CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

domenica 3 maggio 2020

L'ULTIMO VIAGGIO



















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Natura (che Anima!)

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Seconda parte (DELL'ULTIMO VIAGGIO)













Roald Amundsen e Umberto Nobile erano tanto diversi quanto lo sono il giorno e la notte. Il primo era uno scandinavo riservato, chiuso; aveva già raggiunto entrambi i Poli, non aveva famiglia e preferiva evitare la mondanità e gli affetti personali. L’altro era un italiano allegro e strafottente un po’ come tutti gli italiani, che aveva progettato la prima aeronave ad aver mai raggiunto il Polo Nord. Tenuto in grande considerazione dal partito fascista italiano, aveva l’abitudine di portare con sé la sua cagnetta, una fox terrier di nome Titina, anche nelle imprese più rischiose. Alcuni dicono che prestasse molta attenzione all’umore e al comportamento dell’animale prima della partenza. Nondimeno, vi era una caratteristica che Amundsen e Nobile avevano in comune — entrambi erano grandi sognatori.

I due si incontrarono per la prima volta a Oslo nel luglio 1925, Amundsen aveva invitato l’ingegnere italiano in Norvegia, per proporgli di svolgere insieme una spedizione transartica a bordo del dirigibile N-1, che fu poi ribattezzato Norge. Amundsen garantì che l’Aeroclub di Norvegia avrebbe acquistato l’aeronave e si sarebbe fatto carico di tutte le altre spese. Gli italiani avrebbero provveduto al dirigibile e al suo comandante.   


                

Una delle più grandi operazioni di ricerca nell’Artico di tutti i tempi si era conclusa. E, senza essere mai  veramente cominciata, si chiudeva anche la ricerca dei sei italiani volati via con quel che restava del dirigibile Italia. Era impressionante che venisse dichiarato così apertamente, ed era incomprensibile per chi aveva seguito le operazioni da vicino. Era come se, ancor prima di fare un vero tentativo di localizzarli, i sei fossero già stati dati per morti.

Il destino del gruppo rimasto sul pallone era appeso al filo sottile di quel che si sapeva sulla sua presunta posizione, calcolata in base a quella dell’accampamento di Nobile. La loro vita era in mano al comando del rompighiaccio russo. I tre responsabili della spedizione a bordo del Krassin furono molto offesi, per non dire feriti, dal recupero fulmineo dell’alpino Sora e del conducente di slitte Van Dongen da parte degli svedesi a Foynøya.




La spedizione del Norge restava, quindi, un’iniziativa e una impresa norvegese, anche se era stabilito che tutta la parte aeronautica sarebbe stata preparata in Italia sotto l’esclusiva iniziativa, direzione e responsabilità di Nobile. Nobile fu decisamente lusingato di ricevere una proposta del genere da parte del grande esploratore polare; una stretta di mano suggellò l’accordo. Amundsen, un pioniere ambizioso, non resisteva all’idea di poter mettere fine all’antico dibattito sul fatto che la calotta polare celasse o meno un continente; per questo motivo, continuò a spronare il suo partner italiano. La spedizione mosse verso il Polo Nord il 10 aprile 1926.

In un primo tempo, Amundsen trovò a dir poco oltraggiosa la presenza di un cane a bordo. Alla fine dovette piegarsi al capriccio del suo compagno di viaggio, ma non poté trattenersi dal buttar giù una nota sarcastica nel suo diario: “Le cotolette di cane saranno squisite”. Amundsen si considerava non solo come il capo spedizione, ma anche come il padrone della situazione in generale. In conclusione, però, le sue grandi aspettative restarono deluse: al posto di un misterioso continente, egli vide sotto di sé solo vaste distese d’acque scure e banchi di ghiaccio.

Nel frattempo, il viaggio stesso aveva costituito un’impresa clamorosa. Il Norge aveva volato per 171 ore, di cui 72 attraverso l’Oceano Artico. Era stato così effettuato il primo volo transpolare della storia, dalle Svalbard fino in Alaska. Fu un record assoluto nella storia dell’aeronautica. Quando la spedizione si concluse, il comandante Nobile ebbe tutto il plauso, mentre Amundsen finì col trovarsi ad essere solo un eminente passeggero.




Tre aerei, gli Hansa e lo Junkers finlandese Turku, partirono la sera del 13 luglio, atterrarono in un largo canale navigabile sul lato orientale dell’isola e presero a bordo i due uomini. Il ritorno non fu altrettanto agevole. Dapprima l’aereo finlandese ebbe un problema al motore e poi, quando finalmente si riuscì a ripararlo, il canale si era di nuovo chiuso tutt’intorno. Qualche ora dopo le condizioni migliorarono e poterono decollare. Sulla spiaggia rimasero i due cani sopravvissuti al viaggio – eroico ma anche un po’ incauto – di Sora e Van Dongen. I piloti viaggiarono in una nebbia fitta fino al Murchisonfjord e atterrarono verso le due di notte.

La gioia degli svedesi per la riuscita dell’azione fu enorme. Pur essendo in lutto per la perdita di Malmgren, almeno il loro generoso contributo di due navi, sette aerei e quindici uomini non era stato vano. Avevano portato a termine con successo ben due operazioni di soccorso, tre se si contava anche il recupero di Lundborg da parte di Schyberg.

Sul Krassin l’atmosfera non era altrettanto festosa. Si discuteva il fatto che era stato il pilota Čuchnovskij ad avvistare per primo i due uomini in cima a Foynøya, dunque l’onore di salvarli sarebbe dovuto spettare ai russi. Agli occhi dei giornalisti stranieri che avevano avuto la fortuna di potersi imbarcare sulle navi della spedizione – tra cui il cineoperatore americano John Dored della Paramount News – si trattava dell’ennesimo esempio della scarsa collaborazione tra le nazioni durante tutta la missione di soccorso.

Dopo aver recuperato Čuchnovskij a Capo Platen con il suo equipaggio e lo Junkers danneggiato, Samojlovič propose di proseguire verso est in cerca del pallone. Contattò dunque il comandante Romagna Manoja, a bordo del Città di Milano, chiedendogli di inviare uno dei suoi idrovolanti per aiutarli: il pallone non poteva essere tanto distante dalla posizione in cui era stato tratto in salvo il gruppo della tenda, ma lo Junkers russo era troppo danneggiato per essere riparato a bordo. Il comandante italiano respinse la richiesta spiegando, con una serie di scuse, che nessuno dei suoi aerei poteva muoversi.




Ispirato dal successo del Norge, su cui la stampa mondiale e le autorità italiane avevano riversato enormi lodi (Mussolini lo aveva persino promosso al grado di Generale), Nobile aveva deciso di continuare a costruire sul risultato e aveva iniziato a elaborare piani per un secondo volo verso il Polo Nord, da effettuare con un nuovo dirigibile, l’N-4. Com’era logico attendersi, esso fu chiamato Italia.

L’Italia era pronto a entrare in azione nella primavera 1928. Papa Pio XI benedisse l’impresa. Egli consegnò a Nobile una grande croce di quercia perché la portasse al Polo Nord. “E come tutte le croci”, avvertì il Papa, “sarà pesante da portare”.

La spedizione partì da Milano il 15 aprile 1928. Nobile, per la prima volta, ignorò un presagio di Titina. L’amata cagnetta resistette all’imbarco con tutte le sue forze, così l’esploratore dovette prenderla in braccio per portarla a bordo.

L’Italia prima di partire dal campo di Milano (Baggio)

Il viaggio dell’Italia iniziò male fin dalle primissime ore. Danneggiatosi nell’attraversare una tempesta sui Carpazi, il dirigibile dovette fare scalo a Stolp, località allora in Germania (l’odierna Slupsk, in Polonia). A causa delle riparazioni e del ritardo di arrivo della “Città di Milano” — la nave appoggio cui era demandato il contatto radio — l’Italia ripartì solo il 3 maggio. Anche l’ormeggio in Finlandia dovette essere effettuato con il cattivo tempo. Fortunatamente, tutto andò bene.

Sorvolando Stoccolma, l’Italia discese alla quota minima possibile, per consentire a uno dei membri dell’equipaggio, Finn Malmgren, di lasciar cadere un biglietto indirizzato a sua madre.




Samojlovič non si arrese e mandò una richiesta analoga al capo della missione svedese Tornberg. Poco dopo arrivò un rifiuto anche da lì: la spedizione svedese doveva lasciare le Svalbard al più presto, gli aerei dovevano essere smontati e caricati sulla Tanja o stivati nel mercantile Ingerto, che sarebbe partito a giorni da Adventbukta.

Senza aerei il Krassin non poteva avventurarsi nella ricerca del pallone. Adolf Hoel definì l’atmosfera a bordo un misto di incredulità e indignazione. L’ultimo filo di speranza per gli uomini volati via col dirigibile fu spezzato da quelle risposte. Anche se fossero sopravvissuti all’impatto con il ghiaccio, ora i sei erano condannati a una morte certa. Con i danni alle eliche e all’albero di trasmissione e le scorte di carbone al minimo, il rompighiaccio non poteva avventurarsi da solo contro la massiccia banchisa a nord delle Svalbard in un ultimo, disperato tentativo di trovarli.

Ai russi non restava che puntare la rotta verso sud. Il 19 luglio il Krassin entrò nel Kongsfjord, dove si trovava già il Città di Milano. Anche i due idrovolanti Marina II e Savoia-Marchetti S55 erano tornati a Ny-Ålesund per un cambio di motori. I sopravvissuti dell’Italia erano già a bordo del Città. Il giorno dopo a Mariano venne amputata la gamba in cancrena e la spedizione italiana lasciò le Svalbard. I due Hansa svedesi furono scaricati a Tromsø il 24 luglio. Dovevano essere trasportati in Svezia, dove arrivarono l’indomani.




Il dirigibile aveva un equipaggio di 13 persone, di cui sette avevano partecipato precedentemente all’impresa del Norge. A seguito delle pressanti richieste del consiglio degli industriali milanesi, che aveva finanziato la spedizione, era stato permesso a due giornalisti di partecipare, alternandosi, ai voli del dirigibile. In totale, contando anche i tre scienziati presenti, erano 18 i partecipanti alla missione. Due anni prima il Norge aveva dimostrato al mondo intero che i dirigibili erano già affidabili nell’Artico. Questa volta, lo scopo non era solo raggiungere il Polo, ma anche condurre studi che producessero risultati scientifici. Una volta arrivati al Polo, alcuni ricercatori, dotati dell’equipaggiamento appropriato, avrebbero avuto il compito di scendere sulla superficie per qualche tempo, allo scopo di misurare il magnetismo terrestre, la forza di gravità e la profondità dell’oceano.

Il primo viaggio avrebbe dovuto svolgersi attraverso un’area precedentemente inesplorata a nord-est della Terra di Francesco Giuseppe. Tuttavia, il maltempo e alcune difficoltà sopravvenute con un meccanismo di manovra fecero sì che il dirigibile dovesse tornare indietro. Il volo durò non più di otto ore.

15 Maggio
Il secondo volo si svolse in condizioni non certamente migliori, ma ebbe maggior successo. L’Italia rimase in volo tre giorni interi, tempo durante il quale percorse 4.000 km esplorando un’area di circa 50.000 kmq.

Uno dei risultati della spedizione fu quello di smentire i racconti favolosi circa la Terra di Gillis, che sarebbe stata scoperta nel 1707 da un capitano olandese portatosi un grado di latitudine più a nord delle Svalbard. Nobile e il suo equipaggio esplorarono accuratamente la zona in cui avrebbe dovuto trovarsi il leggendario arcipelago, senza individuare nulla.

Un accurato lavoro di preparazione fu intrapreso per un terzo, ultimo viaggio. Vennero previsti gli scenari più sfavorevoli, compreso quello di un atterraggio forzato sui ghiacci. I membri della spedizione avrebbero esplorato diverse zone non cartografate ad ovest delle Svalbard e un’area sconosciuta a nord della Groenlandia.




Il resto dell’equipaggio, con l’attrezzatura, partì in treno da Narvik. Il 28 luglio la missione di soccorso svedese al completo fu accolta ufficialmente a Stoccolma: ad attenderli c’era una grande folla di famigliari, politici, ammiragli e generali. I piloti furono acclamati come eroi e le loro imprese elogiate in una serie di discorsi ufficiali. Durante la spedizione gli aerei svedesi avevano percorso in tutto 22.500 chilometri in 142 ore di volo intorno alle Svalbard. Nel frattempo, la notte del 26 luglio, anche il Città di Milano era arrivato a Narvik. Il contrasto tra l’accoglienza riservata agli svedesi e quella che aspettava gli italiani non poteva essere maggiore.

Nonostante l’ora, una folla numerosa si era radunata al molo e attendeva i sopravvissuti italiani immersa in un silenzio pesante e ostile. Per Nobile, già spossato e nervoso dopo essere stato informato degli attacchi ricevuti dalla stampa, dev’essere stata un’esperienza terribile. Era come se lo stessero accusando della scomparsa di Amundsen.

A Narvik, il giorno dopo, la gente poté solo intravedere l’equipaggio dell’Italia, prima che rientrasse in treno attraversando la Svezia, la Danimarca e la Germania. Il Duce aveva deciso che i vagoni dovevano essere sigillati, in modo che fosse impossibile rilasciare interviste o entrare in contatto con qualcuno lungo il viaggio. La spedizione in dirigibile si era trasformata in un’onta per l’Italia.




04:28 | 23 Maggio
L’Italia partì per il suo ultimo viaggio.

17:00
L’aeronave raggiunse le coste della Groenlandia. Per 30 minuti procedette seguendole, mentre i partecipanti alla spedizione effettuavano ricerche e scattavano fotografie.

00:00 | 24 Maggio
A mezzanotte e venti, l’Italia raggiunse il Polo Nord, grazie al vento in coda. Nobile, trionfalmente, adempì alla promessa che aveva fatto al Papa — la croce e la bandiera italiana furono lasciate cadere sui ghiacci. I partecipanti alla spedizione mandarono molti messaggi radio di auguri e dettero fondo a una bottiglia di cognac per celebrare l’occasione. Il vento e la nebbia, però, impedirono la discesa al di sotto dei 150 m dalla superficie. L’idea dello sbarco sui ghiacci del Polo Nord fu perciò abbandonata.

02:20 | 24 Maggio
Nobile era consapevole che sulla via del ritorno alla Kings Bay il vento avrebbe ostacolato la marcia. Ad un certo punto, prese in considerazione l’eventualità di puntare verso il Canada, avvalendosi ancora del vento in coda. Cionondimeno, Malmgren lo convinse a procedere diversamente. Nelle dieci ore in cui sarebbero stati in volo, fece presente l’esploratore svedese, il vento sarebbe potuto cambiare diverse volte. Inoltre, l’atterraggio su un campo non attrezzato avrebbe potuto avere esito incerto. Nobile concordò e dette ordine di tornare alla base.

La spedizione abbandonò il Polo Nord avviandosi lungo il 25° meridiano est, a una quota di 1.000 m. Tuttavia, per effetto del vento che aumentava, il dirigibile iniziò a deviare verso est. Nel giro di solo un paio d’ore, era già fuori rotta di almeno cinque gradi.

16:00 | 24 Maggio
La giovialità e l’allegria di poche ore prime avevano lasciato il posto, nell’equipaggio, al silenzio, alla concentrazione e all’attenzione. Di tanto in tanto si sentivano forti rumori, quando frammenti di ghiaccio, cadendo dalla carena sulle eliche, venivano scagliati contro il dirigibile. In alcuni casi le tele subivano piccoli danni, ma tutte le perforazioni erano prontamente individuate e riparate.

18:00
I venti si intensificavano fino a circa 50 km/h. Contrariamente alle previsioni di Malmgren, i venti meridionali non mostrarono alcun segno di ruotare in direzione sud. Il dirigibile si copriva sempre più di ghiaccio.

21:45
Nobile ordinò l’avviamento del terzo motore. La velocità all’aria aumentò fino ad oltre 100 km/h, ma, costretta a combattere contro un forte vento di prua, l’Italia si muoveva con lentezza. Fra le principali preoccupazioni del comandante vi erano il grande consumo di combustibile e l’eccessivo sforzo strutturale cui il dirigibile era sottoposto. Intorno alle tre del mattino uno dei motori venne fermato.

04:25 | 25 Maggio
Il dirigibile scarrocciava fuori rotta. Uscire al più presto dalla perturbazione era diventata questione di vita o di morte. Dopo aver stimato la distanza che restava da coprire, Nobile ordinò di riavviare il terzo motore.

09:25 | 25 Maggio
Il timone di quota si bloccò. Felice Trojani, che era di turno in quel momento, cercò di riportare il dirigibile in assetto livellato ma non vi riuscì. L’Italia continuava a scendere rapidamente. Nobile fece fermare tutti i motori. Senza chiedere il permesso, uno degli ufficiali gettò fuori bordo taniche di benzina; misura che si rivelò tuttavia di scarsa efficacia. L’accumulo di ghiaccio aveva reso il dirigibile troppo pesante, in modo tale da rendere ininfluente il rilascio di una zavorra tanto piccola.

10:00
Apparentemente la situazione era migliorata. L’Italia risalì a 900 m. Il capotecnico Natale Cecioni aveva smontato e poi rimontato il meccanismo del timone di quota, ma non era riuscito a determinare la causa dell’inceppamento. Due motori, quello centrale e quello di destra, erano stati rimessi in moto. L’Italia risalì a 1.500 m.

10:30
Cecioni avvertì che il dirigibile era diventato pesante. La parte posteriore iniziò a sprofondare e l’Italia cominciò a perdere quota. Nobile ordinò ai suoi uomini di portare i due motori funzionanti al massimo e di rimettere in moto anche il terzo. Questo ebbe il solo effetto di incrementare la discesa. Da quel momento non vi fu alcun modo di fermare la caduta. Nobile si rese conto che un incidente sarebbe stato inevitabile.

I massi di ghiaccio, frastagliati, erano sempre più vicini; ormai pochi metri fuori dalla cabina. Poi lo schianto. L’Italia urtò il pack 100 km a nord delle Svalbard alle ore 10.33 GMT del 25 maggio 1928. Il campo della Kings Bay era distante appena due ore di volo.




Fu allestito in tutta fretta un passaggio perché gli italiani potessero andare direttamente dalla nave al treno senza mettere piede sul suolo norvegese. Nel viaggio i sopravvissuti furono trattati come prigionieri, ma questo non risparmiò loro la vista di scene vergognose che si svolsero fuori dai finestrini. Specialmente in Danimarca e in Germania, dove erano state pubblicate circostanziate dicerie su presunti atti di cannibalismo durante la spedizione italiana, il viaggio fu straziante: la gente correva lungo i fianchi del treno facendo smorfie e mostrando i denti e alle stazioni appendevano manifesti con disegni grotteschi e ingiurie.

Solo in Svezia gli italiani furono accolti con contegno, con amicizia perfino. Per il povero Nobile, uno degli episodi più belli di quel periodo così buio capitò proprio in una stazione svedese, dove una bambina corse al finestrino a cui era affacciato il generale e gli porse un mazzolino di fiori. Gli svedesi riuscirono ad affrontare il lutto nazionale per la perdita di Finn Malmgren con dignità. L’ordine di isolamento impartito da Mussolini in Svezia fu un po’ allentato, in modo che Zappi, insieme all’inviato diplomatico italiano in Svezia, potesse fare visita alla madre di Malmgren, che abitava poco fuori Uppsala. All’incontro partecipò anche il cognato del professore, il dottor A. Fägersten, e fu lui a riportare poi alla stampa i dettagli di quel momento.

Zappi cominciò parlando dell’amicizia tra lui e Malmgren. Disse di essere arrivato a considerarlo come un fratello. Poi raccontò le ultime ore del ricercatore polare e si commosse elogiando il gesto eroico di Malmgren, che si era sacrificato per offrire agli altri due la possibilità di arrivare a terra, non solo perché si salvassero, ma perché cercassero aiuto per i compagni rimasti alla tenda. Infine consegnò la bussola. Dopo l’incontro sia Fägersten che la madre di Malmgren dichiararono di essere rimasti molto colpiti dalla sincerità di Zappi.

Dopo il disastro dell’Italia, la scomparsa del Latham e le tante spedizioni inviate alle Svalbard in estate e in autunno, il governo norvegese valutò se istituire una commissione di inchiesta. Come amministratrice delle Svalbard la Norvegia aveva tutto il diritto di farlo, ma nei primi anni successivi al trattato non si era sicuri delle modalità di applicazione della sovranità.

Alla fine si decise di non istituirla.

Se l’avessero fatto, forse il governo italiano sarebbe stato più cauto nelle conclusioni della propria commissione di inchiesta. Più avanti si creò un comitato internazionale cui prese parte anche Adolf Hoel come membro esperto, ma ormai era troppo tardi per cercare di sollevare Nobile dalle responsabilità che gli erano state attribuite. In una spedizione così complicata come quella voluta da Nobile nell’estate del 1928, con obiettivi sia scientifici che politici, era impossibile non incappare in qualche errore di valutazione.

Il giudizio sulla spedizione nella sua interezza non poteva che essere soggettivo e legato sia alle esperienze precedenti dei commissari che alla loro situazione politica. I membri della commissione d’indagine italiana furono nominati tra i sostenitori di Mussolini e di Balbo. Molti di loro erano fascisti attivi. Per questo era stata un’imprudenza da parte di Nobile criticare tanto aspramente la missione di soccorso italiana e in particolare il comportamento di Romagna Manoja, visto che la missione operava direttamente sotto la guida del ministero.



 Poi qualche cosa che dall’alto mi ruinava addosso mi fece cadere con la testa in giù. Istintivamente chiusi gli occhi, e con assoluta lucidità e freddezza pensai: “Tutto è finito”.

Nobile si trovò sdraiato sul ghiaccio fra i rottami, con intorno alcuni uomini del suo equipaggio. Nel momento in cui la cabina di comando si era schiantata al suolo, il dirigibile, a causa del notevole alleggerimento, risalì in cielo e scomparve in pochi istanti. Portò via sei membri dell’equipaggio, che al momento del disastro si trovavano all’interno dell’involucro e delle navicelle motrici laterali. Una considerevole quantità di equipaggiamento, attrezzature e provviste erano parimenti scomparse. Solo quelli che al momento dell’impatto erano all’interno della cabina, ora si trovavano in mezzo ai rottami.

I sopravvissuti all’incidente trascorsero del tempo a controllarsi vicendevolmente e ad osservare il pack circostante. Nobile pensò che la sua fine fosse questione di pochi minuti. L’esploratore artico aveva la sensazione che i suoi organi interni avessero subito danni irrecuperabili. Dunque, egli si ripeteva, sarebbe stato meglio così; in tal modo, non gli sarebbe toccato in sorte di vedere la disperazione e l’agonia dei suoi compagni.

L’anilina fuoriuscita dai serbatoi sferici, che l’equipaggio del dirigibile utilizzava per le misurazioni altimetriche, aveva disegnato un’ampia striscia rossa che si allungava per 50 metri, quasi come un animale ferito che si fosse lasciato dietro una traccia intrisa di sangue.
Nel frattempo, Behounek scoprì nella neve un contenitore in tela con dentro una tenda e sacchi a pelo. Fu presa la decisione di usare quanto restava del colorante per tinteggiare in rosso la tenda, così da renderla di più facile individuazione. Furono ritrovate alcune cassette di provviste, cadute sul ghiaccio al momento dell’impatto. C’era del pemmicam (un concentrato di carne essiccata, cioccolata, grasso e burro). Altra preziosa scoperta fu quella di una piccola borsa, caduta fuori dal dirigibile, che conteneva l’articolo più importante di tutti — un revolver Colt e una scatola con cento cartucce. Cinque giorni dopo, Malmgren l’avrebbe usata per abbattere un orso polare, accrescendo considerevolmente la riserva di cibo.

Il radiotelegrafista Giuseppe Biagi era sopravvissuto e la sua trasmittente era rimasta intatta. Questo dava qualche speranza, perché la nave appoggio dell’Italia, la “Città di Milano”, era di guardia in mare durante tutti i viaggi del dirigibile. L’altro telegrafista dell’Italia, Ettore Pedretti, avrebbe ricevuto per primo la chiamata di soccorso dei naufraghi. Pedretti effettivamente udì una parte del messaggio quattro giorni dopo l’incidente, ma, per qualche ragione, lo interpretò come segnale proveniente da una stazione radio a Mogadiscio, capitale della Somalia, in Africa, all’epoca colonia Italiana.

S.O.S.-Italia-Nobile. Caduti sui ghiacci a 81°14' di latitudine N e 25° di longitudine E. Vi sono due feriti alle gambe. Impossibile muoversi per mancanza di slitte. Biagi continuava a trasmettere chiedendo soccorsi, ma senza alcun risultato. Frattanto, le batterie erano sul punto di esaurirsi, insieme all’ottimismo di quelli che erano sopravvissuti alla caduta del dirigibile. Il giorno in cui Pedretti aveva ricevuto, ma non era riuscito a verificare, la chiamata di SOS dell’Italia, gli esploratori, demoralizzati, avevano avuto una discussione. Il giorno successivo, tre di loro, Malmgren, Mariano e Zappi si offrirono volontari per mettersi in marcia alla ricerca di assistenza. In tre settimane, speravano, sarebbe stato possibile raggiungere l’estremità settentrionale di Spitsbergen, dove erano molto più alte le possibilità di incontrare una grande nave.

Gli altri erano scettici sull’idea di dividersi in gruppi. Cecioni era convinto che Malmgren, Mariano e Zappi non sarebbero riusciti a resistere a nemmeno un giorno di marcia sui ghiacci e sarebbero certamente tornati indietro. “Ci vediamo domani sera”, ripeteva. In un primo tempo, Nobile era contrario all’idea di dividere il gruppo, ma Malmgren, esperto esploratore artico, aveva proposto il piano. Nobile pensò che l’uomo sapesse cosa stava dicendo e li lasciò andare.

31 maggio: tre chiazze nere sono rimaste visibili per l’intera giornata, riducendosi gradualmente di dimensione man mano che si allontanavano lentamente verso occidente.




Non servì a niente che anche la maggior parte dei comandanti delle altre spedizioni alle Svalbard concordassero sulla cattiva gestione di Romagna Manoja. A suscitare l’indignazione di Riiser-Larsen, del comandante Tornberg, del professor Samojlovič, del contrammiraglio Herr e di Gunnar Hovdenak erano state soprattutto la mancanza di una guida chiara, le comunicazioni radio inaffidabili e il rifiuto di mettersi alla ricerca degli uomini scomparsi con il pallone.

Adolf Hoel fu chiamato a testimoniare al processo avviato in Italia dopo il rientro di Nobile. Venne richiesta la sua presenza tra il 7 e il 16 gennaio 1929. Superata una serie di perplessità, il ricercatore polare diede la sua disponibilità come teste, ma non senza prima aver discusso con Fridtjof Nansen alcune questioni che a suo avviso sarebbero emerse in quella sede. Dunque, quella proposta da Hoel alla commissione italiana non sarebbe stata una sua visione personale del disastro dell’Italia, bensì una versione concordata e ufficiale, messa a punto dai maggiori statisti norvegesi nel campo delle questioni polari.

Niente poteva riportare in vita i morti, perciò l’obiettivo del governo norvegese era quello di consolidare e potenziare il ruolo della Norvegia alle Svalbard, e di conseguenza magari anche nell’Artide. Per tutto il periodo successivo al disastro dell’Italia e durante le inchieste della stampa sulle azioni di ricerca, Fridtjof Nansen si era sempre tenuto in disparte. All’inizio aveva dato la sua disponibilità a mettersi a capo di una missione di soccorso con uno Zeppelin tedesco guidato da Hugo Eckener, il più grande concorrente di Nobile. L’idea però era stata presto accantonata. Una ricerca in dirigibile avrebbe avuto parecchi vantaggi, ma comportava un immenso apparato di supporto.

Un candidato possibile era il Graf Zeppelin, il doppio più grande dell’Italia e costruito con tutt’altra tecnologia. Ma sia l’hangar che il pilone di ormeggio di Ny-Ålesund sarebbero stati troppo piccoli e non sarebbe nemmeno stato possibile far portare in tempo utile le bombole di gas idrogeno a Kings Bay. Il percorso dalla Germania alle Svalbard doveva essere concordato e preparato con largo anticipo. Il dirigibile tedesco non aveva speranze di arrivare alle Svalbard entro l’estate del 1928.












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