CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

sabato 30 maggio 2020

VERSO IL GHIACCIAIO MUIR (26)




















Precedenti capitoli:

Nella bufera con Muir (23/5)

Prosegue con i...:

Cercatori d'oro (27/8)













L’articolo col quale la Rivista, nel suo numero dello scorso Viaggio, annunziava la partenza della spedizione diretta da S. A. R. il Duca degli Abruzzi, mi permette di essere molto breve nel dire dei preliminari riguardanti la genesi del progetto e l’organizzazione della carovana.

Fu nei primi giorni di Febbraio, che il Principe decise di dirigere una spedizione nell’Alaska, in un tentativo di salita al monte Sant’Elia, scegliendo a compagni il cav. Umberto Cagni, Suo ufficiale d’ordinanza (Socio della Sezione di Torino del C. A. I.); il cav. Francesco Gonella, presidente della Sezione di Torino del C. A. I.; il cav. Vittorio Sella (Socio della Sezione di Biella del C. A. I.) e me. Completavano la carovana quattro guide valdostane: Giuseppe Petigax e Lorenzo Croux di Courmayeur, Antonio Maquignaz e Andrea Pellissier di Valtournanche, ed Erminio Botta, portatore abituale di Sella, già suo compagno nel Caucaso.




Fu cominciato subito il non breve né facile lavoro di preparazione. Dal dott. Paolo De Vecchi, socio della Sezione di Torino del C. A. I., che abita a San Francisco di California; dal prof. Fay di Boston, già presidente dell’Appalachian Mountain-Club; dal prof. Davidson di San Francisco, e Israel C. Russel di Michigan, arrivarono in copia consigli ed indicazioni bibliografiche; e a poco a poco si venne riunendo tutto il materiale di equipaggiamento, mentre si davano le disposizioni per facilitare e rendere più rapido possibile il viaggio. L’equipaggiamento venne fatto quasi per intero in Italia ed a Londra: solo i viveri e le armi furono acquistate negli Stati Uniti, a San Francisco.




La spedizione partì da Torino il 17 Maggio u. s., salutata da numerosi amici e colleghi, seguita dai voti e dagli augurii di tutti; il 22, dopo passati tre giorni a Londra per completare il materiale, salpava da Liverpool sul postale Lucania della Canard Line, e arrivava a Nuova York la sera del 28, dopo una buonissima traversata. La mattina del 29 proseguiva sulla Pennsylvania Railroad, recandosi direttamente a San Francisco, dove arrivò la sera del 3 Giugno.




I giorni dal 4 al 9 furono impiegati nel fare l’approvvigionamento di viveri, e la sera del 9 partimmo da San Francisco in ferrovia, diretti a Seattle, città del Puget Sound, percorrendo la California del Nord, l’Oregon, e lo Stato di Washington, sul versante occidentale delle Montagne Rocciose, quasi sempre in mezzo alla lussureggiante vegetazione della foresta vergine.

Arrivati a Seattle la sera dell’11, c’imbarcammo il 13 sul piroscafo City of Topeka diretti a Sitka, la capitale dell’Alaska. Qualche giorno prima di noi era partita da Seattle l’Aggie, una goletta noleggiata da S. A. R., doveva raggiungere Sitka, parte a rimorchio di un vapore, parte navigando a vela, e aspettarci là. Aveva a bordo dieci portatori americani, di Seattle, comandati da W E. S. Ingraham, che li aveva arruolati ed equipaggiati completamente per la spedizione.




Il nome d’Alaska è oggi diventato così popolare per la scoperta dei ricchi depositi d’oro, che mi posso limitare a pochi cenni geografici.

Il 141° di longitudine ovest (Greenwich) la separa dal territorio Inglese fino a 30 miglia dal Pacifico: da tale punto il confine segue la sommità delle montagne situate parallelamente alla costa e quindi fino a 54. 40' di latitudine una linea irregolare lungo il canale di Portland e compresa fra i 131° e 133° di longitudine. Esso assegna così all’Alaska una stretta lingua di terra che orla la Columbia per circa 500 miglia. Nella sua parte meridionale questa porzione di costa è coperta da un intricato arcipelago d’isole, in continuazione con quello che si protende lungo la costa della Columbia fino all'isola di Vancouver. Su questa estrema punta meridionale del territorio che si trova Sitka, la capitale dell'Alaska, e poche altre piccole colonie di bianchi, frammisti ad un numero più o meno grande di Indiani.




Le condizioni generali del paese sono oggi presso a poco quelle che erano trent’anni fa, quando esso passò dal dominio Russo a quello degli Stati Uniti. Questi hanno continuato con mezzi più equi e sotto un controllo più rigoroso del governo centrale lo sfruttamento della regione, che fino ad oggi ha dato come prodotti principali pelliccia, pesce e minerali.

Gli Indiani della costa, sottoposti ora ad un regime liberalissimo, in gran parte semicivilizzati, almeno nell’apparenza esteriore, vivono indisturbati, e, senza le invincibili tendenze di razza, che ne rendono molto limitata la perfezionabilità, potrebbero procurarsi condizioni di esistenza molto migliori con ciò che ricavano dal commercio colla Compagnia che monopolizza i prodotti della penisola.




Il viaggio da Seattle a Sitka dura sei giorni; il battello percorre il lungo stretto fra l’isola di Vancouver e la costa della Columbia, poi i canali tortuosi dell’arcipelago Alexander, straordinariamente pittoreschi, ricchi di quadri grandiosi di foreste vergini e di ghiacciai che scendono fino al mare. Mi duole che l’ampiezza dell’argomento non mi permetta di fermarmi a descrivere l’ambiente fantastico, dalle strane notti luminose, nelle quali i tramonti si confondono coll’alba; il mare popolato di candidi icebergs che vanno alla deriva silenziosi, cullati dolcemente dall'onda lunga del battello; le rive capricciosamente frastagliate da insenature e canali, coperte dappertutto da un fitto mantello di conifere.




Il viaggio è un continuo succedersi di quadri così ricchi di disegno e di colori, che ad ammirarli si passano notti intere sul ponte del battello, soggiogati dal fascino di quella natura selvaggia, così nuova e così forte mente impressionante.




La città più popolosa dell’Alaska è Juneau, l’unica sorta dopo che il paese appartiene agli Stati Uniti, situata in fondo a una piccola insenatura, in vicinanza di una importante miniera d’oro, la Treadwell Mine.

Juneau è ora diventata il centro d’approvvigionamento dei minatori che si recano ai ricchi placers dell’interno, e, se disillusioni troppo gravi non troncheranno la forte emigrazione che si sta compiendo ora, la città prenderà uno sviluppo notevole in pochi anni. Quando vi passammo in Giugno (si cominciava appena a parlare delle scoperte aurifere), era un paese tranquillo, dalle case di legno, colle vie in parte coperte da un rozzo impiantito d’assi, in parte ancora suolo di foresta coi monconi sporgenti dagli alberi abbattuti.




In mezzo ai bianchi, che formano il nucleo principale di abitanti, circolavano Indiani sudici, dai visi abbrutiti, giallastri, incorniciati da capelli neri, uscii, le spalle coperte da scialli color rosso-mattone.

Due mesi dopo arrivandovi, alle 11 di notte, trovammo la città brillantemente illuminata, le botteghe aperte, le vie piene di una folla eccitata che discorreva animatamente in gruppi, creando un ambiente elettrizzato, in preda al fermento di desideri sconfinati, di speranze pazze.




Da Juneau il battello risale ancora fino a Glacier Bay prima di far rotta verso Sitka. Sul golfo azzurro, cosparso di blocchi di ghiaccio, che paiono tombe marmoree in un vasto cimitero, si innalzano due grandi bacini glaciali. A sinistra la catena imponente del Fairweather, a destra e sul fondo della baia il ghiacciaio di Muir, una enorme fiumana che termina bruscamente nel mare con un muro verticale di ghiaccio lungo due miglia e alto 100 metri, coronato da innumerevoli pinacoli e guglie, colla base minata, scavata di solchi e di caverne dall'onda clic vi si infrange. Dalla parete cadono a brevi intervalli masse di ghiaccio nel mare con un tonfo sordo. Misurazioni accurate fatte dal geologo G. F. Wright stabilirono che il centro del ghiacciaio si muove con una velocità di oltre 20 metri nelle 24 ore.




…La notte che seguì alla partenza da Juneau fu la più fantastica di tutto il viaggio…

Col calar del sole tutto l’orizzonte, limitato da grandi catene cariche di ghiacciai, si fece limpidissimo, e cominciò a tingersi dei colori meravigliosamente sfumati del tramonto. Alle dieci era ancora giorno chiaro, poi la luce diminuì gradatamente fino alla mezzanotte.

Il color di rosa che tingeva le vette e le pareti nevose si fece più pallido, le strisce aranciate, azzurre e rosee del mare scomparvero a poco a poco, passando pei toni più delicati. Persisteva sempre a ponente una fascia rosso-aranciata che dava strani riflessi ai monti da quella parte; tutto il resto del cielo era tinto in azzurro pallido, che di ventava più chiaro e più freddo all’orizzonte. Su di esso spiccavano nei loro particolari più minuti le montagne, il bianco crudo della neve, le dentellature bizzarre delle creste.

La luna gialla, sbiadita, non dava nessuna luce; si vedevano poche stelle, pallidissime.




All’una e mezzo del mattino cominciò la luce dell’aurora, mentre scompariva a poco a poco il colore di ponente. La nave scivolava senza rumore, come furtiva, nell’ alto silenzio di quel mondo fatato.

Al di là del promontorio che separa il canale di Lynn dalla Glacier Bay, si cominciarono ad incontrare icebergs, dapprima rari, isolati, poi sempre più numerosi, staccatisi dai ghiacciai che scendono nella baia, oramai poco distanti. Ma eravamo nel paese delle sorprese, degli improvvisi cambiamenti di scena. L’aria è così satura di umidità che il minimo abbassamento di temperatura, causato da un mutamento di direzione del vento, dal nascondersi del sole dietro una nube, ne determina la condensazione.

Compare all’orizzonte una bassa cortina di nebbie grigiastre che si allarga, si estende, fino a coprire tutto di un leggiero velo bianco, luminoso, ma non trasparente, e la nave deve fermarsi per non correr rischio di incontrare un iceberg. A vederli non si direbbero temibili; senonché il ghiaccio che sporge dall’acqua è appena una piccola parte della massa totale, e l’urto non sarebbe indifferente. Essi sorgono improvvisamente dalla nebbia e improvvisamente scompaiono, portati dalle correnti, come sono venuti.




Ad un tratta, nel mezzo di un enorme alone, compare il disco pallido del sole; in meno di un minuto, come per magia, la nebbia si dilegua e risplendono di nuovo luce e colore. Il mare bigio è diventato azzurro ametista; migliaia d’anitre, stupite della vicinanza del piroscafo, s’alzano a volo gridando dall’acqua e dagli icebergs.

La scena dura appena dieci minuti e s’è da capo avvolti nella nebbia, formatasi in un batter d’occhio, come per incanto, nell’aria circostante. Finalmente il sole, già alto sull’orizzonte, trionfa della nebbia, permettendo alla nave di entrare nella insenatura dove scende maestoso il ghiacciaio di Muir.

Tutta l’atmosfera è limpida e trasparente, il mare, di un azzurro appena più intenso di quello del cielo, è leggermente increspato, con strisce d’acqua lucida, che segnano le correnti, ed è coperto da un gran numero di icebergs non molto grossi, con qualche raro blocco gigantesco che conserva la forma caratteristica, irregolarmente geometrica, dei seracchi: alcuni alti sull’acqua, altri come grandi tavole galleggianti; talora formati da più icebergs che, riunitisi, si sono saldati fra loro, prendendo le forme più bizzarre.




Fra i blocchi bianchi, coperti di laminette e di fioriture ghiacciate, spiccano alcuni massi dalla superficie liscia, color verde mare: sono icebergs capovoltisi, in modo che viene a sporgere sull’acqua la parte che prima era sommersa. A sinistra si inalza la catena sormontata dalle vette del La Pérouse, Crillon e Fairweather, di una arditezza di disegno da rivaleggiare colle più imponenti montagne conosciute. Le punte vicine, meno alte e meno isolate, quasi scompaiono dinanzi alla straordinaria maestà delle maggiori. L’intiera catena è situata su un promontorio largo 50-60 chilometri, fra la Glacier Bay e l’Oceano Pacifico. Da essa scendono nella Glacier Bay quattro ghiacciai, che un piccolo contrafforte sporgente nella baja separa dal ghiacciaio Muir.

A destra della catena del Fairweather, e nel fondo della baia, scende il ghiacciaio di Muir, un enorme altipiano che termina bruscamente nel mare con una parete verticale di ghiaccio lunga 1600 metri ed alta 80, coronata da innumerevoli pinnacoli e guglie, colla base frastagliata, scavata di solchi e di caverne dall’onda che vi si infrange contro. Da questa fronte cadono a brevi intervalli masse di ghiaccio nel mare, sollevando sprazzi giganteschi, e formando lunghe onde che si rompono con violenza sulle rive della insenatura.




Dietro la fronte, rotta e solcata in tutti i sensi da numerosi crepacci, il ghiacciaio si estende quasi piano fino ad un grande anfiteatro di 50-60 chilometri di diametro, dove riceve nove grandi affluenti e diciassette minori che scendono da vette di disegno non molto interessante.

Il ghiacciaio di Muir fu esplorato per la prima volta nel 1879 dal geologo di cui porta il nome; nel 1886 G. F. Wright, con due compagni, passò un mese nella baja per studiarne il movimento. I risultati delle sue osservazioni sono sorprendenti: nel mese di agosto il ghiacciaio si avanza nella baia con una velocità media di metri 12.20, cioè di metri 21.30 al centro e 3 ai margini. Siccome la fronte del ghiacciaio ha una superficie di sezione di 464 470 metri quadri, esso scarica nel mare più di 5 600 000 metri cubi di ghiaccio al giorno.




Solo nella Groenlandia sono state misurate velocità paragonabili a questa; nelle nostre Alpi il movimento dei ghiacciai è molto più lento. Le velocità massime verificate con ripetute osservazioni da Hugi, Agassiz, Forbes e Tyndall, sono di 48 centimetri al giorno pel ghiacciaio d’Aletsch, di 56 centimetri per quello di Grindelwald, e di 90 centimetri per la Mer de Giace. Questa grande differenza appare tanto più strana, quando si osservi che l’inclinazione del pendio sul quale scivola il ghiacciaio Muir è appena di 19 metri per 1000, mentre nelle Alpi le pendenze minime sono all’incirca del 50 per 1000.




La spiegazione non può quindi trovarsi che nella grande differenza di massa fra il ghiacciaio di Muir e quelli delle Alpi, e si è condotti ad ammettere che la velocità colla quale si muove un ghiacciaio dipenda molto meno dalla inclinazione del fondo che dal volume della corrente in sè stessa (Wright). Numerose e certe indicazioni provano che il ghiacciaio di Muir diminuisce rapidamente, tanto che la fronte sarebbe retroceduta di oltre 900 metri dal 1886 al 1901.

Risalendo molto più addietro, troviamo un prezioso documento nella descrizione della Glacier Bay nel 1794, lasciataci dal Vancouver nella relazione del suo viaggio attorno al mondo, dalla quale appare che il ghiacciaio di Muir riempiva quasi totalmente l’insenatura occupata oggi dal mare.



  
Per concludere questo primo capitolo mi preme un particolare riconoscimento al dott. De Filippi che mi ha rimesso per lo studio i pochi animali raccolti durante la spedizione; provengono tutti dal ghiacciaio di Malaspina, dove furono trovati sulla neve; essi appartengono a cinque specie. Due di esse sono insetti volanti, capitati per caso sul ghiacciaio e venuti forse da grande distanza.

Esse sono: un Dittero, Syrphus arcuatus, Fallen, specie comune in Europa e nell’America settentrionale, come mi scrive il dott. Ermanno Giglio Tos di Torino che ebbe la compiacenza di determinarlo, e un Imenottero, Ichneumon hiemalis, Cress., che fu determinato dal dott. Giuseppe Kriechbaumer del Museo di Monaco.




Appartengono invece senza dubbio alla fauna propria del ghiacciaio le tre altre, cioè: una Podura del genere Isotoma molto affine, se non identica, alla I. Besselsi, Pack; un Aracnide dell’ordine degli Opilionidi di cui il prof. Pavesi ha fatto il tipo di un genere nuovo col nome di Tomico- merus bispinosus; un Anellide oligochete che deve anch’esso costituire un nuovo genere, e che io ho descritto col nome di Melanenchytraeus solifugus.  Mandai quest’insetto al prof. Grassi per la determinazione precisa della specie.

Mi preme inoltre ricordare con particolare dedica a riguardo, i miei cani polari, che mi seguiranno (o precederanno) per il resto delle spedizioni; i quali cani seppur abituati ai rigidi climi dell’inverno sanno al meglio partecipare al lavoro dell’uomo, grazie a loro, infatti, le pesanti slitte vengono facilmente mosse nel gelido terreno.

È dovere dinastico e non solo di Principe della casata Savoia qual riconoscimento particolare a questi cani nel saper adempiere al proprio compito, soprattutto per quelli che cercheranno l’Oro; un peccato, però, vederli, povere bestie, trainare slitte di altri, seppur solo una di loro dalla bianca zanna posso annoverare qual miglior persona e non più cane. A questo Lupo che mi fa compagnia dedico la presente breve strofa e mai si detta rima…  










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