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…Il tempo, il luogo,
la sostanza perdevano gli attributi che per noi ne costituiscono le frontiere;
la forma non era più che la scorza scheggiata della sostanza; la sostanza non
era il suo contrario; il tempo e l’eternità erano la stessa cosa, quale un’acqua
nera che coli in un’immutabile pozza d’acqua nera.
Zénon si inabissava
in siffatte visioni come un cristiano nella meditazione di Dio.
Anche le idee
scivolavano via.
L’atto di pensare adesso
lo interessava più dei dubbi prodotti del pensiero stesso. Si scrutava nell’atto
di pensare, come avrebbe potuto contare col dito sul polso i battiti dell’arteria
radiale o sotto le costole il va e vieni del proprio respiro. Tutta la vita s’era
stupito della facoltà che hanno le idee di agglomerarsi freddamente a guisa di
cristalli in strane figure vane, di crescere come tumori divoranti la carne che
li ha concepiti, ovvero di assumere mostruosamente certi lineamenti della
persona umana, come le masse inerti di cui si sgravano certe donne, e che altro
non sono se non materia che sogna. Molti prodotti della mente non erano essi
stessi che difformi aborti. Altre nozioni, più esatte e più nette, forgiate
come da un abile artiere, erano di quegli oggetti che illudono a distanza; non
ci si stancava mai di ammirarne gli angoli e le parallele; e nondimeno non
erano che le sbarre entro le quali l’intelletto rinserra se stesso, e la ruggine
del falso divorava già quegli astratti ferrami.
A momenti si
avvertiva un tremito come al limite di una trasmutazione: un po’ d’oro sembrava
nascere nel crogiolo del cervello umano; ma non s’approdava che a un’equivalenza;
come negli esperimenti truccati grazie ai quali gli alchimisti di corte si
sforzano di dimostrare ai loro principeschi clienti che qualcosa hanno trovato,
l’oro in fondo alla storta era, ecco tutto, quello d’un banale ducato passato
per le mani di tutti e che vi era stato messo dall’alchimista prima della
fusione.
Le nozioni morivano
al pari degli uomini: nel corso di mezzo secolo Zénon aveva visto varie
generazioni di idee cadere in polvere.
Si andava insinuando
in lui una metafora più fluida, frutto delle sue ormai lontane traversate marittime.
Il filosofo, che si sforzava di considerare l’intelletto umano nel suo insieme,
vedeva sotto di sé una massa assoggettata a curve calcolabili, striata di correnti
di cui si sarebbe potuto tracciare la mappa, scavata in solchi profondi per le
spinte dell’aria e la pesante inerzia delle acque. Accadeva, alle figure fatte
proprie dallo spirito, come alle grandi forme nate dall’acqua indifferenziata, che
si assaltano o si susseguono alla superficie dell’abisso; ogni concetto finiva
per afflosciarsi nel proprio contrario, come due marosi che si urtino e si annullino
in una sola e identica schiuma bianca.
Zénon guardava
fuggire quel fiotto disordinato che si portava via, quali relitti di un
naufragio, le poche verità sensibili di cui ci crediamo certi. A volte gli
sembrava di intravedere sotto il flusso una sostanza immobile, che sarebbe
stata rispetto alle idee ciò che queste sono rispetto alle parole. Ma nulla provava
che quel sostrato fosse lo spessore ultimo, che la fissità non nascondesse un movimento
troppo rapido per l’umano intelletto. Dacché aveva rinunciato a esporre a viva
voce il proprio pensiero o a consegnarlo per iscritto al banco dei librai,
quello svezzamento l’aveva indotto a calare più che mai a fondo nella ricerca
di puri concetti. Adesso, a pro di un esame più accurato, rinunciava temporaneamente
ai concetti stessi, tratteneva il pensiero, così come si trattiene il respiro,
per meglio udire il fragore di ruote turbinanti tanto rapidamente che non ci si
avvede che girano.
Dal mondo delle idee faceva
ritorno nel mondo più opaco della sostanza contenuta nella forma, e dalla forma
delimitata. Rincantucciato in camera sua, non consacrava più le proprie veglie
allo sforzo di acquisire più esatte nozioni dei rapporti tra le cose, bensì a
una non formulata meditazione sulla natura delle cose. In tal modo correggeva
quel vizio dell’intelletto che consiste nell’impossessarsi degli oggetti al
fine di servirsene, oppure nel rifiutarli, senza inoltrarsi a sufficienza nella
sostanza individuata di cui sono fatti. Così, l’acqua era stata per lui una
bevanda che disseta e un liquido che netta, parte costitutiva di un universo
creato dal demiurgo cristiano su cui l’aveva intrattenuto il canonico
Bartholommé Campanus parlando dello Spirito aleggiante sulle acque, l’elemento
essenziale dell’idraulica di Archimede o della fisica di Talete, o ancora il
segno alchemico di una delle forze che calano verso il basso. Aveva calcolato
spostamenti, misurato dosi, atteso che goccioline si condensassero nel cannello
degli alambicchi.
Adesso, rinunciando provvisoriamente
all’osservazione che dall’esterno distingue e individualizza a favore della visione
interna del filosofo ermetico, lasciava che l’acqua che è in ogni cosa invadesse
la stanza come l’inondazione del diluvio. Il baule e lo sgabello galleggiavano;
i muri crepavano sotto la pressione dell’acqua. Egli cedeva al flusso che sposa
tutte le forme e rifiuta di lasciarsi comprimere da esse; sperimentava il cambiamento
di stato della falda acquifera che si fa vapore e della pioggia che si fa neve;
faceva suoi l’immobilità momentanea del gelo o lo scivolare della goccia chiara
che inspiegabilmente obliqua sul vetro, fluida sfida alla scommessa dei
calcolatori.
Rinunciava alle
sensazioni di tepore e di freddo che sono legate al corpo; l’acqua lo rapiva,
cadavere, con la stessa indifferenza di un ciuffo d’alghe. Rientrato nella
propria carne, vi ritrovava l’elemento acquoreo, l’urina nella vescica, la
saliva alla commessura delle labbra, l’acqua presente nel liquido del sangue. Poi,
ricondotto all’elemento di cui si era sempre sentito particella, volgeva la
meditazione verso il fuoco, avvertiva in sé quel calore moderato e beato che abbiamo
in comune con le bestie che camminano e gli uccelli che solcano il cielo.
Pensava al fuoco
divorante delle febbri che tante volte s’era invano sforzato di spegnere.
Percepiva l’avido guizzare della fiamma nascente, la rossa gioia del braciere e
il suo finire in nere ceneri. Osando spingersi oltre, faceva tutt’uno con quell’implacabile
ardore che distrugge ciò che tocca; pensava ai roghi, come ne aveva visti in
occasione di un autodafé in una cittadina del Le¢n, quand’erano periti quattro
ebrei accusati di aver ipocritamente abbracciato la religione cristiana senza
peraltro cessare dal compiere i riti ereditati dai padri, più un eretico che
negava l’efficacia dei sacramenti. Si figurava quel dolore troppo atroce per l’umano
linguaggio; era l’uomo avente nelle narici l’odore della propria carne che
brucia; tossiva, avvolto da un fumo che non si sarebbe dissipato lui vivo. Vedeva
una gamba annerita scattare tesa, le articolazioni leccate dalla fiamma, come
un ramo che si contorca sotto la cappa d’un camino; e in pari tempo si
compenetrava dell’idea che il fuoco e il legno sono innocenti.
Si rammentava, il giorno
successivo all’autodafé celebrato ad Astorga, di essersi aggirato col vecchio
monaco alchimista don Blas de Vela sull’area calcinata che gli ricordava quella
dei carbonai; il dotto giacobita si era chinato a raccogliere con cura, tra i
tizzoni spenti, ossicini leggeri e sbianchiti, cercando tra loro il luz della tradizione ebraica che resiste
alle fiamme e funge da seme della resurrezione. Altre volte aveva sorriso di codeste
superstizioni da cabalista. Madido d’angoscia, levava il capo e, se la notte
era abbastanza chiara, scrutava attraverso i vetri, con una sorta di gelido amore,
i fuochi inaccessibili degli astri. Qualunque cosa facesse, la meditazione lo riconduceva
al corpo, suo principale oggetto di studio. Sapeva che il suo bagaglio di medico
era composto in parti eguali di abilità manuale e di ricette empiriche,
integrate da trovate del pari sperimentali che conducevano a loro volta a
conclusioni teoriche sempre provvisorie: un’oncia di osservazione ragionata valeva,
in quelle materie, più di una tonnellata di sogni. E tuttavia, dopo tanti anni passati
a notomizzare la macchina umana, non si perdonava di non essersi avventurato
con maggiore audacia nella esplorazione del reame dalle frontiere di pelle, di
cui ci crediamo i principi e nel quale siamo prigionieri…
Leggo alcuni appunti
dell’Eretico Filosofo…:
“Ora in
questa specifica condizione poniamo e formuliamo una probabile per quanto
Eretica ma non certo ‘verità’ storica accertata, solo supposta nel vasto
universo delle ipotesi, in quanto come sappiamo, e più volte detto, la Memoria
difetta nella gravità specifica del Tempo e della materia di cui innumerevoli
inquisizioni regimi disquisizioni e controversie nati e di taluni postumi fatti
accertati o solo dedotti fors’anche tradotti da atroci e pur palesi sospetti… E
della cui ‘vista’ abbisogniamo nella cronologia dei ‘documenti’ conservati per
meglio illuminarli alla propria specificità cui la luce della vita (onda e
particella) li ha condannati ‘colorati’ e destinati improrogabilmente al rogo.
Quindi la comprensione prestata alla ‘deduzione’ della vista - come il Cusano
di cui diremo - necessitiamo per ‘indagare’ quel ‘Dio nascosto’ o ‘Straniero’ che
per taluni potrebbe essere solo un gene della Memoria stratificata e
dimenticata nella quale possiamo e sappiamo, per l’appunto, decifrare e parlare
lingue e con esse intuizioni perse e smarrite, o ancor peggio, barattate per
altre supposte verità all’altare di un nuovo Dio.
Quindi farsi Dio e capire per meglio decifrare il suo
segreto intento, significa, ereticamente parlando, non scaldarsi al calore
della materia nell’‘Albergo’ della vita o chiesa che sia, ma al contrario, esiliarsi
al freddo della contemplazione di angeli e Spiriti mai morti i quali ci
conferiscono quel calore proprio nel quale possiamo, come loro, resuscitare lo
Spirito e con esso un più probabile Dio. E come lui, non al caldo del calore
donde dicono ed interpretano con la parola la vita nata, ma al contrario, al
freddo di una ‘prima simmetria’, scorgere un intero Universo il quale
attraverso l’Autunno conferisce l’illusione di smarrire la linfa principio di
questa mentre il tronco e la radice riposano ad infinito ‘suo’ principio ed
Elemento.
E questa di certo è pur sempre estensiva interpretazione di
ciò che al medesimo confino fu enunciato dal vescovo Cusano nel lontano Quindicesimo
secolo, ma per tale intento per medesima doppia vista i colori dobbiamo
cronologicamente ricomporre alla stessa anche nella ‘casualità’ di cui la
fisica specifica l’impossibilità del fotone della propria natura nel salto
quantico di cui la materia… E noi nell’eterna incertezza ed impossibilità di
intuirne verità e conseguente certezza spaziare nella teoria conferendo alla
memoria probabile e ‘duale’ verità storica nel momento in cui, come appena
enunciato, con l’intuito dell’osservazione interferiamo nella specifica Natura
di un più probabile Dio ‘Straniero’ [Straniero ‘dualmente’ interpretato dalla
stessa Memoria il quale lo ha composto Primo principio del bene, e
successivamente ridotto, nella cronologia dei fatti conservati, Secondo
inferiore quale essenza del male] per taluni, ‘nascosto’ per altri [ancora e lo
ripeto nel ‘duale’ senso ed aspetto che il singolo termine ci riserva nelle
scritture eretiche e non… sicché il Cusano forse al meglio ha posto il termine
detto non rischiando l’uno e l’altro aspetto, i quali, per paradosso,
contraddicono le specifiche e proprie premesse e nature storiche circa
l’Eretica consistenza di questo] manifesto in Infinito aspetto rilevato e
rivelato, disquisendo sul probabile ‘paradosso’… nominato Dio al confino cui posto
e costretto nella geografia divenuta ‘ragione’ ‘regione’ e ‘stato’ della
Memoria… rilevata nel difetto della rivelata e corretta sua interpretazione.
Cui taluni per propria intuizione approdati nella vastità di quel ‘Nulla’ di
cui per opposta circoscritta e disgiunta ortodossia fedeli alla propria
dimensione conferiscono reciproca corrispondenza negli opposti interpretativi
di cui, e lo ripeto, l’‘osservazione’ divenuta ingerenza modifica la stessa.
Quindi non possiamo che dar ragione a quell’Eckhart che
forse fu l’eretico per eccellenza, perché, e son sicuro di questa teoria, intuì
la verità ed il limite cui costretta… l’Eresia letta… nella ‘casualità’ degli
eventi di cui accenneremo breve consistenza cronologica pur assenti dalla
Memoria quale ‘prova accertata’ nasce l’atroce e conseguente dubbio di cui
forniremo eretica deduzione logica. Come la luce la qual compone la vista del
singolo fotone nella ‘dualità’ della propria natura divisa, per l’appunto, fra
un onda ed una particella… e noi simmetricamente divisi ed uniti nel dubbio
della sua vera essenza e consistenza… Sicché l’‘ortodosso’ diviene per opposto
verso Eretico della propria scienza, e come abbiamo già espresso nel limite di
ogni scienza vi è una metafisica condizione la quale disvela e rivela…
rimuovendo e ponendo invisibile velo nella dimensione di cui la fisica
impossibilitata, a differenza in questi opposti accertati, chi di eresia
trattava ma in verità l’ortodosso verbo ripone nella propria ed altrui bisaccia
spacciandolo per interpretazione avversa, giacché questa condizione la possiamo
riconoscere nell’opposto così componiamo la vista ed i colori… dell’enunciato
annunciato...
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