce l’avevano con lui.

 

Coi becchi, lo afferrarono, sfilandolo di peso dal sedile, lo trascinarono via, in volo, sghignazzando. Sperò che fosse un sogno ma ben presto si trovò in cima a un antico muraglione diroccato. Intorno, appollaiati, due trecento corvi.

 

Che scherzo era mai quello?




Tentò di protestare ma come udì la propria voce, un brivido gli passò su per la schiena. Non era più la voce sua, parole e frasi umane.

 

“Craa craa”

 

gli usciva invece dalla bocca, suono di bestia.

 

Dalla bocca?

 

Dal becco, piuttosto.




E si guardò le mani; ma le mani egli non aveva più: due ali al loro posto. Si guardò i piedi: zampe. Un corvo, ecco cos’era. Allora Antonio Huber si ricordò di certe vecchie pergamene trovate nei conventi, gli tornarono in mente certe storie che raccontano di sera i contadini. Capì insomma che i corvi erano diavoli, messaggeri del Maligno appostati intorno a Roma per caccia di anime.

 

Infatti tra i mille e mille pellegrini c’è il povero peccatore di ogni giorno che cade e si rialza, c’è l’uomo buono e pio, c’è anche la creatura santa sopra il cui capo in circostanze favorevoli palpita una fosforescente aureola. Ma c’è pure – di quando in quando – il sepolcro imbiancato, l’ipocrita, il malvagio, carico di colpe nere e abbiette, il quale conta sul perdono così come l’artritico accartocciato dai reumi va a fare i fanghi chiedendo con prepotenza la salute.





 Vigilano quindi alle porte della Città Eterna drappelli di demoni, sanno leggere sulla fronte di chi passa, e piombano sull’empio.

 

‘Eh eh’

 

gracchiò beffardo il maggiore di quei corvi, probabilmente il capo,

 

‘eccolo il nostro bravo pellegrino!’

 

Al che ci fu una risata generale.




‘Roma è laggiù. Lo vedi il cupolone? Lo vedi bene?”

 

ghignò un altro.

 

E ancora:

 

‘Va’ che stai bene con l’abito nero. Tinte scure si adattano a chi va a fare penitenza. E tu che te ne andavi scamiciato!’.

 

 A quelle sacrileghe facezie, il dottor Huber singhiozzava, o meglio mandava a becco chiuso dei lamenti come fanno i corvi disperati.

 

‘Povero me’

 

…diceva

 

‘trasformato in uccello immondo. Maledetta la mia stolta presunzione. Eccomi rovinato!’.




 E guardando da lungi la sua splendida automobile che luccicava al sole, egli provava un grande dispiacere. Ma a che serviva più pentirsi? Era corvo, oramai, intruppato nella milizia dell’Inferno. Per sfogare in qualche modo la sua angoscia, Antonio si mise a sbattere le ali.

 

‘Sì, vola, vola!’

 

lo dileggiarono i corvi.

 

‘Vola vola mio bel cherubino! Corri a messa che sei già in ritardo!’

 

E lui volò.




Dapprima goffo e incerto, quindi via via più disinvolto. I diavoli, di sotto, facevano un chiasso sconcio, urlandogli motti innominabili. Però non gli impedirono di andarsene.

 

Era corvo, oramai; niente lo poteva più salvare.

 

La soddisfazione, nuova per lui, di sostenersi in aria, gli fu di conforto. Su su, a lenti colpi d’ala. Già la congrega dei diavoli, a picco sotto di lui, non era più che una macchiolina nera.

 

Libero!

 

Ma libero di che?




 Sì, poteva andarsene a spasso per il cielo, tornare alla sua città. E poi? Non sarebbe stato peggio trovarsi, corvo, nel giardino della paterna casa, veder dalle finestre la moglie, ancora inconsapevole, sedersi lietamente a tavola coi bimbi, e lui fuori, per sempre?

 

Stava così meditando quando l’occhio gli cadde sul campanile di una chiesa e la chiesa gli suggerì un’idea. Ma come, lui dottore in teologia, non ci aveva ancora pensato?

 

L’acqua santa!

 

L’acqua benedetta!




Era la cosa più semplice del mondo. Bastava un tuffo, un breve bagno, uno spruzzetto. E laggiù a Roma quanta ce n’era disponibile. Con tutte quelle chiese. La capitale dell’acqua santa, Roma; un lago, un oceano suddiviso in tante minuscole piscine, vasche, coppe, vasi di ogni genere.

 

Si consolò.

 

Ora volava placido sopra la città, gli uccelletti dei giardini, chissà perché, scappavano vedendolo arrivare. Non restava che un’operazione semplicissima: entrare in chiesa, tuffarsi in un bacile di acqua santa, di colpo sarebbe tornato uomo.

 

Strano, però: entrare nelle chiese risultò molto più complicato del previsto. I finestroni, in alto, quelli che davano sui tetti, li avevano sprangati tutti, benché fosse già piuttosto caldo.




 E quando lui tentava di entrare dalla porta, come i cristiani, immediatamente gli sbarravano il passo: c’era allora una grande agitazione, un agitar di drappi, un farsi segni della croce, un precipitoso invocar di Santi.

 

Il diavolo! Il diavolo!

 

Gridavano, quasi non avessero mai visto un corvo.

 

Insomma si sarebbe detto che a Roma quella storia dei corvi fosse nota. Non una parola sulla stampa, naturalmente, per non spaventare i pellegrini. I romani tuttavia sapevano; e tenevano gli occhi bene aperti. Se un corvo compariva in cielo, erano scongiuri, urla, petardi, frastuoni di bidoni.

 

Ma al giornalista americano, incuriosito, che domandava spiegazioni:

 

‘Niente’

 

rispondevano

 

‘vecchie usanze popolari’.




E quello registrava. Di chiesa in chiesa Antonio girò tutta quanta Roma, spingendosi sempre più nel centro. E alla sera ripiegava alla campagna, ivi trascorrendo le notti sulle erme rovine o, se pioveva, sotto le arcate degli imperatori.

 

Così passavano uno sull’altro i giorni.

 

Giunse l’autunno e Antonio finalmente si portò alla enorme cupola di San Pietro, speranza estrema. Stridevano le rondini al suo passaggio:

 

‘Corvaccio! Brutto corvo!’.


(Prosegue...)







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