Precedenti capitoli:
Tutti (noi Perfetti) morimmo a stento con solo la voce del silenzio (25/1) &
I Viaggi dell'Anima (20/9)
Prosegue in:
Il palcoscenico della vita (22/11)
La necrofolia moderna…
Il credo nella materia è una fede nella morte. Il trionfo di questa
forma religiosa è una macabra aberrazione. La macchina attribuisce alla
sostanza inerte una realtà vitale illusoria.
Anima la materia.
E’ uno spettro.
Collega fra loro gli elementi manifestando una certa ragione. Dunque è
la morte che, con un lavoro sistematico, simula la vita. Mente in maniera
ancor più flagrante dei giornali, che lei stessa provvede a stampare. Poi
distrugge il ritmo umano con un’azione ininterrotta del subconscio. Chi resiste
tutta la vita accanto a questa macchina dev’essere un eroe; chiunque altro ne
sarà annichilito. Da chi ne è soggiogato non può più venire alcuna emozione
spontanea. Neppure attraversare un penitenziario riesce ad essere spaventoso
quanto percorre i padiglioni assordanti di una moderna stamperia (o una piccola
ed inetta filiale…).
Rumori animaleschi, liquidi maleodoranti, tutti i sensi orientali al
bestiale, al mostruoso, che è al tempo stesso fantomatico.
Dar forma, partendo dal mondo spirituale, ad un organismo vivo, capace
di reagire alla pressione più lieve!
…In città… sono stato una volta studente…
E’ un periodo della vita, in cui non si sa mai che cosa fare di
preciso, quindi sono andato a vedere i quadri di Holbein e Bocklin, mi sono
arrampicato su per gli archi delle torre del duomo e ho fatto tappa anche
davanti a tre piccoli banchi vuoti, dove il giovane professor Nitzsche di
Namburg ha dissertato sui greci. Allora per me ‘la città’ era quella degli
umanisti. Stavolta rischia di diventare la città dei beccamorti, delle
stravaganze della fiera e delle anomalie, perché ho l’impressione di essere
diventato una curiosità di fronte a me stesso, qualcosa di strampalato, un
becchino.
Se devo prestar fede a quel che dice chi mi sta accanto, questa città è
la scopa morale e, per così dire, l’occhio vigile di Argo sulla Svizzera. Chi
si azzardasse a prender dimora qui anche solo per scherzo, senza dichiarare chi
erano la madre e la nonna e le antenate fino alla sesta generazione, avrebbe
qualche sorpresa non proprio piacevole.
Chi alla domanda imbarazzante su quale sia la sua professione su questa
terra, fosse colto da un tic nervoso, pur subito smorzato, si troverebbe, senza
tanti complimenti, oltrefrontiera nel giro di ventiquattr’ore e da lì rispedito
dov’è domiciliata la sua glossolalia.
…Basilea (e sue consimili sparse per ogni dove… dall’uno all’altro
oceano…) non ha un senso per l’immacolata concezione e neppure per chi ha
qualche titubanza nel parlare. Se qualcuno ha un peso nel cuore o sulla
coscienza, che poi è lo stesso, suona il tamburo per farsi capire. Se l’idea
che ha del mondo gli procura qualche pena, suona il tamburo un po’ più forte.
Ma quando riscontra un turbamento più serio, tale da far sospettare una
menomazione, batte così forte che gli devono ingessare le braccia.
Solo una volta si suona l’adunata generale.
La cittadinanza si raccoglie al gran completo.
Si smaltiscono d’un colpo le energie accumulate, senza badare a rango,
posizione sociale e decoro, in rullii, vibrazioni e molteplici cadenze. E’ una
vera orgia di rumori assordanti, in un giorno che vede le più svariate e severe
penitenze e preghiere.
Vengono a galla convulsioni inaspettate.
Tutto quel ch’è sommerso e nascosto si riversa all’estremo appello del
tamburo. Si commemorano amici e familiari defunti; un ricordo va anche alle
gioie di questo mondo e, in una prospettiva più ampia, alle esecuzioni,
fucilazioni, battaglie storicamente documentate e a tutto quel che v’è di
militare. Si ricordano tutte le ordinanze dei magistrati, le carestie, le
catastrofi causate da inondazioni e incendi, le pestilenze e i taglieggiamenti.
In una parola, si rievocano le istituzioni e i fatti luttuosi di questa oscura
esistenza, per scacciarli dall’anima a colpi di… tamburo…
Qui praticamente tutti portano il tamburo come amuleto al collo o
ciondolo per catenina dell’orologio. E’ il ventre del tempo, che fa sentire i
suoi astiosi brontolii, è la chiamata alle armi di intere generazioni. Dopo
ogni esibizione, ci sono dodici mesi di tempo per escogitare una variante del
tremolo, perciò chiunque fa il guardiano dello strepito altrui e lo sfida con
il timballo. E si può dire che, in certi periodi, le grinze sulla fronte
assumono tali dimensioni che al Giudizio universale uno di Basilea, provocando,
con il tamburo, brividi d’orrore, quali non si sono proprio mai visti,
trascinerà tutti gli altri nell’Orco più tenebroso.
Il frastuono del tamburo ti distrugge…
Se preso per allarme o sveglia, come s’usa nelle caserme, richiama la
resurrezione dei morti. Forse è il caso che mi chieda (come quel viaggiatore…)
che ci faccio qui con questi… E’ come fosse la città più tetra dell’intera
Germania.
Qui non mi posso aspettare nulla di buono!
Sono arrivato con il mal d’ossa come fossi sceso da un albero ed i
reumatismi con dolori lancinanti come coltellate infilate sulla schiena…
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