Precedenti capitoli:
Siamo tutti dei 'poveri' cretini (30/1)
Prosegue in:
La 'Governante' rossa (33)
La grande Notizia...
Non mi dilungo sul sottile sarcasmo antico da
quando Barbone odiato dall’intero Impero, ma il Costanzo il nuovo Costanzo di
cotal Regime va apostrofato ed additato per ciò che si compone la Storia e con
essa la Memoria. Andando al solitario mio cammino ho incontrato in questa alta
Terra del Nord non ancora Caucaso la Governante di Hitler, la vera patria donde
Ragione e Pensiero raggiungono l’indomita malata vetta giacché si accompagna
sempre allo sterco nominato cemento del fido compare Silvio e con lui il Buffone
di corte. Così apostrofare questa brigata dalla fiera penna accompagnata
appartiene al dovere di ogni Retto e Giusto Filosofo, non mi dilungo su penosi
commenti circa i padani ad alta quota adunati e convenuti li abdico alla satira
d’un sarcasmo antico giacché la cultura giammai si accompagna a codeste camicie…
scusate che dico… governanti del nuovo Regime rimembrate… Un ultima cosa! A proposito dell’apparato
iconografico a colori che accompagna cotal post, ebbene pur vero l’Anima reincarnata
- se li osservate attentamente - infatti… direste e giurereste di averli visti
uno ad uno su per i loro Sentieri e Rifugi accompagnati dall’odio antico…
Chi ha ucciso Adolf Hitler?
La risposta la troverete in queste pagine…
Le circostanze della sua morte sono state oggetto di accese controversie
fin dal 1945, ma io conosco la verità.
Perché io c’ero.
Oggi sono una vecchia vedova senza figli che vive da sola in una casa
colma di ricordi amari come la cenere. I tigli in primavera e i laghi azzurri
d’estate non mi danno più alcuna gioia. Io, Magda Ritter, ero una delle quindici
donne che assaggiavano il cibo di Hitler, ossessionato dal timore di essere
avvelenato dagli Alleati o da qualche traditore. Dopo la guerra soltanto mio marito
sapeva quello che avevo fatto. Non lo dissi a nessuno, non potevo farlo. Ma i
segreti che avevo serbato così a lungo dovevano essere liberati dalla loro
prigione interiore. Non mi resta ancora molto da vivere.
Conoscevo Hitler. (1*)
Lo guardavo camminare nelle sale del suo ritiro in montagna, il
Berghof, e lo seguivo nel labirinto della Tana del Lupo, il suo quartier
generale nella Prussia orientale. E gli ero accanto l’ultimo giorno, nelle
profondità tombali del suo bunker a Berlino. Spesso, quando era circondato da una
corte di ammiratori, la sua testa oscillava come una boa sul mare.
Perché nessuno aveva ucciso Hitler prima che morisse in quel bunker?
Uno scherzo del destino?
La sua sorprendente capacità di schivare la morte?
Molti complotti per ucciderlo erano falliti. Uno soltanto era riuscito
a ferire il Führer. Ma quell’attentato non fece altro che rafforzare la sua
fiducia nella provvidenza e nel suo diritto divino a governare.
Il mio primo ricordo di lui fu a un raduno del partito nel 1932, a Berlino.
All’epoca avevo quindici anni. Lui era su un palco di legno e parlava a una
piccola folla che si ingrossò di minuto in minuto appena si sparse la voce
della sua presenza a Potsdamer Platz. Le sue parole esplodevano nell’aria sotto
la pioggia che si riversava dal grigio cielo novembrino, infiammando gli animi
contro i nemici del popolo tedesco. Ogni volta che si batteva il pugno sul
petto, un brivido percorreva la folla. Indossava un’uniforme marrone con una cintura
di cuoio nero che gli attraversava il petto. Al braccio sinistro, una fascia
rossa con la svastica nera su sfondo bianco. Una pistola gli pendeva dal
fianco. Non era particolarmente bello, ma nel suo sguardo c’era qualcosa di magnetico.
Correva voce che ambisse a divenire un architetto o un artista, ma io pensavo
che avrebbe avuto più successo come narratore, se soltanto avesse lasciato che
la sua immaginazione si esprimesse con le parole anziché con l’odio.
Ipnotizzò una nazione, scatenando euforiche rivolte tra coloro che credevano
nel radioso nuovo ordine del nazionalsocialismo. Ma non tutti noi lo veneravamo
come il salvatore della Germania. Di certo non tutti i ‘bravi tedeschi’.
La mia nazione si è macchiata della colpa di avere avuto il più celebre
dittatore che il mondo abbia mai conosciuto. Da morto Hitler ha trovato altrettanti
seguaci che da vivo. Il suoi cultori sono affascinati dall’orrore e dalla
distruzione che ha seminato nel mondo come un demone. Che si tratti di fanatici
adoratori del Führer o di studenti di psicologia che si chiedono come un uomo
possa essere così malvagio, il risultato è lo stesso: hanno aiutato Hitler a
raggiungere quell’immortalità cui tanto ambiva. Mi sono battuta contro le
orribili azioni perpetrate dal Terzo Reich e il singolare ruolo affidatomi
dalla Storia.
La mia vicenda deve essere raccontata.
A volte la verità mi opprime e mi spaventa, come cadere in un pozzo
senza fondo. Ma nel corso degli anni ho appreso molte cose su me stessa e
sull’umanità. E sulla crudeltà degli uomini che creano delle leggi per
raggiungere i loro obiettivi. La vita mi ha punita e il mio sonno è popolato da
incubi. Non c’è via di scampo dagli orrori del passato. Forse chi leggerà la
mia storia non mi giudicherà così severamente come mi sono giudicata io.
(1*) La sala riunioni si trovava in un edificio vicino al bunker di Hitler,
un settore dove non ero mai andata. Erano già le dieci passate. Superai i
nostri alloggiamenti e mi diressi a nord. Dopo qualche minuto mi apparve
davanti una guardia. Era più anziana delle altre e mi guardò come un insegnante
che accoglie un nuovo studente anziché come una potenziale minaccia. Ai suoi
piedi era accucciato un pastore tedesco nero. Gli occhi scuri del cane
seguivano ogni mio movimento. La guardia mi chiese i documenti e mi domandò
cosa stessi facendo in quel settore. Mentii dicendogli che dovevo consegnare un
messaggio della cuoca al capitano Weber, una storia plausibile visti i rapporti
di Karl con il personale della cucina.
La SS non obiettò nulla e mi lasciò passare.
La vegetazione lì era più fitta e ai lati del sentiero non si vedeva niente.
Dopo una curva scorsi un enorme bunker di cemento che doveva essere quello di
Hitler. Sopra una piccola porta era appesa una lanterna. Mentre avanzavo, dalla
foresta emersero altri edifici, come una nave che spunta dalla nebbia. Mi fermai,
incerta su quale direzione prendere. Dovetti dare l’impressione di essermi
persa perché una voce stentorea mi chiamò e disse:
‘Hai smarrito la strada, figliola?’.
Il cuore mi balzò in gola e trattenni il respiro mentre il Führer emergeva
dal bosco come un’apparizione. Indossava pantaloni neri e una giacca
doppiopetto marrone con una medaglia appuntata sul bavero sinistro e un
berretto militare con una fascia rossa. Blondi, il suo pastore tedesco, gli zampettava
accanto con la lingua penzoloni. La mia espressione dovette tradire la
sorpresa. I suoi occhi catturarono i miei. Il suo sguardo aveva qualcosa di
ipnotico. Mi studiò, come se stesse valutando se valesse la pena rivolgermi la
parola. Alla fine mi chiese come mi chiamavo e io gli risposi.
‘E cosa fai qui?’,
…mi domandò avvicinandosi.
Indietreggiai e feci il saluto nazista.
‘Sono un’assaggiatrice e contabile nella sua cucina’.
Lui ignorò la risposta e ordinò a Blondi di accucciarsi.
‘Mi proteggi da chi vuole avvelenarmi. Al Berghof c’è stato un
increscioso incidente. C’eri anche tu?’
‘Sì’.
Il Führer mi si avvicinò zoppicando leggermente e mi porse la mano.
Blondi si sedette ubbidiente ai suoi piedi e cercò di annusarmi le gambe. Un
lampo attraversò gli occhi di Hitler.
‘Sei l’assaggiatrice che è stata avvelenata da Otto?’
‘Sì’,
..risposi irrigidendomi.
‘Il suo piccolo test mi ha costretta a letto per parecchi giorni. La
cuoca era molto irritata da tutta questa storia e dal tempo che mi ha fatto perdere
al lavoro’.
‘Gli ordinerò di non farlo più’.
Un alito di brezza agitò i rami e la lanterna illuminò per qualche
istante il suo viso.
‘Da dove vieni?’,
…mi chiese ritraendosi nell’ombra.
‘Da Berlino, mio Führer’.
La sua domanda e la mia risposta segnarono l’avvio di una conversazione
sulla città. Hitler mi parlò dei suoi progetti per la capitale, che avrebbe
affidato a Martin Speer, e mi confessò che preferiva Monaco e l’Obersalzberg a Berlino.
Lanciai un’occhiata all’orologio. Erano quasi le dieci e mezza. Hitler si
accorse della mia preoccupazione e disse:
‘Blondi sta morendo dalla voglia di finire la sua passeggiata. Perché
sei venuta qui?’.
Ripetei la storia che avevo raccontato alla guardia.
‘Ho un messaggio della cuoca per il capitano Weber’.
‘Oh, Weber. Dovrebbe essere nella sala riunioni insieme agli altri ufficiali.
Lo troverai là’,
…rispose indicando un edificio basso con le finestre.
‘Grazie, mio Führer’,
…dissi salutandolo di nuovo.
‘Ti aspetto per un tè con Weber uno di questi giorni’,
…disse tirando il guinzaglio di Blondi e incamminandosi verso quello
che immaginavo fosse il suo bunker.
Con il cuore che mi martellava nel petto, mi diressi verso la sala riunioni.
Mentre mi avvicinavo a un gruppo di ufficiali che sostavano davanti alla porta
mi sentii invadere da una strana sensazione. Hitler mi era sembrato così
normale, come un nonno benevolo. Com’era possibile che quell’uomo avesse
ordinato lo sterminio di migliaia di uomini, donne e bambini innocenti di cui
mi aveva parlato Karl?
Non aveva per nulla l’aria di un demone.
Scacciai dalla mente quei pensieri.
Karl doveva avere ragione. Gli avevo dato la mia fiducia e il mio
cuore. Mentre mi avvicinavo al gruppo degli ufficiali un’altra SS con un cane
mi fermò. Mostrai di nuovo i documenti e gli spiegai perché ero lì. Invece di
lasciarmi proseguire, la guardia si rivolse agli ufficiali e chiese del
capitano Weber. Uno di loro entrò nell’edificio e qualche minuto più tardi
riapparve insieme a Karl, che lo ringraziò e avanzò verso di me senza tradire
alcuna emozione.
‘Che cosa ci fai qui?’,
…mi sussurrò stizzito.
‘Ti ha forse dato di volta il cervello? Perché hai corso un simile
rischio?’.
Guardai gli ufficiali alle sue spalle. Nessuno sembrava interessato
alla nostra conversazione.
‘Minna, una delle assaggiatrici con cui lavoro, ieri notte ci ha
sentiti e ha minacciato di dirlo a Dora Schiffer. Se lo farà, saremo finiti’.
Karl sbiancò in volto e si torse nervosamente le mani.
‘Che cosa ha sentito?’,
…chiese.
‘Troppo. Le ho detto che stavamo parlando degli Alleati, ma non penso mi
abbia creduto’.
Karl corrugò la fronte e si mise a camminare in cerchio.
‘Maledizione, e adesso cosa faremo?’,
…si domandò.
‘Non preoccuparti, so esattamente cosa fare’.
Lui si fermò e mi fissò con uno sguardo assente.
‘Dammi tempo fino all’una di questo pomeriggio e il problema sarà
risolto’.
Karl scosse la testa.
‘Non devi fare nulla di affrettato. Promettimelo’.
‘Ho appena incontrato il Führer’.
Lui strabuzzò gli occhi.
‘È proprio il tipo di complicazione che voglio evitare. E cosa ti ha
detto?’.
‘Ha voluto sapere chi sono e
cosa facevo qui. È stata una conversazione piacevole. Lui sa di noi… Qualcuno
deve averglielo detto, forse Eva o la cuoca’.
‘Promettimi che non… Abbiamo parlato troppo. Non correre rischi inutili’,
disse voltandosi verso gli ufficiali. Ma mentre si allontanava, capii che nulla
avrebbe potuto distogliermi dal mio piano.
Dopo un altro posto di controllo delle SS raggiunsi finalmente la mensa
e la cucina. Else, china su un tavolo, aveva già assaggiato le portate della
colazione. Le altre assaggiatrici erano impegnate con il pranzo, che sarebbe
stato servito al Führer e ai suoi invitati a metà pomeriggio. Da quando ero
stata temporaneamente dispensata dal mio compito di assaggiatrice, io ed Else non
avevamo parlato molto, ma immaginavo odiasse ancora il suo lavoro e si sentisse
soffocare sotto l’ala protettrice di Minna. La salutai e lei mi rispose con un sorriso.
‘Vorrei parlarti’,
mi disse.
‘Davvero? E perché?’.
‘Non ne posso più di questo lavoro’,
fece lei, stringendosi la gola.
‘Non sopporto più la tensione di non sapere se quello che sto mangiando…’.
‘È avvelenato?’,
…conclusi al posto suo.
Nessun commento:
Posta un commento