CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

sabato 12 novembre 2022

LO STATO DI NECESSITA' (10)

 









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Lumache & Intonaci [11] 


& con l'osso che canta (12/3)







 [....di ciò cui rimasto... Leggiamo...] 

 

….Chase rimase a casa per sei mesi e con l’aiuto di uno scrittore fantasma, raccontò la storia dell’Essex in un libro intitolato The Narrative of the More Extraordinary and distressing Shipwreck of the Whale-Ship Essex:

 

(Resoconto del più straordinario e doloroso, NAUFRAGIO DELLA BALENIERA ESSEX di Nantucket, che fu attaccata e poi distrutta da un grande CAPODOGLIO, nell’Oceano Pacifico, con il resoconto delle sofferenze senza confronto del capitano, e dell’equipaggio durante gli interminabili giorni in mare aperto, negli anni di Nostro Signore 1819 – 1820, di Owen Chase, primo Ufficiale del suddetto vascello)

 




 Dalla metà di novembre alla metà di dicembre il vento si mantenne in direzione ovest, consentendoci di proseguire di un buon tratto, finché all’improvviso mutò corso nuovamente, frustando ogni nostra speranza.

 

Verso i primi giorni di dicembre mutò ancora verso ovest, poi d’improvviso nei giorni seguenti spirò verso est mantenendosi lieve e variabile fino al giorno.

 

Le nostre sofferenze sembravano giunte al termine; in breve tempo ci attendeva una morte terribile; la fame si fece violenta e atroce, e ci preparammo ad una rapida fine dei nostri patimenti; avevamo grandi difficoltà di parola e di ragionamento e ci consideravamo ormai gli uomini più disgraziati e reietti dell’intero genere umano.

 

Isaac Cole, un membro dell’equipaggio, sin dal giorno prima si era accasciato sul fondo della barca, in preda alla disperazione, attendendo, rassegnato, la morte.




Era evidente che per lui non c’erano più speranze; diceva di avere la mente ottenebrata, di essere assolutamente privo di aspettative, diceva di considerare pura follia il perdurare in una lotta contro quello che, ormai senza dubbio, pareva in nostro destino.

 

Lo redarguii per quanto mi consentissero le mie scarse forze fisiche e mentali; ciò che dissi sembrò fargli un grande effetto: compì un improvviso, immane sforzo per sollevarsi e strisciare fino al fiocco gridando con fermezza che non avrebbe mai ceduto alla rassegnazione, che sarebbe vissuto quanto tutti gli altri….

 

Ma, ahimé!

 

Lo sforzo non nasceva che da un delirio momentaneo che ben presto lo abbandonò in uno stato totale abbattimento.




Quel giorno la ragione gli si sconvolse e, intorno alle nove del mattino, egli diede in pietose manifestazioni di follia: parlava in modo incoerente di tutto, invocando acqua e un panno per asciugarsi di nuovo, istupidito, sul fondo della scialuppa, chiudendo negli occhi come morto.

 

Intorno alle dieci, ci accorgemmo che non parlava più; lo collocammo alla meglio su una tavola che mettemmo sui sedili della barca, quindi, dopo averlo coperto con qualche vecchio indumento lo abbandonammo al suo destino. Giacque in preda ad atroci sofferenze del corpo e dell’anima, lamentandosi pietosamente fino alle quattro, quando spirò tra le più orrende convulsioni che mai mi fu dato di vedere.

 

Tenemmo così la salma per l’intera notte, e il mattino seguente i miei due compagni si apprestavano a prepararlo per il mare, quando, dopo averci riflettuto per le lunghe ore notturne, li interrogai sulla dolorosa possibilità di tenere il corpo come cibo!




Le nostre provviste non potevano durare più di tre giorni ed era assai poco probabile che in quell’arco di tempo trovassimo modo di salvarci, prima che la fame ci costringesse a tirare a sorte tra noi.

La proposta fu accolta dall’unanime consenso e ci mettemmo subito al lavoro per salvaguardare il corpo dalla decomposizione…

 

Separammo gli arti dal tronco e spolpammo le ossa, poi aprimmo il torace e ne estraemmo il cuore, quindi lo richiudemmo, lo ricucimmo quanto meglio ci riuscì e lo gettammo in mare.




Iniziammo a soddisfare i nostri bisogni più immediati cibandoci del cuore, che divorammo con bramosia, quindi mangiammo alcuni brandelli di carne.

 

Sistemammo il resto, tagliato in sottili strisce, sulla barca, affinché si seccasse al sole; accendemmo un fuoco e ne arrostimmo una parte per il giorno appresso.

 

Questa fu la fine che riservammo al nostro compagno di sofferenze; il doloroso ricordo di questo gesto arreca ora alla mia mente alcune tra le idee più spiacevoli e rivoltanti che sia in grado di concepire.




Non sapevamo, allora, chi sarebbe stato il prossimo a subire quella sorte, di morire ucciso e divorato come quel povero infelice.

 

Ogni sentimento umano rabbrividisce di fronte ad un simile spettacolo. Non ho parole per esprimere il dolore delle nostre anime in quell’atroce circostanza.

 

La mattina seguente, scoprimmo che la carne si stava deteriorando e andava assumendo un colore verdastro, per quanto tutti gli sforzi nel mangiare quel cibo, la cosa ci indusse a decidere di cuocerla immediatamente per impedire che diventasse tanto putrida da non poter più essere consumata: così facemmo, preservandone l’edibilità per sei o sette giorni; in quel periodo non toccammo le provviste di pane, quello infatti non si sarebbe deteriorato e doveva costituire il nostro mezzo di sostentamento per gli ultimi momenti.




Intorno alle tre di quello stesso pomeriggio si levò una forte brezza da nord-ovest e avanzammo di un buon tratto, se si considera che procedevamo ormai con solo le vele: il vento si mantenne fino al 14 - 15, poi mutò corso nuovamente.

 

Riuscimmo a sopravvivere spartendoci con parsimonia piccoli lembi di carne da consumare con acqua salata.

 

Per il 14, i nostri corpi si erano tanto ripresi da consentirci di compiere alcuni tentativi di manovra ai remi; benché erano settimane che manovravamo, ma una nuova manovra, un movimento, poteva ristabilire le sorti; ci demmo il turno e riuscimmo a percorrere un buon tratto.

 

Il 15 la carne era terminata, e fummo costretti a tornare alle ultime forme di pane. Negli ultimi due giorni i nostri arti si erano gonfiati e dolevano terribilmente. Secondo i nostri calcoli, ci trovammo ancora a distanza di trecento miglia da terra con soli tre giorni di razionamento alimentari, ed un’unica scialuppa.

 

Qualcuno, non ricordo chi, propose di mangiare anche quella…




Furono proprio questi resoconti ad ispirare Herman Melville a scrivere il suo famoso romanzo Moby Dick. Herman Melville in seguito ipotizzò che sarebbero tutti sopravvissuti se avessero seguito la raccomandazione del Capitano Pollard di recarsi a Tahiti.

 

 ….La morale che il ‘doppio naufragio’ qui narrato contiene è che non sembrano ormai esistere morale, comprensione, indulgenza.

 

Meglio, dice semplicemente che si è andata costituendo una morale differente.




Lo ‘stato di necessità’, spesso ricollegabile a quello di ‘legittima difesa’, insegna infatti a guardare con sguardo diverso al corpo e ai beni materiali, alla ‘proprietà’. Mentre i beni materiali assurgono appunto al ruolo di legittima difesa, che concerne corpo e ricchezza, chi quei beni difende può anche uccidere, il corpo dell’altro, in ‘stato di necessità’, secondo una meccanica analoga, ma ribaltata, è degradato a merce di cui si può, si deve, per necessità, liberamente disporre, ad esempio consumandolo.

 

‘Ha in mano la pistola’ e sopravvive, nel racconto di Chase, colui che detiene il controllo delle razioni dell’acqua consumabili quotidianamente, colui che ha in mano i mezzi di sussistenza dei pochi sopravvissuti, colui cioè che ha in mano le vite degli altri.

 

Sopravvive infatti chi sa accettare l’osceno ed il mostruoso!

 

Sopravvive appunto chi, costretto a ‘guardare in faccia la morte’, in nome della vita anche nel dramma recitata ed esposta come nella precedente simmetria rilevata e rivelata, la sollecita sull’altro.

 

Sopravvive infine chi in nome del più ferreo patto sociale applica rigidamente le leggi stabilite.

 

Nella scialuppa di Pollard si tira a sorte per decidere chi dei quattro rimasti in vita offrirà la propria e il proprio corpo agli tre. Tutti e quattro, quando lo stringono - sembra una vera rappresentazione drammatica che forse neppure il dramma stesso in grado di rappresentare nel palcoscenico della vita -, sanno che quel patto è legato al caso: ‘si tira a sorte’.

 

Sopravvive, e la legge e la società che da quella legge è rappresentata lo protegge e lo assolve, chi, per necessità, uccide l’altro per vivere… 


[Prosegue con i MISERI RESTI...ovviamente DELL'UMANO PASTO...]    










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